DAY 6
Mercoledì 6 settembre. Come scrivevo poche righe fa, sul tetto dell’immaginazione, anche questo è pur sempre un giorno da vivere. Per un motivo ben preciso: il nostro volo di ritorno in Italia è alle 20e45 al JFK, non abbiamo bagagli da stivare, ho già provveduto al check in, e abbiamo ancora un buon numero di ore da vivere a New York. Tuttavia faccio fatica a scrivere, a parlarne, a concludere questa esperienza meravigliosa. Scrivo e poi mi fermo, poi riparto controvoglia, la narrazione è meno fluida. So che appena avrò terminato, sarò sulla via di ritorno. Avrò detto tutto, riposto le valigie, sistemato i ricordi. Come ogni viaggiatore che si rispetti, sto già strutturando le ipotesi di viaggio future. Leggo e studio ogni sera, sogno terre sconosciute, e attendo che uno di questi sogni prevalga sugli altri, anche se ci siamo quasi. Il prossimo viaggio è in allestimento, ma non mi va di tornare a casa. A New York si sta troppo bene, e terminare questo racconto significa lasciare questa magnifica città.
Ma le cose accadono per necessità, come mi spiegò anni fa il mio mentore. E’ l’Ineluttabile, e non si può fare altro che andare avanti. Oggi la nostra routine cambia un pochino. Dopo la lauta colazione, che invece resta la pietra miliare su cui poggia tutta l’architettura del giorno, torniamo in camera e finiamo di preparare le valigie. Ci accomiatiamo dalla nostra tana, lasciamo i trolley nel deposito bagagli dell’hotel e usciamo per l’ultima passeggiata mattutina. Scegliamo l’ottava in direzione uptown. La prima cosa che notiamo è che si sta meglio di ieri. Il caldo si è in qualche misura attenuato. La seconda cosa che balza all’occhio è che non troviamo più le strisce pedonali, perché nella notte hanno asfaltato qualche centinaio di metri di strada, che oggi è nuova di zecca e in via di completamento. La terza cosa del giorno è che oggi c’è più traffico del solito. Traffico di mezzi e traffico umano. E’ pieno di gente diretta al lavoro col proprio zainetto, che sembra un elemento protesico collettivo, data la sua diffusione. L’impressione è di essere a un congresso di paracadutisti.
Proseguiamo fino alla 42esima, dove svoltiamo a destra. Facciamo un giro dentro al Bryant park, che è una perla verde che vive all’ombra della Public Library. In questi giorni lo abbiamo sfiorato più di una volta, ma non lo abbiamo mai guardato davvero. E’ un luogo che pullula di persone, ognuna chiusa nel suo angolo di pace in prossimità del caos che di lì a qualche metro dilaga. Chi legge, chi riposa, chi osserva il vuoto strapieno davanti a sé, chi mangia una cosa, chi fa due chiacchiere con un amico o coi propri pensieri. Eleggiamo il Bryant come location perfetta per uno spuntino a pranzo. Adesso però abbiamo altro da fare. Costeggiamo la Grand Central Station ed entriamo nel palazzone nuovo di zecca del One Vanderbilt. La nostra meta è il Summit, l’osservatorio sito fra il 91esimo e il 93esimo piano.
Va ora in scena un viaggio dei sensi, in cui l’illusione ottica governa ogni spazio, dall’ascensore in poi. Bisogna indossare gli occhiali da sole perché non siamo in un semplice osservatorio. Specchi e giochi di luce sovrapposti stordiscono i visitatori e perforano la retina all’occorrenza. Siamo nel cuore di Manhattan. Il Chrysler e l’Empire sono lì a un passo. La visuale è nitida e perfetta. La luce è simile a quella che si trova in alta montagna. L’esperienza è un misto fra incessante vertigine ed euforia estatica. Sotto e sopra diventano concetti relativi. Girovaghiamo in assenza di gravità. E’ uno spettacolo visivo mai visto, che racconta lo spazio in modo innovativo.
Le immagini e i suoni si proiettano ovunque senza soluzione di continuità attraverso tre piani che costringono i viaggiatori a riorganizzare la percezione, ad evolversi a livello sensoriale, a spingersi oltre il concetto stesso di profondità, a ribaltarne il senso, ad esserne infine assorbiti, tanto da divenire essi stessi profondità in senso collettivo e condiviso. Gli specchi sono via via inframezzati da enormi varchi che restituiscono una New York bellissima in questa giornata di sole, e l’alternanza fra le immagini riflesse e quelle reali fornisce un effetto complessivo abbacinante.
