6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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DAY 6

Mercoledì 6 settembre. Come scrivevo poche righe fa, sul tetto dell’immaginazione, anche questo è pur sempre un giorno da vivere. Per un motivo ben preciso: il nostro volo di ritorno in Italia è alle 20e45 al JFK, non abbiamo bagagli da stivare, ho già provveduto al check in, e abbiamo ancora un buon numero di ore da vivere a New York. Tuttavia faccio fatica a scrivere, a parlarne, a concludere questa esperienza meravigliosa. Scrivo e poi mi fermo, poi riparto controvoglia, la narrazione è meno fluida. So che appena avrò terminato, sarò sulla via di ritorno. Avrò detto tutto, riposto le valigie, sistemato i ricordi. Come ogni viaggiatore che si rispetti, sto già strutturando le ipotesi di viaggio future. Leggo e studio ogni sera, sogno terre sconosciute, e attendo che uno di questi sogni prevalga sugli altri, anche se ci siamo quasi. Il prossimo viaggio è in allestimento, ma non mi va di tornare a casa. A New York si sta troppo bene, e terminare questo racconto significa lasciare questa magnifica città.

Ma le cose accadono per necessità, come mi spiegò anni fa il mio mentore. E’ l’Ineluttabile, e non si può fare altro che andare avanti. Oggi la nostra routine cambia un pochino. Dopo la lauta colazione, che invece resta la pietra miliare su cui poggia tutta l’architettura del giorno, torniamo in camera e finiamo di preparare le valigie. Ci accomiatiamo dalla nostra tana, lasciamo i trolley nel deposito bagagli dell’hotel e usciamo per l’ultima passeggiata mattutina. Scegliamo l’ottava in direzione uptown. La prima cosa che notiamo è che si sta meglio di ieri. Il caldo si è in qualche misura attenuato. La seconda cosa che balza all’occhio è che non troviamo più le strisce pedonali, perché nella notte hanno asfaltato qualche centinaio di metri di strada, che oggi è nuova di zecca e in via di completamento. La terza cosa del giorno è che oggi c’è più traffico del solito. Traffico di mezzi e traffico umano. E’ pieno di gente diretta al lavoro col proprio zainetto, che sembra un elemento protesico collettivo, data la sua diffusione. L’impressione è di essere a un congresso di paracadutisti.

Proseguiamo fino alla 42esima, dove svoltiamo a destra. Facciamo un giro dentro al Bryant park, che è una perla verde che vive all’ombra della Public Library. In questi giorni lo abbiamo sfiorato più di una volta, ma non lo abbiamo mai guardato davvero. E’ un luogo che pullula di persone, ognuna chiusa nel suo angolo di pace in prossimità del caos che di lì a qualche metro dilaga. Chi legge, chi riposa, chi osserva il vuoto strapieno davanti a sé, chi mangia una cosa, chi fa due chiacchiere con un amico o coi propri pensieri. Eleggiamo il Bryant come location perfetta per uno spuntino a pranzo. Adesso però abbiamo altro da fare. Costeggiamo la Grand Central Station ed entriamo nel palazzone nuovo di zecca del One Vanderbilt. La nostra meta è il Summit, l’osservatorio sito fra il 91esimo e il 93esimo piano.

Va ora in scena un viaggio dei sensi, in cui l’illusione ottica governa ogni spazio, dall’ascensore in poi. Bisogna indossare gli occhiali da sole perché non siamo in un semplice osservatorio. Specchi e giochi di luce sovrapposti stordiscono i visitatori e perforano la retina all’occorrenza. Siamo nel cuore di Manhattan. Il Chrysler e l’Empire sono lì a un passo. La visuale è nitida e perfetta. La luce è simile a quella che si trova in alta montagna. L’esperienza è un misto fra incessante vertigine ed euforia estatica. Sotto e sopra diventano concetti relativi. Girovaghiamo in assenza di gravità. E’ uno spettacolo visivo mai visto, che racconta lo spazio in modo innovativo.

Le immagini e i suoni si proiettano ovunque senza soluzione di continuità attraverso tre piani che costringono i viaggiatori a riorganizzare la percezione, ad evolversi a livello sensoriale, a spingersi oltre il concetto stesso di profondità, a ribaltarne il senso, ad esserne infine assorbiti, tanto da divenire essi stessi profondità in senso collettivo e condiviso. Gli specchi sono via via inframezzati da enormi varchi che restituiscono una New York bellissima in questa giornata di sole, e l’alternanza fra le immagini riflesse e quelle reali fornisce un effetto complessivo abbacinante.

Air è un’esperienza immersiva multisensoriale: l’installazione firmata Kenzo Digital prevede anche una sala traboccante di palloni d’argento, in cui si annulla lo scarto fra adulti e bambini, tanto da spingere chiunque all’euforica e infantile leggerezza del gioco. Luce e immagini rimbalzano su sfere, pareti e pavimenti dispiegando ulteriori giochi di prestigio e infinitesimali inganni visivi. Air non sembra avere limiti, la sua forma muta attraverso gli specchi che ricoprono ogni superficie disponibile.

Ad ogni passo si generano immagini totalmente nuove, dettate da prospettive all’ennesima potenza. Sembra di galleggiare dentro le deformazioni visive di “Inception”, o nel contorto multiverso del Dr. Strange. Il cervello fatica nel compiere uno sforzo che si traduce infine in soave smarrimento. L’ambiente esterno sembra non porsi limiti spaziali, non avere confini, sembra far parte del complesso sistema di specchi, a cui si impasta e mescola come sulla tavola di un artista visionario. La città si fa largo da ogni pertugio disponibile, si affaccia e poi si nasconde ed entra ed esce dal campo visivo e non sai più se sia Lei o il suo ennesimo riflesso a transitarti davanti agli occhi.

La realtà fisica muta connotati. Il grande illusionista trasforma qualcosa di ordinario in straordinario. Sottrae oggetti al comune intuito visivo per farli riapparire chissà dove, anche in tanti luoghi insieme. Occulta le nostre stesse figure, moltiplicandole illimitatamente. Vorremmo capire il trucco, farlo nostro, ma non riusciamo a guardare oltre, a guardare davvero, e preferiamo essere ingannati. Air è New York, il Regno di Oz, il Grande Prestigiatore. Vorremmo continuare a sognare e restare qui per sempre, per sentir scorrere dentro di noi l’energia travolgente di questa città di cui il Summit si rivela emblema e sintesi.

Kenzo stesso ha dichiarato che NY è la sua casa e la sua costante fonte di ispirazione e che Air è uno spazio creato per condividere l’inebriante senso di aspirazione e ispirazione che NY concede a tutti coloro che la visitano, un faro di possibilità che rende omaggio a tutto ciò che NY è, può essere e sarà. Direi che ha colto nel segno, onorando il luogo magnifico in cui ha la fortuna di vivere.

Dopo esserci affacciati sul roof galattico del Summit e aver trovato finalmente una t-shirt per me, usciamo a fatica dal Vanderbilt, come se ci cacciassero fuori a pedate. Per fortuna tutto è subito e di nuovo dimenticato, perché il grattacielo comunica con la Grand Central Station, un altro gioiello da ammirare in successione libera. E’ la stazione ferroviaria più grande al mondo con le sue 48 banchine e i suoi 75 binari disposti su più livelli che scendono e si aggrovigliano fin dentro le viscere della terra.

Il Main Councourse è l’atrio principale, dove troviamo le biglietterie e il centro informazioni, che domina il salone principale. L’icona della Central Station, posta proprio sopra il banco informazioni in cui lavora Samuel L. Jackson, è l’Information Booth Clock, un orologio in opale a 4 facce, impostato sull’orologio atomico dello U.S. Naval Observaotry di Bethesda. Un segnatempo alquanto affidabile, a quanto pare. In alto, una mappa stellare impreziosisce la volta verdognola del soffitto.

Di colpo sembra di trovarsi nei meandri della stazione di Parigi in cui vive segretamente Hugo Cabret, l’orfanello che campa d’espedienti ed entra ed esce da prese d’aria e passaggi segreti per sfuggire alla grinfie dell’ispettore ferroviario Gustav. Un luogo in cui non mi sorprenderei di incrociare la bottega di Georges Melies, uno dei padri del cinema. E così osservo con cura le grate a muro, dietro cui potrebbe nascondersi chissà quale segreto. Forse il figlio del defunto orologiaio è lì nei paraggi, ad azionare i polverosi ingranaggi del tempo.

Quasi mi sorprendo nel trovare file di treni pronti a partire nel caldo ventre di Grand Central. Sai che è una stazione ma non ne sei del tutto certo. A prima vista è un crocevia in cui si intrecciano le vite e le storie e i destini della gente, un luogo da attraversare o in cui perdersi o fermarsi a discutere o in cui dare un’occhiata in giro. Invece da lì i treni sferragliano per ogni dove sul territorio americano, dilatando ulteriormente le maglie del sogno che New York incarna.