Air è un’esperienza immersiva multisensoriale: l’installazione firmata Kenzo Digital prevede anche una sala traboccante di palloni d’argento, in cui si annulla lo scarto fra adulti e bambini, tanto da spingere chiunque all’euforica e infantile leggerezza del gioco. Luce e immagini rimbalzano su sfere, pareti e pavimenti dispiegando ulteriori giochi di prestigio e infinitesimali inganni visivi. Air non sembra avere limiti, la sua forma muta attraverso gli specchi che ricoprono ogni superficie disponibile.
Ad ogni passo si generano immagini totalmente nuove, dettate da prospettive all’ennesima potenza. Sembra di galleggiare dentro le deformazioni visive di “Inception”, o nel contorto multiverso del Dr. Strange. Il cervello fatica nel compiere uno sforzo che si traduce infine in soave smarrimento. L’ambiente esterno sembra non porsi limiti spaziali, non avere confini, sembra far parte del complesso sistema di specchi, a cui si impasta e mescola come sulla tavola di un artista visionario. La città si fa largo da ogni pertugio disponibile, si affaccia e poi si nasconde ed entra ed esce dal campo visivo e non sai più se sia Lei o il suo ennesimo riflesso a transitarti davanti agli occhi.
La realtà fisica muta connotati. Il grande illusionista trasforma qualcosa di ordinario in straordinario. Sottrae oggetti al comune intuito visivo per farli riapparire chissà dove, anche in tanti luoghi insieme. Occulta le nostre stesse figure, moltiplicandole illimitatamente. Vorremmo capire il trucco, farlo nostro, ma non riusciamo a guardare oltre, a guardare davvero, e preferiamo essere ingannati. Air è New York, il Regno di Oz, il Grande Prestigiatore. Vorremmo continuare a sognare e restare qui per sempre, per sentir scorrere dentro di noi l’energia travolgente di questa città di cui il Summit si rivela emblema e sintesi.
Kenzo stesso ha dichiarato che NY è la sua casa e la sua costante fonte di ispirazione e che Air è uno spazio creato per condividere l’inebriante senso di aspirazione e ispirazione che NY concede a tutti coloro che la visitano, un faro di possibilità che rende omaggio a tutto ciò che NY è, può essere e sarà. Direi che ha colto nel segno, onorando il luogo magnifico in cui ha la fortuna di vivere.
Dopo esserci affacciati sul roof galattico del Summit e aver trovato finalmente una t-shirt per me, usciamo a fatica dal Vanderbilt, come se ci cacciassero fuori a pedate. Per fortuna tutto è subito e di nuovo dimenticato, perché il grattacielo comunica con la Grand Central Station, un altro gioiello da ammirare in successione libera. E’ la stazione ferroviaria più grande al mondo con le sue 48 banchine e i suoi 75 binari disposti su più livelli che scendono e si aggrovigliano fin dentro le viscere della terra.
Il Main Councourse è l’atrio principale, dove troviamo le biglietterie e il centro informazioni, che domina il salone principale. L’icona della Central Station, posta proprio sopra il banco informazioni in cui lavora Samuel L. Jackson, è l’Information Booth Clock, un orologio in opale a 4 facce, impostato sull’orologio atomico dello U.S. Naval Observaotry di Bethesda. Un segnatempo alquanto affidabile, a quanto pare. In alto, una mappa stellare impreziosisce la volta verdognola del soffitto.
Di colpo sembra di trovarsi nei meandri della stazione di Parigi in cui vive segretamente Hugo Cabret, l’orfanello che campa d’espedienti ed entra ed esce da prese d’aria e passaggi segreti per sfuggire alla grinfie dell’ispettore ferroviario Gustav. Un luogo in cui non mi sorprenderei di incrociare la bottega di Georges Melies, uno dei padri del cinema. E così osservo con cura le grate a muro, dietro cui potrebbe nascondersi chissà quale segreto. Forse il figlio del defunto orologiaio è lì nei paraggi, ad azionare i polverosi ingranaggi del tempo.
Quasi mi sorprendo nel trovare file di treni pronti a partire nel caldo ventre di Grand Central. Sai che è una stazione ma non ne sei del tutto certo. A prima vista è un crocevia in cui si intrecciano le vite e le storie e i destini della gente, un luogo da attraversare o in cui perdersi o fermarsi a discutere o in cui dare un’occhiata in giro. Invece da lì i treni sferragliano per ogni dove sul territorio americano, dilatando ulteriormente le maglie del sogno che New York incarna.
Usciamo dalla stazione dopo aver osservato uno degli antichi ascensori in azione ed entriamo nel Grand Central Market, un coloratissimo spazio in cui si vendono prodotti alimentari freschi di ogni tipo. E’ ora di pranzo e optiamo per un piatto di salmone piccante appena confezionato da mani sapienti. Torniamo al Bryant, come promessoci, e troviamo a sorpresa un baracchino mobile di Nathan’s, quello di Coney Island. Non possiamo perderci il miglior hot dog di NY, e ne acquistiamo due. Sono buoni, ma non vado pazzo per gli hot dog e non ne traggo particolare godimento. Due morsi e siamo già pieni. Il salmone dovrà aspettare.
Sono le 14, non abbiamo le idee chiare sul da farsi, ma non possiamo ritirarci adesso. Abbiamo ancora 4-5 ore da gestire e non intendiamo sprecarle. Scorrendo rapidamente la mappa, notiamo che sul versante occidentale di Central Park, all’altezza della metà del parco, c’è il Museo di storia naturale. Con la metro D possiamo arrivarci in 15 minuti, abbiamo ancora il nostro pass da sfruttare (anche se sul punto nutro più di un dubbio) e ci sembra una buona idea. Scendiamo e troviamo subito il nostro treno. Lo prendiamo. E’ anche più rapido del previsto, una scheggia che schizza impazzita senza fermarsi verso la nostra meta. E invece no, non si ferma mai, o quasi, tantomeno all’81esima. Abbiamo preso l’espresso per il Bronx, giusto per distinguerci fino alla fine, per darci un tono e non rendere banale neanche quest’ultimo giorno. Il treno continua a filare, e anziché all’81esima scendiamo alla 110ma, alla fine del parco, l’ultima fermata prima di finire per sempre nel Bronx. Poco male, riprendiamo il treno a ritroso, risaliamo la china, decidiamo di visitare lo stesso il museo in versione superfast. Il pass è esaurito, come temevo, e dobbiamo metterci in fila per entrare. Facciamo presto. Sono le 15 ed entriamo a passo svelto. Franci prende possesso della mappa e mi trascina con veemenza fra una sezione e l’altra. Alterniamo la visita alle sale a rapide sortite nei negozi per bambini in cui cerchiamo dei regalini per Giamma e Iri.
Il museo è variegato e interessante, ma non possiamo godercelo come vorremmo, quindi voliamo fra un piano e l’altro, fra reperti storici di popoli antichi, meteoriti, minerali che sembrano provenire dal pianeta Krypton più che dal distacco di Pangea, pietre preziose di ogni foggia e colore, e gli immensi scheletri dei dinosauri che chiudono in bellezza una mostra che avrebbe meritato ben altra considerazione. La sensazione è stata di inabissarsi fugacemente nelle grotte dei sogni dimenticati di Herzog, tanto è misteriosa la storia della vita e dell’evoluzione degli abitanti della Terra.
Sono le 17, acquistiamo due tazze per i bimbi e filiamo via rapidamente. Riprendiamo la metro in direzione downtown. Stavolta azzecchiamo tutto, eccetto l’uscita in Penn Station. Allunghiamo ma di poco il nostro tragitto di ritorno in albergo. Ritiriamo il bagaglio e ritorniamo in stazione per prendere la LIRR verso Jamaica. Ci troviamo in un inferno incomprensibile. Sembra il 2046.
Treni di ogni sorta partono verso ogni direzione su vari livelli, il numero di persone in attesa è impressionante. La folla mi impedisce persino di vedere i monitor delle partenze, chiediamo indicazioni ma sono tutti indaffarati e ci forniscono informazioni sommarie. Ci mandano a destra, poi a sinistra, poi di sotto, e poi più sotto ancora. Alla fine troviamo la biglietteria giusta, facciamo i biglietti e individuiamo il track. Entriamo in un tunnel che sembra non finire mai, scendiamo altre scale e troviamo il treno per Jamaica.
Non sappiamo come siamo arrivati lì, ma ci siamo. Il treno è strapieno, ma siamo in trance agonistica e restiamo in piedi senza cercare posti a sedere, per scaricare a terra la tensione. Sono le 18e15, dovremmo arrivare a Jamaica per le 18e45. E’ così. Dopo aver attraversato il Queens come all’andata, scendiamo e ci mettiamo in fila per fare il biglietto per l’Air train, l’ultimo baluardo prima del terminal. La fila è corposa in tutte le biglietterie automatiche, il tempo stringe e e sembrano esserci dei problemi. Qualcosa non va, nessuno riesce a fare i biglietti. Iniziamo a preoccuparci, finchè un dipendente dell’aeroporto grida, sorridendo e scuotendo i suoi lunghi dreadlocks: “AIR TRAIN IS FREE! AIR TRAIN IS FREEEE!”. E allora via, tutti a bordo senza pagare. Arriviamo a destinazione, ci dirigiamo al terminal, passiamo i controlli, che in uscita sono sempre più rapidi, e raggiungiamo il gate a mezz’ora dall’imbarco.