Usciamo dalla stazione dopo aver osservato uno degli antichi ascensori in azione ed entriamo nel Grand Central Market, un coloratissimo spazio in cui si vendono prodotti alimentari freschi di ogni tipo. E’ ora di pranzo e optiamo per un piatto di salmone piccante appena confezionato da mani sapienti. Torniamo al Bryant, come promessoci, e troviamo a sorpresa un baracchino mobile di Nathan’s, quello di Coney Island. Non possiamo perderci il miglior hot dog di NY, e ne acquistiamo due. Sono buoni, ma non vado pazzo per gli hot dog e non ne traggo particolare godimento. Due morsi e siamo già pieni. Il salmone dovrà aspettare.

Sono le 14, non abbiamo le idee chiare sul da farsi, ma non possiamo ritirarci adesso. Abbiamo ancora 4-5 ore da gestire e non intendiamo sprecarle. Scorrendo rapidamente la mappa, notiamo che sul versante occidentale di Central Park, all’altezza della metà del parco, c’è il Museo di storia naturale. Con la metro D possiamo arrivarci in 15 minuti, abbiamo ancora il nostro pass da sfruttare (anche se sul punto nutro più di un dubbio) e ci sembra una buona idea. Scendiamo e troviamo subito il nostro treno. Lo prendiamo. E’ anche più rapido del previsto, una scheggia che schizza impazzita senza fermarsi verso la nostra meta. E invece no, non si ferma mai, o quasi, tantomeno all’81esima. Abbiamo preso l’espresso per il Bronx, giusto per distinguerci fino alla fine, per darci un tono e non rendere banale neanche quest’ultimo giorno. Il treno continua a filare, e anziché all’81esima scendiamo alla 110ma, alla fine del parco, l’ultima fermata prima di finire per sempre nel Bronx. Poco male, riprendiamo il treno a ritroso, risaliamo la china, decidiamo di visitare lo stesso il museo in versione superfast. Il pass è esaurito, come temevo, e dobbiamo metterci in fila per entrare. Facciamo presto. Sono le 15 ed entriamo a passo svelto. Franci prende possesso della mappa e mi trascina con veemenza fra una sezione e l’altra. Alterniamo la visita alle sale a rapide sortite nei negozi per bambini in cui cerchiamo dei regalini per Giamma e Iri.

Il museo è variegato e interessante, ma non possiamo godercelo come vorremmo, quindi voliamo fra un piano e l’altro, fra reperti storici di popoli antichi, meteoriti, minerali che sembrano provenire dal pianeta Krypton più che dal distacco di Pangea, pietre preziose di ogni foggia e colore, e gli immensi scheletri dei dinosauri che chiudono in bellezza una mostra che avrebbe meritato ben altra considerazione. La sensazione è stata di inabissarsi fugacemente nelle grotte dei sogni dimenticati di Herzog, tanto è misteriosa la storia della vita e dell’evoluzione degli abitanti della Terra.

Sono le 17, acquistiamo due tazze per i bimbi e filiamo via rapidamente. Riprendiamo la metro in direzione downtown. Stavolta azzecchiamo tutto, eccetto l’uscita in Penn Station. Allunghiamo ma di poco il nostro tragitto di ritorno in albergo. Ritiriamo il bagaglio e ritorniamo in stazione per prendere la LIRR verso Jamaica. Ci troviamo in un inferno incomprensibile. Sembra il 2046.

Treni di ogni sorta partono verso ogni direzione su vari livelli, il numero di persone in attesa è impressionante. La folla mi impedisce persino di vedere i monitor delle partenze, chiediamo indicazioni ma sono tutti indaffarati e ci forniscono informazioni sommarie. Ci mandano a destra, poi a sinistra, poi di sotto, e poi più sotto ancora. Alla fine troviamo la biglietteria giusta, facciamo i biglietti e individuiamo il track. Entriamo in un tunnel che sembra non finire mai, scendiamo altre scale e troviamo il treno per Jamaica.

Non sappiamo come siamo arrivati lì, ma ci siamo. Il treno è strapieno, ma siamo in trance agonistica e restiamo in piedi senza cercare posti a sedere, per scaricare a terra la tensione. Sono le 18e15, dovremmo arrivare a Jamaica per le 18e45. E’ così. Dopo aver attraversato il Queens come all’andata, scendiamo e ci mettiamo in fila per fare il biglietto per l’Air train, l’ultimo baluardo prima del terminal. La fila è corposa in tutte le biglietterie automatiche, il tempo stringe e e sembrano esserci dei problemi. Qualcosa non va, nessuno riesce a fare i biglietti. Iniziamo a preoccuparci, finchè un dipendente dell’aeroporto grida, sorridendo e scuotendo i suoi lunghi dreadlocks: “AIR TRAIN IS FREE! AIR TRAIN IS FREEEE!”. E allora via, tutti a bordo senza pagare. Arriviamo a destinazione, ci dirigiamo al terminal, passiamo i controlli, che in uscita sono sempre più rapidi, e raggiungiamo il gate a mezz’ora dall’imbarco.

Mentre attendo, do un occhio alla ricevuta del check in. Nella mail di conferma della British sembra manchi qualche dato per completare la registrazione. Mi dirigo al banco per chiarirmi le idee proprio mentre il nome di Francesca risuona distintamente nell’altoparlante aeroportuale. Me lo confermano, mancano dei dati, così completiamo insieme la registrazione mentre osservo Franci tornare dal bagno spaventata per aver sentito il suo nome amplificato mentre si rinfrescava. Non abbiamo perso l’ultima occasione prima dell’imbarco per passare inosservati. E’ una questione di coerenza. Dividiamo il salmone piccante acquistato al Grand Central Market e siamo di nuovo pronti a salpare.

Ormai è notte. Mi godo il decollo dal finestrino. Mentre osservo le luci di Long Island scorrere sotto di noi, mi vedo da fuori con lo sguardo svanito e dissolto verso l’America, come Jim in partenza per Parigi nel film di Oliver Stone. So che tornerò, anche se non so quando. Amo profondamente questa terra, come se fosse la mia. E’ una terra che sento dentro anche quando sono lontano, è una landa che non smetto mai di sognare e che mi attira da sempre a sè. Amo l’America senza partenze umoristiche. Che lo sappiano anche le forze di polizia statunitensi che mi fermeranno nel cuore di una notte a stelle e strisce del futuro.

Mi giro, vedo Franci stanca ma sorridente. La hostess ci porta da bere. Brindiamo a New York e al nostro ennesimo viaggio, mangiamo qualcosa. Siamo comodi, abbiamo tre posti in due, guardiamo un film e ci addormentiamo di un sonno insonne e pieno di vita. Arriviamo ad Heathrow un po’ acciaccati, la fila e la trafila ci prendono in contropiede, non ce l’aspettavamo. In un attimo siamo di nuovo in volo verso Roma. Alle 14 sbarchiamo nella Capitale, non ci sono fotografi ad accoglierci. Passiamo stranamente inosservati. Chiamo il parcheggio, due minuti e ci riportano Zelda, la macchina. Siamo di ritorno. Franci sviene. Io accelero prima di crollare. Abbiamo circa tre ore di strada davanti a noi. Mentre guido non faccio che pensare ai bambini. Il pensiero di rivederli mi regala emozioni fortissime, mi tiene sveglio mentre il sole consuma le mie ultime energie residue. Non siamo mai stati distanti tanto a lungo da loro. Arranco, alzo il volume della musica, mi verso l’acqua in testa e sul viso, e tiro dritto con tenacia. Facciamo rifornimento, bevo un caffè imbevibile, andiamo in bagno e puntiamo Jesi con decisione.

Chiamiamo i nonni, ci siamo quasi. Entriamo a Jesi, passiamo l’Arco Clementino, parcheggiamo sotto casa. Il tempo di scendere e i bambini sono già in strada. Corrono entrambi in braccio alla mamma senza pensarci. Un po’ mi spiace ma è giusto così, lo capisco subito osservandoli tutti e tre avvinghiati in una nuvola d’amore. Poi arriva il mio turno, li stringo a me e li bacio alla rinfusa, senza freni. Il viaggio è finito, un altro è in embrione. Siamo a casa. La famiglia è riunita. Non desideriamo altro che stare vicini gli uni agli altri, nella nostra piccola e accogliente dimora d’artisti. E così facciamo, abbracciandoci fino a che non viene notte, e ben oltre. Oltre ci sono la vita e le nostre cose di tutti i giorni. Oltre c’è il prossimo viaggio, che al momento osservo con desiderio e paura, come faccio sempre in fase d’approccio.

Grazie di cuore alle centinaia di pazzi che mi hanno letto, seguito e concesso credito, ci rivediamo sul prossimo volo, diretto chissà dove lungo le curve irregolari della Madre Terra, con l’auspicio di trovare un mondo finalmente in pace. Sistemo i bagagli, ripongo la penna, sfumo in dissolvenza. Il foglio è di nuovo pulito. Mi metto subito a disegnare i primi rudimentali tratti di una nuova chimera. Una di quelle che non bisogna farsi scappare.

6 DAY IN NEW YORK Mezzogno di finestate a puntate

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DAY 5

Martedì 5 settembre. Stamattina partiamo a rilento, come due diesel affidabili ma provati. La giornata è ancora da costruire, almeno in parte, ma lo è quasi sempre in realtà, perché in questa città i punti di riferimento sono mutevoli, e una meta può restare tale o tramutarsi in miraggio a lungo termine, perché non sai mai cosa ti riserverà la strada. Facciamo colazione con una certa flemma, e butto un occhio sulle crociere serali. Ne trovo una interessante su “Get your guide”, e la prenoto al volo. La partenza è fissata per le 18e30 al pier 36, nei pressi del ponte di Manhattan. Ci sembra un buon compromesso per fare un giro nella baia e ammirare la statua della libertà da vicino e NY dall’acqua. Ci spiace non poter visitare Ellis Island e il suo museo, ma le escursioni turistiche che conducono là sono delle vere trappole per topi, e non abbiamo alcuna intenzione di perdere ore in fila. Abbiamo tutta la mattina per fare un salto alla Public Library e poi dedicarci con cura al MOMA, il museo che ci attira di più insieme al Guggenheim. Quest’ultimo mi interessa soprattutto perché anni fa ci espose mio zio Gino Sampaolesi, artista straordinario e mio eterno mentore, scomparso nel 2018. Oggi avremo persino tempo di riposarci un attimo in hotel e di ripartire con calma. Un vero lusso per noi scalmanati globetrotter.

New York di mattina è una meraviglia che non mi stanco di ammirare. Mentre scrivo penso che mi manca perdermi nelle prime ore di NY, perché questa città totalmente fuori norma trasmette la sensazione che tutto sia possibile, che possa avvenire qualsiasi cosa, che in qualche modo ti sorprenderà. Mentre cerchiamo piccoli souvenir da regalare ai bimbi, facciamo una deviazione verso il Madison Square Park, l’ennesima imprevista parentesi verde immersa nella giungla antropica. Dirimpetto c’è il Flatiron, un palazzone strettissimo dal disegno molto particolare, simile a un ferro da stiro, che purtroppo in questo periodo è cinto da un cantiere che ne soffoca il respiro. Sembra una mummia che attende di essere liberata e tornare a giganteggiare in libertà. Al suo cospetto la Quinta e la Broadway si biforcano. Prima di andarmene cerco di capire su quale piano risieda il quartier generale del Daily Bugle, il giornale in cui Peter Parker lavora come fotografo freelance. Ma non è mai semplice rintracciare Spider Man.

Risaliamo la quinta e l’Empire si mostra in tutto il suo splendore: è la stella polare di NY, e la sua sommità stamani rifulge come un faro abbagliante. Lo capisci subito che è lo strumento di orientamento perfetto, una bussola da consultare ogni volta che si teme di essersi persi. Nessun altro edificio possiede un simile magnetismo, e in questi giorni lo abbiamo ammirato ad ogni ora, da tutte le prospettive possibili. L’Empire caratterizza NY, ma abbiamo deciso che non serve entrarci dentro o imbragarci per risalirne la vetta. Ci conforta che sia sempre lì, ovunque posiamo lo sguardo. La nostra nave è tornata in porto ogni sera, anche grazie a lui.

Oggi avvistiamo con frequenza le caratteristiche cisterne sui tetti, gli antichi serbatoi che servono a dotare anche i piani più alti degli edifici più datati di acqua corrente alla pressione corretta, grazie alla ingegnosa collaborazione della forza di gravità. E’ questo un altro elemento tipico di NY, grazie alle sue forme e al legno non trattato, che dona loro un aspetto vetusto e un po’ datato. E così anche la cisterna diviene elemento decorativo e pittorico, nonché naturalmente cinematografico, in un luogo in cui ogni cosa assume una valenza ulteriore.

Risaliamo la corrente fino alla Public Library, dove entriamo per un giro veloce. L’ingresso è gratuito. Per prima cosa facciamo una telefonata dal sottoscala sommerso in cui Sam Hall (Jack Gyllenhaal) chiamò il padre Jack (Dennis Quaid) per chiedergli un consiglio su come salvarsi la pelle. Noi chiamiamo una fonte che non riveleremo per chiedere come difenderci dal caldo abnorme che imperversa a NY. In un certo senso anche noi siamo sommersi, dato che non riesco ad essere completamente asciutto da un paio di giorni. Ci muoviamo senza orientarci dentro la Public Library, che è una sorta di labirinto in cui le indicazioni risultano approssimative.

Il cuore dell’edificio è la biblioteca pubblica, in cui tanti studenti e lettori entrano con ordine, rispettando il silenzio che il luogo merita. Osservo con particolare curiosità il chiosco centrale, quello in cui l’addetto di norma orienta il lettore nei giusti compartimenti, o in cui si prende e si restituisce un libro. In quanti film le indicazioni di un bibliotecario sono state utili a risolvere un mistero o a scoprire un indizio rivelatore? Senza quei chioschi certi film non sarebbero mai finiti. E’ sempre un piacere visitare simili templi analogici, carichi di storia fissata su carta. Proseguiamo e ci ritroviamo sopra le scale del grande ingresso, e davanti ai vetri infranti dalle masse d’acqua oceaniche di “The day after tomorrow”. Una sorta di assalto del mondo digitale a quello analogico, in estrema sintesi.

Usciti, ci facciamo una foto fra i possenti leoni che custodiscono il sapere di NY e saliamo a fare l’ennesimo giro sulla giostra di Times Square, che è un luogo etereo in un certo senso, che non appartiene alla luce o alle tenebre ma a entrambe insieme, quasi fosse una dimensione transitoria e di congiunzione fra realtà contrapposte. Qui giorno e notte sembrano convergere.

Il colore del cielo in particolare è indefinibile, forse perché le luci dei cartelloni pubblicitari confondono i nervi ottici di noi lillipuziani a spasso, forse perché è un arguto gioco di prestigio che lascia soltanto intuire l’inganno. Se guardo lassù in cima vedo quel cielo fra la notte e l’alba che caratterizza il finale di “Blade runner”, ma non saprei definirne la tinta, dato che tutto si muove impercettibilmente fra la luminosità accennata dell’alba in embrione e le sfumature plumbee dell’oscurità morente ma ancora aggrappata alla vita. Un Nexus 6 di ultima generazione si sta spegnendo, lassù da qualche parte.

Ma eccoci alla tappa principale di questa mattinata. Non potevamo commettere l’abominio di non visitare almeno uno dei luoghi d’arte della città, e abbiamo scelto il MOMA, il museo d’arte moderna, che è probabilmente il più simbolico e rappresentativo fra i tanti. O almeno così abbiamo concluso noi due ragazzi di campagna. Dedichiamo più di 4 ore ai quattro piani espositivi, ma in certi frangenti ci rendiamo conto di riservare troppo poco tempo ad opere d’arte significative. Cerchiamo di gustarcelo, ma a volte facciamo bocconi troppo grossi, senza però ingozzarci mai. Non abbiamo l’occhio o la conoscenza dei critici, e quindi ci affidiamo all’istinto e alle emozioni, che ci trasportano con leggerezza fra dipinti, fotografie e sculture di ogni tipo. Non so o mi rifiuto di saper leggere le cartine o le mappe, ma grazie a Franci non perdiamo nulla, nemmeno un padiglione di questa bizzarra creatura polimorfica. Forse noi europei siamo abituati all’arte, e ci stupiamo relativamente sul momento. Mi rendo conto soltanto ex post, osservando con cura le foto che ho scattato, della bellezza che è scorsa sotto i nostri occhi senza che ne cogliessimo a pieno l’essenza. Il tempo ha fatto la differenza, e forse avremmo dovuto scegliere alcune portate invece di assaggiare tutto il menu. Non importa, mi stupisco adesso, allestendo la mia selezione delle opere esposte al MOMA negli angusti spazi d’Osteria.

Usciamo dal Moma affaticati, gambe e schiena sono a pezzi. Sono le 15e30 ormai e facciamo due passi. Abbiamo tempo prima della crociera serale, e ci sediamo un attimo. Ragioniamo sul da farsi. Frattanto, do un’occhiata alla mail della prenotazione per salvare il punto di ritrovo sulla mappa. Non ci faccio caso immediatamente, ma dopo aver messo a fuoco leggo con un misto di terrore e incredulità che il ritrovo è fissato per le 16 e la partenza per le 16e30. Hanno anticipato l’orario di due ore! O forse qualcosa in fase di prenotazione è andato storto. Poco importa, abbiamo mezzora per prendere la metro e imbarcarci. Mentre camminiamo in cerca dell’ingresso più vicino, studio il tragitto. Dobbiamo prendere la linea arancione verso Chinatown e sperare che la metro passi subito. Tento persino di inviare una mail alla società per chiedere di partire più tardi, ma nessuno risponde. Il numero di riferimento non funziona. Arriviamo ai cancelli e la metro card è esaurita. E’ la fine, o quasi. Non saliremo mai su quella barca. Tuttavia proviamo, ricarichiamo la metro card e per la prima volta non va, non si ricarica! Perdiamo le staffe, e poi pensiamo che sia destino, che non c’è niente da fare. Il vento soffia in senso inverso oggi. Poi -d’un tratto- un signore ci chiama. Apre dall’interno il cancello laterale agli ingressi e ci dice: come on! Lo ringraziamo, ha intuito la nostra disperazione, e ci ha concesso un gesto di generosità. Scendiamo le scale due a due. Pochi istanti e arriva il nostro treno. Lo prendiamo e scendiamo a East Broadway alle 16. Ci fiondiamo fuori e camminiamo svelti verso il pier indicato. Ne abbiamo ancora per 15 minuti. Il caldo è devastante. L’umidità è al 200%. Grondo rabbia e sudore. Arriviamo alle 16e15, l’imbarcazione è ancora lì. Chiedo spiegazioni. Il tizio mi dice che la crociera delle 19 è stata annullata, che devo salire a bordo. Nemmeno mi controlla il pass, cosa che quasi mi offende ulteriormente. A bordo è una sauna finlandese, non trovo loco, ogni superficie disponibile è appiccicosa. Ce l’abbiamo fatta ma mi girano lo stesso perché avevo prenotato una crociera al tramonto. Il nostro ultimo tramonto a New York. E non ho alternative. Devo mandare giù il boccone amaro e guardare avanti.