Mentre attendo, do un occhio alla ricevuta del check in. Nella mail di conferma della British sembra manchi qualche dato per completare la registrazione. Mi dirigo al banco per chiarirmi le idee proprio mentre il nome di Francesca risuona distintamente nell’altoparlante aeroportuale. Me lo confermano, mancano dei dati, così completiamo insieme la registrazione mentre osservo Franci tornare dal bagno spaventata per aver sentito il suo nome amplificato mentre si rinfrescava. Non abbiamo perso l’ultima occasione prima dell’imbarco per passare inosservati. E’ una questione di coerenza. Dividiamo il salmone piccante acquistato al Grand Central Market e siamo di nuovo pronti a salpare.
Ormai è notte. Mi godo il decollo dal finestrino. Mentre osservo le luci di Long Island scorrere sotto di noi, mi vedo da fuori con lo sguardo svanito e dissolto verso l’America, come Jim in partenza per Parigi nel film di Oliver Stone. So che tornerò, anche se non so quando. Amo profondamente questa terra, come se fosse la mia. E’ una terra che sento dentro anche quando sono lontano, è una landa che non smetto mai di sognare e che mi attira da sempre a sè. Amo l’America senza partenze umoristiche. Che lo sappiano anche le forze di polizia statunitensi che mi fermeranno nel cuore di una notte a stelle e strisce del futuro.
Mi giro, vedo Franci stanca ma sorridente. La hostess ci porta da bere. Brindiamo a New York e al nostro ennesimo viaggio, mangiamo qualcosa. Siamo comodi, abbiamo tre posti in due, guardiamo un film e ci addormentiamo di un sonno insonne e pieno di vita. Arriviamo ad Heathrow un po’ acciaccati, la fila e la trafila ci prendono in contropiede, non ce l’aspettavamo. In un attimo siamo di nuovo in volo verso Roma. Alle 14 sbarchiamo nella Capitale, non ci sono fotografi ad accoglierci. Passiamo stranamente inosservati. Chiamo il parcheggio, due minuti e ci riportano Zelda, la macchina. Siamo di ritorno. Franci sviene. Io accelero prima di crollare. Abbiamo circa tre ore di strada davanti a noi. Mentre guido non faccio che pensare ai bambini. Il pensiero di rivederli mi regala emozioni fortissime, mi tiene sveglio mentre il sole consuma le mie ultime energie residue. Non siamo mai stati distanti tanto a lungo da loro. Arranco, alzo il volume della musica, mi verso l’acqua in testa e sul viso, e tiro dritto con tenacia. Facciamo rifornimento, bevo un caffè imbevibile, andiamo in bagno e puntiamo Jesi con decisione.
Chiamiamo i nonni, ci siamo quasi. Entriamo a Jesi, passiamo l’Arco Clementino, parcheggiamo sotto casa. Il tempo di scendere e i bambini sono già in strada. Corrono entrambi in braccio alla mamma senza pensarci. Un po’ mi spiace ma è giusto così, lo capisco subito osservandoli tutti e tre avvinghiati in una nuvola d’amore. Poi arriva il mio turno, li stringo a me e li bacio alla rinfusa, senza freni. Il viaggio è finito, un altro è in embrione. Siamo a casa. La famiglia è riunita. Non desideriamo altro che stare vicini gli uni agli altri, nella nostra piccola e accogliente dimora d’artisti. E così facciamo, abbracciandoci fino a che non viene notte, e ben oltre. Oltre ci sono la vita e le nostre cose di tutti i giorni. Oltre c’è il prossimo viaggio, che al momento osservo con desiderio e paura, come faccio sempre in fase d’approccio.
Grazie di cuore alle centinaia di pazzi che mi hanno letto, seguito e concesso credito, ci rivediamo sul prossimo volo, diretto chissà dove lungo le curve irregolari della Madre Terra, con l’auspicio di trovare un mondo finalmente in pace. Sistemo i bagagli, ripongo la penna, sfumo in dissolvenza. Il foglio è di nuovo pulito. Mi metto subito a disegnare i primi rudimentali tratti di una nuova chimera. Una di quelle che non bisogna farsi scappare.