Partiamo verso le 16e45, probabilmente per attendere altri disperati come noi. Ritrovo il respiro quando il personale di bordo apre un accesso a prua, dove io e Franci ci sistemiamo. L’aria della baia è fresca. Il vento mi asciuga e ci rilassa. L’escursione è gradevole. Oltrepassiamo il ponte di Manhattan e quello di Brooklyn. Superiamo l’East River ed entriamo nella baia. Downtown è bellissima vista da qui, ronziamo intorno alla Statua della libertà mentre incrociamo da vicino i traghetti arancioni che fanno la spola con Staten Island. Intravediamo Ellis Island. Il numero degli elicotteri turistici che partono da Manhattan è impressionante. Sembrano sfiorarsi e sfiorare i palazzi fra cui si sollevano con eleganza.

Ci scambiamo foto e impressioni con una giovane coppia di Bangkok. Me ne accorgo solo una volta tornato: i due simpatici thailandesi ci hanno fotografato fuori posa, mentre aspettavamo che passasse un traghetto dietro di noi. E ci hanno fatto le foto più belle che potessero fare. E’ un regalo inatteso, che abbiamo scartato poi, e che sembra contenere la storia di due che si conoscono nella baia di NY, su un battello sudaticcio. Lei ha un cappellino rosso della Emirates, lui una vistosa t-shirt islandese. Sembrano divertirsi, forse si piacciono. Magari si innamoreranno. Chissà. Dalle foto la storia sembra andare discretamente, ma non abbiamo idea di come prosegua, per fortuna.

Torniamo da questa parte dello schermo. L’incidente di percorso di poche ore fa è dimenticato, si è perso nell’oceano degli avvenimenti e dei colpi di scena. New York guarisce in fretta le piccole ferite del viaggiatore sprovveduto.

Sono quasi le 18 quando scendiamo dal traghetto. La temperatura si fa di nuovo rovente. Facciamo un po’ di strada lungofiume. E’ stupendo ammirare Brooklyn e i ponti da lì. Tagliamo verso Chinatown, con il ponte di Manhattan alla nostra destra. Sul nostro percorso si susseguono impianti sportivi, il Murry Bergtraum, in cui oggi si allenano atleti professionisti di football, e il Coleman, dove tanti ragazzini giocano a baseball.

Chinatown oggi ci appare degradata. Mi viene da definirla lercia, non trovo termine migliore. Anche le persone che incrociamo sembrano relitti alla deriva. Un odore acre invade le strade, l’aria è carica di smog. Un cinese con indosso solo i pantaloni giace in terra in stato di morte apparente ma nessuno ci fa caso. Cerchiamo un appiglio e lo troviamo in un bar, dove ci concediamo un bicchiere di vino per riaverci dalle fatiche del giorno e per montare un filtro gradevole a quel tratto fatiscente di città.

Riprendiamo il cammino e percorriamo a piedi quasi un’ora di strada fra Chinatown e l’East Village. New York torna ad essere gradevole e pulita, ci sentiamo di nuovo a casa. Ma siamo in fase di decompressione. L’imprevisto di oggi ci ha costretto ad accelerare in piena fase di stanca, abbiamo accusato questo contropiede fulmineo e adesso iniziamo a pagare il conto. I muscoli non reagiscono più dopo 5 giorni di tour de force. Ci lasciamo accalappiare da una bella birreria. L’insegna è scura, la luce all’interno è rossastra ed estraniante. Entriamo nella Bronx Brewery e ci beviamo una pinta di ottima Ipa.

Chiacchieriamo un po’ e guardando la mappa mi accorgo che siamo a due passi dalla Risotteria Melotti, un ristorante italiano che propone risotti in tutte le salse. Tentiamo la sorte e andiamo lì. L’osteria è carina, e un tavolo minuscolo, l’unico libero, sembra attendere noi. Non vogliamo deluderlo. Ci accomodiamo. Il cameriere che si occupa di noi è gentilissimo, il che non guasta. Scegliamo i nostri piatti, lui ci propone un buon bianco, lo assecondiamo. Siamo in un dolce stato di resa e accettiamo tutto di buon grado. Mangiamo e beviamo bene, ridiamo ripensando alla convulsa giornata appena trascorsa. Siamo sull’orlo di una crisi di sonno ma questa è la nostra ultima notte a New York, e non vogliamo mollare.

La notte scende sulla città. Usciamo e le andiamo incontro. Le ultime energie disponibili mi concedono un’idea. Torniamo in hotel con la metro e andiamo a fare un salto nel roof sito proprio in cima al nostro albergo. Non siamo mai riusciti ad andarci e questo è il momento. Adesso o mai più. Ma prima dobbiamo risolvere l’ultimo rebus. Dobbiamo prendere la linea arancione e poi cambiare nella fatal Washington Square e prendere la blu verso uptown. Arriviamo a West Fourth Street. Siamo appannati dal vino, ovattati dal neon estraniante dei treni, e ci infiliamo in un lunghissimo corridoio sotterraneo, in cui un incantesimo ha posizionato soltanto uscite in direzione downtown. Non sembra possibile, un tizio ci sorride e ci dice di proseguire e noi andiamo ma pare di non arrivare mai. In fondo a questo percorso infernale arriviamo come fosse un miracolo allo scambio per Uptown. Saliamo sul treno ridendo a crepapelle del nostro stato confusionale. Incredibilmente a Penn Station azzecchiamo persino l’uscita per il nostro hotel. In effetti a NY le uscite dalla metro sono una lotteria se non si possiede buona memoria. E noi l’abbiamo azzeccata una volta sola, proprio quella notte.

Entriamo in hotel e saliamo direttamente al rooftop. Pensiamo immediatamente a quanto sia assurdo non esser mai saliti prima. Eppure di possibilità ne abbiamo avute, e bastava pigiare un tasto. Entriamo nell’ennesima dimensione onirica. Capisco dalla qualità delle foto che ho scattato che le mie condizioni non erano delle migliori. Prendo un margarita per me e un cocktail leggero per Francy, che resta sospesa fra la veglia e il sonno.

Penso sia tardissimo, penso a quanto abbiamo vissuto anche oggi. E’ un miracolo essere ancora in piedi a quest’ora. Dopo aver danzato in un cerchio di fuoco, ci siamo sbarazzati dell’ennesima sfida con una scrollata. Poi guardo l’ora, e mi accorgo con stupore che sono le 21e30. Eppure a me sembrano le 2 di notte di dopodomani, arranchiamo ma non cediamo per rendere onore alla meraviglia che ci circonda. E’ pur sempre una circostanza rara. Ci aggrappiamo coi denti a questa notte magnifica sui tetti di NY. Il nostro sguardo si perde al di là del vetro che ci separa dal vuoto.

I grattacieli si mescolano al riverbero degli arredamenti luminosi del roof creando l’illusione che Godzilla e i suoi fratelli si stiano avvicinando a passo felpato. Mezzosogno al cloro. Una pioggia purpurea scende sul viso di Francy, che è costellato dal riflesso delle luminescenti spire del rettile che si fa sempre più vicino e ormai incombe su di noi. Sulle sue scaglie scorre tutta la storia del mondo. Chiudiamo gli occhi per non vedere. E’ un sogno denso che vivo ancora adesso, ma sul momento ci sfugge via fra le mani e non riusciamo a trattenerlo, tanto è viscosa e malferma la nostra presa.

Per noi è l’ultima notte qui, è una notte senza pari, una di quelle che ci resteranno addosso come una seconda pelle. I mostri tentano di riportarci indietro, sono i mostri inviati dal domani, che è pur sempre un giorno da vivere. Siamo immagini sulle scaglie di serpenti alati, sembriamo proiettati da chissà dove sul tetto del Marriott. Siamo i nostri incorporei avatar, volatili e senza peso. Siamo guerrieri Na’vy in cerca di un’oasi, di una connessione con il pianeta che pare lontanissimo eppure è tutto intorno a noi. Ci nascondiamo all’ombra dei giganti, fra le foreste d’acciaio in cui ci riscoprimmo liberi e selvaggi, per non farci trovare.


O fratelli e sorelle della pallida foresta.
O figli della Notte.
Chi di voi parteciperà alla caccia?
Arriva la notte con la sua legione porpora,
ritiratevi ora nelle tende e nei sogni.
Domani entriamo nella città della mia nascita. Voglio essere pronto”.

James Douglas Morrison

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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DAY 4

Lunedì 4 settembre. Lo schema si è dimostrato vincente, e le dinamiche mattutine non cambiano. Mangiamo giusto un pochino meno del solito. Usciamo e tentiamo di nuovo la sorte con la metro. Sono preoccupato, considerata l’esperienza della sera prima, ma siamo diretti a Coney Island e non abbiamo scelta, perché per arrivare all’estremità sud di Brooklyn la strada è lunga. Stavolta fila tutto liscio, prendiamo la linea espressa per Coney Island e Brighton Beach e in circa tre quarti d’ora arriviamo a destinazione. La metro esce presto allo scoperto e possiamo goderci una nuova porzione di New York dal treno. La novità del giorno è un cielo carico di umidità che rende l’aria quasi irrespirabile fin dal mattino. Siamo presi in contropiede dal rapido e imprevisto mutamento meteorologico, con cui dovremo fare i conti per i prossimi due giorni.

Usciamo dalla stazione di Stillwell Avenue anticipando come di consueto il turismo di massa. Coney island in realtà è una penisola sita proprio davanti all’Oceano Atlantico, una striscia di terra con cinque km di spiaggia e una storia travagliata alle spalle, fatta di saliscendi simili a quelli che dominano il suo skyline. In effetti l’isola dei conigli è un enorme luna park, un parco giochi dall’aspetto retrò e un tantino decadente, dominata dalla Wonder wheel, una delle ruote panoramiche più famose al mondo. La popolazione che incrociamo sembra prevalentemente di origini ispaniche, dato che mi somiglia più del solito. Pare un’umanità un tantino trascurata, dall’aspetto consunto e dagli abiti trasandati. D’altronde questa è la gloriosa base dei Guerrieri della notte.

I palazzoni che si stagliano dietro il parco giochi sono fatiscenti e contribuiscono a un certo degrado estetico. La meccanica contorta delle attrazioni e alcune icone dal ghigno malefico aggiungono risvolti horror al contesto generale. Pennywise o il Joker potrebbero essere di casa da queste parti. Persino i bagnanti non sembrano al mare ma in una tendopoli improvvisata nel deserto. L’acqua dell’Atlantico però è fresca e tanto basta per allietare una giornata che si avvia a diventare rovente.

Certo, forse oggi abbiamo raggiunto la nostra prima tappa persino prima del previsto, perché la gente in giro è poca, la luce non è delle migliori, e i baracconi sono ancora chiusi o stanno muovendo pigramente i primi passi verso l’apertura. L’atmosfera è compassatissima, dominata da una malinconia che probabilmente si acuirà col finire della stagione estiva. Siamo in una località di mare, una delle preferite dai newyorkesi, ma dai movimenti dei gestori s’intuisce che siamo in fase di stanca, che sono le ultime aperture prima del letargo, e le persone sembrano trascinarsi più che camminare.

Percorriamo uno dei moli fino in fondo, c’è gente che pesca, e la dinamica -nella sua semplicità- mi ricorda il ponte di Galata a Istanbul, che però, al contrario di questo, era un totale e irrefrenabile bordello, un bazar a cielo aperto sospeso sul Corno d’oro. A dire il vero, questo parallelismo è una forzatura palese, ma non è malizioso. Nasce d’istinto, e credo meriti una chance. Qui regna il silenzio, le persone parlano poco e a voce bassa, forse per non spaventare i pesci. E’ anche uno dei tanti moli visti al cinema, uno di quelli che puoi collocare ovunque, anche fosse il molo sul Pacifico di “Un giorno di ordinaria follia”, che mi viene in mente senza forzare.

Desideravo vedere questo posto e saggiarne l’atmosfera, e avevo già capito in fase di pianificazione che sarebbe stato difficile collocarlo senza sacrificare altro. Ma non ho mai pensato di lasciarlo fuori dal nostro piano di viaggio. Non avevamo alcuna intenzione di adagiarci sulla ruota delle meraviglie di Allen o di rivoltarci le budella sulle montagne russe, ma è facile immaginare che questo luogo circense acquisti fascino quando è a pieno regime, e quindi di notte, quando le luci e i suoni del luna park la fanno da padroni. Ma Coney Island conserva indubbiamente fascino anche in questa modalità. Certo, sarebbe sufficiente una luce diversa per mostrarne lo shining, l’intrinseco scintillio che poi è dentro ogni cosa e dentro ogni luogo, ed emerge soltanto se irradiato in modo adeguato. Basti pensare all’arte in tal senso, e a quanto sia importante valorizzarla con la giusta illuminazione.

Mi guardo intorno e penso che il tono sbiadito e l’aria immobile e pesantissima di oggi non rendano giustizia alla costa sud di Brooklyn, che sembra soltanto una pallida idea di quel che potrebbe essere in circostanze diverse. Poi, non so come, mentre passeggio per questo lungomare un po’ desolato mi assale dal passato un ricordo imprevisto: ero piccolo e con la famiglia andammo dagli zii a Roma, forse per un matrimonio. Eravamo tanti per l’occasione, e non potevano ospitarci, non tutti per lo meno, e così alloggiammo in un albergo di Ostia Lido. Credo fosse inverno, quanto meno non era estate. La desolazione era un po’ quella di adesso, e c’era qualcosa nella fotografia di quel giorno a Ostia che mi riconduce al film che danno oggi, qui a Coney Island. Una sensazione strana, perché mi riporta a galla un ricordo nel suo complesso, come fosse la somma percettiva e incorniciata di tutti i sensi insieme, come se non fosse passato un giorno, come se fossi bambino adesso, o fossi stato adulto allora. Cercavo qualcosa del genere a Coney Island, ma non sapevo esattamente cosa. Questa terra di passaggio ha spalancato una porta mnemonica nella mia mente, e non mi è dispiaciuto affatto dare una sbirciatina oltre la soglia di una dimensione sì nostalgica e poetica.

Alcuni tizi, dall’aspetto truce e niente affatto atletico, giocano a fronton. Due coppie colpiscono la palla più forte che possono, chi a mani nude chi con la dote di un supporto, e la sparano sul muro di fronte, a una distanza breve e con uno spazio assai limitato. Devono essere lesti a prenderla senza scontrarsi, ma il gioco sembra piuttosto violento e doloroso. Una versione hard dello squash. Cerco fra i chioschi il mefistofelico mago Zoltar, quello che realizza anche i più strani desideri, ma temo di aver sbagliato luna park. E poi sono già grande, e non saprei cosa chiedere. Dietro l’angolo c’è Nathan’s, che dicono faccia gli hot dog più buoni di tutta NY, ma a quest’ora del mattino è impensabile mandarne giù uno. Ci riserviamo la possibilità di mangiarne uno nei chioschi mobili che si spostano dentro Manhattan, se avremo la fortuna di incontrarne uno.

Il sole adesso impazza, e il caldo è opprimente, ci sediamo sotto una pensilina che pare una fermata del bus. Una tizia che vende bibite abusivamente gioca a nascondino con la polizia utilizzando la colonna che sta alle mie spalle per nascondere il frigo portatile quando passa la pattuglia: se si fermano potrebbero anche concludere che sia mio, dato il mio aspetto vagamente centro-americano. Questo timore è probabilmente il retaggio di una vecchia esperienza. Anni fa io e Franci, sempre noi, ci trovammo nel cuore della notte di Yuma, nel profondo sud dell’Arizona, a poche miglia dal confine col Messico. Ci imbattemmo in un mega posto di blocco. Esercito schierato, controllo capillare dei documenti con pile sparate in faccia, cani a bordo, interrogatorio con il classico “Do you like America?” come ciliegina finale. Fu un’esperienza elettrizzante e formativa. Mi chiedo da allora se i militari pensino che qualcuno possa realmente rispondere “No, non mi piace l’America” in condizioni tanto stringenti.

Dopo aver bighellonato avanti e indietro lungomare, ci addentriamo a Little Odessa, una parte nota per ospitare una nutrita popolazione di origine russa. Qui la sopraelevata dei treni domina ogni cosa e crea un ambiente particolare, una sorta di sottomondo un po’ cupo e malandato, un luogo assai poco luminoso e ospitale, e niente affatto raccomandabile. E anche la gente sembra poco propensa alla solarità e alla leggerezza. Ma sono sensazioni estemporanee, che lasciano il tempo che trovano. E a Little Odessa di tempo ne dedichiamo davvero poco.

Risaliamo verso la sopraelevata dei treni e riprendiamo la metro fino al cuore di Brooklyn. Scendiamo a Prospect park. La prima cosa che ci colpisce uscendo è il numero ingente di agenti di polizia schierati in zona. Alcune strade sono chiuse, molte sono le deviazioni e altrettanti i percorsi obbligati, in cielo volano vari elicotteri, forse perché entriamo nelle zone di competenza di Henry, il più avido e debole fra i Bravi Ragazzi di Scorsese. Temiamo sia accaduto qualcosa di grave, ma a ben vedere i volti degli agenti del NYPD sembrano distesi, lo spiegamento di forze è notevole ma forse stanno allestendo il terreno per un evento di una certa portata. La seconda cosa che notiamo è che il Prospect è senz’altro un parco bello e molto frequentato dalla cittadinanza, ma non gode delle stesse cure di cui beneficia Central park, di cui sembra il fratello intrigante ma un po’ trascurato.

Scopriremo con un pelo di ritardo che oggi è il labour day, la festa dei lavoratori che negli Stati Uniti si tiene il primo lunedì di settembre. Una sorta di festa di fine estate, anche se la temperatura adesso è torrida e l’estate sembra in piena enfasi. Quest’anno alla festa è abbinato il Carnevale Caraibico di New York, ma noi intuiamo soltanto che sia in corso una parata, perché da lontano si sente un gran casino in giro per strada e ogni tanto sfrecciano auto a tutto gas con bandiere giamaicane e gente che a bordo festeggia con musica a palla. Sfioriamo soltanto la coloratissima festa dei popoli latini, che sfilano a suon di tamburi, fischietti e musica in Eastern parkway fino a Grand Army Plaza. Siamo defilati ormai, e la stanchezza accumulata non ci rende lucidi e reattivi al punto da prendere, sterzare e impennare al volo verso il cuore della festa. E’ un peccato aver perso la sfilata, ma la fortuna è che NY non ti da tempo di pensare, devi continuare ad andare, a percorrerla e scoprirla senza rimpianti per quel che non è stato, perché tanto sai bene che ci sarà qualcos’altro di cui stupirsi, oltre la prossima svolta.

Dopo Prospect percorriamo la quinta strada, una via molto allegra e colorata, piena di locali e baracchini. Purtroppo tanti esercizi commerciali sono chiusi per la festa dei lavoratori. Usiamo la quinta come bussola ma facciamo l’elastico nelle vie che la intersecano e scopriamo case dai disegni e dalle tinte deliziosi, molto simili a quelle di Soho e Greenwich, ma più austere e signorili, dato che al loro cospetto siamo persuasi a un certo rispetto reverenziale. Questo è il cuore di Brooklyn, un cuore sobrio ma caldo, che si fa attraversare con piacere, senza attriti. Noi cerchiamo di fare la cosa giusta, come Sal e Mookie nel film di Spike Lee.

Io e Franci non abbiamo sentito mai un caldo simile. Non parlo solo della temperatura, parlo della qualità opprimente del caldo che a tratti si fa soffocante. L’umidità è oltre i livelli di guardia e io non smetto mai di sudare. Ci fermiamo in un localino per una pausa. Oggi ci rendiamo conto di essere palesemente in riserva e ci concediamo un’insalata per pranzo, a maggior ragione perché la giornata sta prendendo una piega impegnativa. C’è tanto da camminare, e dalla mappa capiamo che avremo bisogno di energia supplementare per raggiungere i nostri obiettivi. Anche gli zaini sembrano pesanti, per quanto contengano poco o nulla. Dentro c’è forse il peso dei giorni passati, e la schiena inizia a mandare segnali di disapprovazione.

Poco importa, ripartiamo. Come dicevo, è quasi tutto chiuso ma in quel quasi Franci riesce comunque a trovare un mercatino di abiti usati davvero originale. Il negozio è popolato da gente bella e stravagante. Ognuno sembra uscire da un tempo diverso, ognuno ha il suo stile ben marcato. Franci trova una giacca fantastica, una di quelle che le calzano a pennello perché richiamano l’abbigliamento londinese pop rock degli anni 70. E a lei quello stile si addice alla perfezione. Ora la giacca c’è, le mancherebbe soltanto un palco per esprimersi al meglio.

Proseguiamo e passiamo davanti al Barclay center, un tempio del basket di cui ci limitiamo a rimirare gli esterni, poi i palazzi ricominciano gradualmente a stagliarsi verso il cielo e fra questi spicca la Brooklyn Tower, il mio grattacielo preferito, per quanto alcuni sostengano che abbia rovinato il profilo di Brooklyn. Nera e stretta come i pantaloni di pelle di Jim, sembra la torre da cui svetta l’occhio di Mordor ne “Il signore degli Anelli”, oppure una di quelle che si levano sui pianeti alieni dell’Impero in “Star Wars”, tanto è magnetica e oscura.

Sono le tre ormai e il traffico inizia a farsi prepotente, ancora si avvistano auto festanti in giro, siamo in prossimità del ponte di Brooklyn, ne vediamo l’inizio e ci infiliamo alla sua destra, per scendere verso Dumbo. La zona sembra un tantino malfamata, per la prima volta abbiamo la pur vaga sensazione di non essere nel posto giusto, ma andiamo avanti senza patemi e dopo varie deviazioni e alcuni errori che ci sfiancano arriviamo Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Dumbo è un delizioso e vivace quartiere incastonato come un diamante fra il ponte beige di Brooklyn e quello azzurrino di Manhattan.

In quel coacervo di vie solcate e sovrastate da ponti troviamo un luogo magico. Immagino senza fatica Max, Noodles e soci scappare dalla furia vendicativa di Bugsy, quel colpo di pistola che squarcia la via e la vita del piccolo Dominic, centrato alle spalle senza pietà. Il cuore di “C’era una volta in America” è qui davanti ai miei occhi innamorati del cinema di Sergio Leone, e io vago in contemplazione, quasi disorientato, con la colonna sonora del film che mi percorre come fosse un brivido. E’ una gioia incontenibile essere qui. Questo è l’angolo di New York che bramavo più intimamente, e farò di tutto per prolungare la nostra permanenza qui.

Inanello foto in serie, per immortalare ogni sfumatura possibile di quel luogo che in fondo sembra vivere da sempre dentro di me. Non voglio perdere nulla di quanto osservo, voglio catturare ogni dettaglio, farlo prigioniero, e poi fonderlo nei miei ricordi per sempre. Il ponte di Manhattan da Washington street è una meraviglia, sono devastato in questo momento ma l’estasi prevale. Amo la mia ragazza, che ha contribuito a realizzare certi sogni che magari all’inizio erano solo miei ma che poi abbiamo sempre costruito e vissuto insieme. Si è sempre fidata di me nonostante l’abbia condotta anche in luoghi discutibili in condizioni discutibili, ha sempre trovato il lato positivo in ogni situazione anche quando magari ero io a preoccuparmi, e i nostri sogni sono divenuti reali.

Qui a Dumbo la osservo con attenzione mentre la fotografo: è distesa e sorridente, e la fatica le scivola via con eleganza come sempre, e penso al fatto che siamo indissolubili. Amo profondamente questo nostro film di genere indefinito che mi scorre innanzi proprio mentre sono al cospetto della location simbolo di “C’era una volta in America”, che è l’opera cinematografica che preferisco perché rappresenta la vita stessa, in tutte le sue forme, da quelle più limpide e luminose a quelle più cupe e dolorose. E’ il momento perfetto, in cui ogni cosa è al suo posto.

Amo New York, amo la vita che in questo luogo pulsa incessantemente, e non si può non consacrare un momento simile con dei flights multicolore nella Evil twin brewery, che a due passi da qui propone un menù vastissimo di birre alla spina di ogni tipo e gradazione. Fra l’altro, la birra produce effetti diuretici, come noto, e l’unico bagno disponibile in zona è posizionato proprio sotto la cartolina che non riuscivo a smettere di guardare. Ne approfitto per un break e una nuova sortita al suo cospetto. La birra ci rilassa, i muscoli abbandonano la tensione accumulata. Chiedo di salutare per l’ultima volta la visione cinematografica del Manhattan Bridge e ci dirigiamo lungo fiume per guardare lo skyline di NY dal suo profilo migliore.

Lungo la via incrociamo un fantastico magazzino della Brooklyn Historical Society, che contiene locali e negozietti vari, ma ci rendiamo conto passandoci accanto che dentro la temperatura è prossima allo zero. Non vogliamo ammalarci e lasciamo perdere. Scoprirò solo in Italia che abbiamo perso la possibilità di ammirare la vista dal terrazzo che si affaccia sull’East river. Poco più in là c’è St. Anne Warehouse, un bel teatro dalle fogge simili a quelle del magazzino, ricavato da un antico deposito di tabacco.

Proseguiamo verso la promenade e ci fermiamo nel Brooklyn Bridge Park, da cui ammiriamo Manhattan in tutta la sua bellezza. Da qui i giganti sembrano veleggiare su un’enorme chiatta, che si direbbe alla deriva se non fosse ormeggiata al ponte di Brooklyn, che pare trattenerla senza alcuno sforzo, come il braccio di un padre col figlio. Non possiamo far altro che starcene seduti ad ammirare in silenzio un simile spettacolo.

Ormai sono le 5, non è abbastanza per godersi il tramonto, ma noi iniziamo a deambulare con fatica, io sto perdendo la posizione eretta che l’uomo ha conquistato con tenacia e determinazione, e prendiamo l’ardua decisione di salire le scale verso il primo ingresso disponibile, in anticipo rispetto ai tempi previsti.

Il ponte di Brooklyn mi trasmette subito un’idea di immensa solidità, è il ponte di un transatlantico che solca l’East river in modo poderoso, e i tiranti si intersecano fino in cielo, dove è impossibile intravederne la sommità. Oltre le lanterne utili alla visione notturna e a rendere più amena la vita della ciurma a bordo, spiccano degli strani dischi in posizione verticale.

Le teorie a supporto sono le più disparate. Sono Wagasa, gli antichi ombrelli giapponesi, costruiti con maestria, bambù, corda e washi per proteggere il bastimento dall’ira divina? Sono 78 giri su cui scorre imperterrita la travagliata storia della costruzione del ponte? O rappresentano i ventagli che Daitarn III utilizza come scudo solare? Non lo sappiamo, ma di certo il cielo è di nuovo terso, il vento ha spazzato via parte dell’umidità corrosiva di oggi, e noi ci divertiamo a osservare il sole che cala fra i ciclopi di Lower Manhattan.

Scattiamo foto in tutte le direzioni, alla ricerca della giusta angolazione, dello scivolo migliore per le correnti luminose che soffiano fra gli spogli alberi di questa nave possente, mentre i veicoli viaggiano quasi impercettibilmente sotto coperta. La barra del timone è dritta, guadiamo il fiume senza tentennamenti con l’illusione di camminare.

Il ponte di Brooklyn è un nastro trasportatore azionato dalla forza di mille uomini, e noi scivoliamo senza attrito sulla sua superficie. Attracchiamo dall’altra parte sorridenti ma sorpresi dalla rapidità della traversata, che vorremmo ripetere avanti e indietro finchè non sarà notte e poi giorno e poi notte ancora. Mentre scendiamo, Francy trova un cappello adatto a me che ho un cranio inadatto ai cappelli. Lo provo, è perfetto, che non significa che mi stia bene, ma per 5 dollari possiamo procedere.

Siamo a terra adesso, passeggiamo ancora un pochino prima di riprendere la metro, di cui non abbiamo più alcuna paura. Puntiamo dritti al Grey Dog, un caffè di quartiere non lontano dal nostro albergo, famoso per le colazioni e per gli hamburger. Divoriamo con gesti famelici due panini squisiti. Io concludo la serata con un margarita, che è un cocktail molto diffuso nella letteratura newyorkese e uno sfizio che volevo togliermi.

Non ci resta che l’ultimo miglio prima di arrivare nella nostra casa temporanea. La sera avvolge la città della solita elettricità, è un peccato andare a dormire, ma abbiamo dato tutto. Il gps segna altri 20 chilometri e siamo piegati dai crampi. Arrivare in hotel è un sollievo. Lavarsi, stendersi al chiaro di luna ad asciugare, e poi stirarsi e fare le fusa come gatti prima di sprofondare senza gravità fra le nuvole e le profondità del firmamento. Ora siamo soltanto punti indistinti nella notte, frammenti di umanità sospesi fra la terra e il cielo di New York, storie sommate ad altre storie in questo mezzosogno di finestate.

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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DAY 3

Domenica 3 settembre. La sveglia suona presto anche stamani, ma la mia reattività accusa il colpo del giorno prima. Franci invece è pimpante e volitiva, mi trascina di sotto in stato di semi incoscienza, ci concediamo la solita super colazione e usciamo nell’aria fresca del mattino.

Sembra un’altra bella giornata, il traffico è leggero, Times square è linda e deserta, sembra impossibile paragonarla a quella della notte appena trascorsa, eppure è sempre lei. Ho ancora negli occhi il caos fiammeggiante e le esplosioni di luci, suoni e colori che riempivano ogni spazio fruibile, suscitando l’illusione che fosse giorno in piena notte. Questo sembra un altro mondo, un altro tempo. E in effetti forse è così, tutto muta continuamente. In un teatro danno il musical di Ritorno al futuro, un vero cult, una di quelle opere che a casa girano ciclicamente. Cerco al volo i biglietti on line per la sera ma non troviamo posti vicini e rinunciamo.

Anche stamattina New York ci regala una luce straordinaria, è bello camminare di buon passo fra i grattacieli. Il sole fa capolino a intermittenza, infilandosi fra le fenditure e rifrangendosi sui vetri a specchio in modo delicato, come se l’alba fosse sospesa a mezz’aria. Percorriamo poco più di due km a piedi per arrivare al negozio di noleggio bici convenzionato con il sightseeing pass. In cinque minuti ritiriamo le biciclette e ci avviamo verso Central park, che si trova a poche pedalate da lì.

Oggi le nostre mire non sono le stesse di ieri. Oggi intendiamo rilassarci, vivere il momento con la dovuta calma, goderci NY sotto un profilo diverso, senza farci prendere dal solito demone del viaggio che in certi casi ci spinge a superare l’asticella delle possibilità umane. Oggi è diverso, oggi non può essere come ieri, perché sarebbe impossibile reggere e perché ieri è una dimensione lontana nello spazio e nel tempo, vissuta con ritmo e intensità tali da essere irriproducibile. Oggi vogliamo goderci un po’ di natura senza affanni, e Central Park fa esattamente al caso nostro. Un nuovo viaggio nel viaggio.

Entriamo nel parco e per prima cosa cerchiamo di comprenderne la conformazione. Un circuito esterno circumnaviga tutto il perimetro del parco in senso antiorario. La città sonnecchia ancora, nel parco c’è poca gente e noi giriamo spensierati ma non proprio senza meta. Qua e là affiorano le splendide e primordiali rocce levigate dagli elementi che impreziosiscono varie zone del parco. Saltiamo a piè pari lo zoo, come da consuetudine, molliamo per qualche istante le bici e ci affacciamo su Sheep Meadow, uno dei grandi prati con vista di Central park. Qui, newyorkesi e non si rilassano, chiacchierano, prendono il sole, leggono, amoreggiano, si godono un picnic, giocano con ogni tipo di palla. E’ solo una rapida presentazione reciproca, perché è vero che oggi andiamo tranquilli, ma è altrettanto vero che non è il momento di fermarsi. Lo faremo poi.

Scopriamo presto che si deve scendere con frequenza dalla bici, dato che i luoghi da visitare nelle zone centrali del parco si possono percorrere soltanto a piedi. Salire e scendere dalle bici è un’operazione che eseguiamo con frequenza, fino al momento in cui inizieremo a fregarcene un po’, rimanendo in sella per tutto il tempo possibile, salvo i tratti di sentiero più stretti in cui sarebbe impossibile non travolgere i passanti.

Pedaliamo per un breve tratto e parcheggiamo le bici in prossimità di The mall and literary walk, un grazioso viale alberato che trascina indietro nel tempo. Il padre del romanzo storico è lì a vigilare. Sembra effettivamente un’ambientazione letteraria ottocentesca, e carrozze e dame d’altri tempi ci calzerebbero a pennello. Non disdegneremmo nemmeno un parasole, dato che le temperature sembrano giocare improvvisamente al rialzo. Bancarelle, ritrattisti e artisti vari guarniscono il percorso, e certi acquerelli somigliano ai quadri in cui saltarono magicamente Bert, Mary Poppins e i fratelli Banks. O forse la mia immaginazione è instancabile e cerca come sempre una via di fuga.

Ci sediamo ad ascoltare la voce incantevole di Maya, una giovanissima cantante che, accompagnata dal fratellino e supportata tecnicamente dal padre, propone vari pezzi musicali, in particolare dei Beatles. I fratellini sono bravi anche a suonare piccoli strumenti. La piccola ci intenerisce e decidiamo di regalarle il dollaro che ci ha consegnato Irene a casa, prima di partire. Lei lo aveva conservato dal precedente viaggio in America, che ricorda bene -nonostante fosse piccolissima- perché fu la prima di noi ad avvistare un orso. “Orcio! Orcio!” – gridò all’epoca a Yellowstone, senza che nessuno di noi intuisse all’istante che c’era un giovane Grizzly nelle vicinanze. Pensiamo che far passare simbolicamente quel dollaro dalle mani di Iri a quelle di Maya sia un’idea carina, e la mettiamo in pratica.

Proseguiamo lungo il Mall e finiamo proprio sotto il terrazzino del Bethesda, luogo frequentatissimo da modelle in cerca della posa e dello scatto giusti, a quanto pare, e da chi decide di farsi un giretto in barca nel laghetto più carino e scenografico di Central park. Il cinema si è valso a tal punto di questo specchio d’acqua e dei luoghi limitrofi che sembra di essere costantemente a spasso in un film. Kramer contro Kramer, La leggenda del re pescatore, Harry ti presento Sally, Hair, Autumn in New York, Il diavolo veste Prada, Wall street, Home alone, Elf sono i primi che mi vengono in mente, ma l’elenco è lungo.

A me pare un quadro di Monet, su cui il pennello si appoggia con leggerezza, tracciando linee chiare ma rapide: la luce è al centro di ogni cosa, i dettagli sembrano scappare via, ma il momento nel suo complesso viene catturato, imprimendosi per sempre nelle distese di colore che popolano il parco.

La mole di gente cresce via via che passano i minuti, ma questo luogo trasmette una sensazione di pace, di tregua. Qui sembrano tutti tranquilli e lontani dalla frenesia del centro, che pure è lì a ridosso a scuotersi, mordere e sbuffare. Osserviamo le barchette muoversi placide e incorporee sulle acque del lago, e sembra di essere in un altro tempo, un tempo letterario, un tempo di candidi segreti e storie sussurrate, un tempo denso di parole raccontate con cura e dovizia di particolari. Qualche anno fa in Svezia abbiamo fatto un tentativo con una barca a remi, ma non è andata bene per una questione di equilibrio, e non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di riprovare. Central park è una vera e propria oasi, una parentesi verde ricavata dall’uomo per ricordarsi di sé. Provo una punta di invidia per tutti quelli che possono correre in un posto come questo. E sono tantissimi.

Torniamo verso le bici mentre una piccolissima violinista si esibisce con grazia. Riprendiamo il circuito principale e a questo punto il traffico aumenta vistosamente. Avvisto due risciò davanti a me. Alla guida ci sono due ragazzi di colore vivaci e super sorridenti, a bordo due signori sulla cinquantina, apparentemente inglesi. Qui vorrei un attimo divagare sulla differenza fra ragazzi sulla cinquantina e uomini sulla cinquantina, ma mi limito a rivendicare il fatto di appartenere in modo piuttosto evidente alla prima categoria. Ma torniamo a noi, sono ormai a ridosso dei due risciò, e sulla loro scia sento un odore che mi è capitato di sentire anche a Manhattan. E’ odore d’erba, e per la prima volta vedo anche distintamente da dove proviene. In città quell’odore è ad ogni angolo, ma forse a causa della mia vista di talpa, o del fatto che a NY hai altro a cui pensare, è più difficile intercettarne la provenienza. Prima di partire ho letto quanto basta per sapere che da un paio d’anni la cannabis è legale a New York, ma non pensavo a un utilizzo tanto palese dell’ameno espediente ricreativo. Da buon forestiero di provincia stupefatto, chiamo Fra -che è defilata rispetto a me- per mostrarle i tizi che di prima mattina se la ridono a bordo dei risciò, e la cosa buffa è che non mi risponde lei ma un ragazzo in bici che ridendo mi dice in romanesco spinto: “L’hai visti sti sacchi demmerda??”. Mi fa ridere, riguardo Franci, mi giro di nuovo verso di lui che mi sorride prima di scomparire in mezzo al classico gruppone di inseguitori al Tour de Parc.

Subito dopo, forse per rimanere in tema di alterazioni percettive, perdiamo tempo a cercare una statua raffigurante Alice in Wonderland, e la troviamo grazie al solito intuito di Franci. Alice nel paese delle meraviglie è una storia di gran voga a casa nostra. Scatto qualche foto alla statua, che raffigura Alice, il bianconiglio e il cappellaio matto, che è il mio personaggio preferito, a maggior ragione dopo che il maestro di visioni Burton scelse Johnny Depp per interpretarlo. Riprendiamo la tournèe, finchè -dopo una manciata di minuti- Franci si accorge di aver dimenticato lo zaino, con dentro passaporti, portafogli e altri effetti personali. Mentre io vado in blocco e do già per scontato che ci dovremmo recare presso l’ambasciata italiana, lei sgrana gli occhi e senza pensarci si getta a capofitto fra le bici che sfrecciano in senso opposto. La seguo, ma è dura starle dietro, e a un certo punto taglia la pista verso sinistra e si butta in discesa sopra un prato e poi in slalom fra gli alberi, violando presumibilmente tutte le norme del parco in una volta sola. La perdo di vista, dev’essere di certo un film di cui lei è la protagonista alata, la trama è avvincente ma la situazione è tesa, impossibile capire come finirà. Poi la vedo risalire la china sorridente e sollevata. Lo zaino è di nuovo sulle sue spalle, dopo averlo recuperato nelle profonde cavità della tana del bianconiglio. Siamo salvi, Alice è stata fedele alla sua strampalata amica. Sono certo che non sarebbe stata altrettanto magnanima se lo zaino fosse stato il mio.

Terminate le manovre acrobatiche, procediamo fino al lago più grande di Central park, dove ci concediamo una breve pausa e prendiamo una decisione abbastanza improvvisata. Pedalare non ci pesa affatto, nonostante la stanchezza accumulata il giorno prima, abbiamo già percorso un buon tratto del parco, Harlem sembra lì a due passi, anzi è lì a due passi, e così decidiamo di farci un salto, prima di ridiscendere il parco dal lato opposto. Così, quando è circa mezzogiorno, entriamo ad Harlem.

Cerchiamo soltanto per curiosità una chiesa per assistere a un ritaglio di messa gospel. Le strade sono semivuote, e dal buon numero di automobili parcheggiate anche in doppia fila in prossimità degli edifici di culto intuiamo che la popolazione locale dedichi la domenica alla funzione con assiduità e partecipazione. In effetti solo nei minuti successivi Harlem inizierà ad animarsi. Nel frattempo incontriamo un ragazzo di origini senegalesi simpaticissimo e assai loquace. Mi pare si chiamasse Sam. E’ un programmatore, lavora a New York e a Milano, abita da quelle parti e parla un italiano perfetto, ci da qualche indicazione, ci consiglia -scherzando ma non troppo- di unirci a un folto gruppo di ciclisti che stanno di là della strada: “vi mettete in coda e nessuno si accorge che non fate parte della comitiva, e con loro vedete la messa e tutti i luoghi più famosi di Harlem”. Lo ringraziamo, ma rifiutiamo il pacchetto: autonomia e indipendenza rappresentano i nostri fiori all’occhiello, e le gite organizzate, in tal caso persino abusive, proprio non fanno per noi.

Andiamo avanti, troviamo una chiesa, Franci si informa ma la signora all’ingresso ci fa capire che la messa butta de fori. Non è un problema, non reggerei mai due ore di funzione e so che rimarrei comunque deluso perchè mi aspetto di trovare fra i banchi Bono e gli U2 che intonano insieme ai presenti “I still haven’t found what i’m looking for”. Continuiamo il giro senza patemi. Tentiamo la sorte anche da Sylvia’s, un ristorante noto per il gospel brunch e per essere una delle location di “Jungle fever”, un bel film di Spike Lee. Purtroppo anche presso la regina del soul food inizia ad accalcarsi una discreta folla, e, come il lettore avrà ben compreso, a noi non piacciono i percorsi prestabiliti, né tanto meno le folle accalcate.

Puntiamo le bici verso l’Apollo Theater, che ci interessa per lo più da un punto di vista simbolico. L’Apollo infatti è uno dei più importanti club musicali d’America, un vero e proprio crocevia della cultura musicale afroamericana, dove si affacciarono alle scene artisti eccelsi come Ella Fitgerald, Billie Holiday, James Brown e i Jackson Five. Ci limitiamo a dare un’occhiata al locale dedicato al dio greco delle arti e ad affacciarci sul foyet, un po’ come ci capitò di fare nel 2010 al Whisky a Go Go di Los Angeles, altro locale iconico, in cui Morrison e i Doors mossero i loro primi passi. A onor del vero, all’epoca ero alla ricerca espressa di Jim e dei suoi luoghi. E il Whisky era uno di questi.

Tributato il doveroso omaggio a questo monumento della musica, piazziamo sul navigatore la cattedrale di St. John The Divine, che Franci vorrebbe visitare. Non calcoliamo che il percorso prevede una bella salita e che il caldo a quest’ora inizia a farsi opprimente, e ci costringiamo a una faticaccia imprevista. Non a caso siamo in Upper west side. Arriviamo in prossimità della chiesa ma diciotto dollari pro capite ci sembrano troppi per visitarla, e così la pensano anche altri turisti che fanno dietro front in blocco. Nel gruppo ci sono tre ragazze, una delle quali dice: “Ahò, manco fosse San Pietro”. Come non concordare?

Qua e là zampilla acqua dal sottosuolo, e anche questa è un’immagine evocativa di altre immagini ormai sbiadite, che i miei occhi hanno visto in chissà quale cinema del passato. Ci fermiamo a osservare gli attrezzatissimi campi sportivi in serie in cui si gioca a basket e a baseball, e poi facciamo tappa in una birreria ben fornita, dove posso gustarmi una Smithwicks, la rossa più buona al mondo. Rifocillati, ci lanciamo in discesa per riconquistare il parco sul fianco occidentale, poco più a nord del museo di storia naturale, che non rientra nei nostri piani, forse perché inconsciamente speriamo di tornarci coi bimbi. A Giamma piacerebbe un sacco, ne sono certo. A proposito, anche l’Upper sembra un buon posto in cui vivere.

Rientriamo nel parco, troviamo un cono d’ombra davanti a Sheep Meadow, posiamo sull’erba un foulard, che è l’unico giaciglio disponibile, ci mangiamo una mela e ci stendiamo a contemplare in silenzio quello scorcio fantastico che proiettano innanzi a noi. E’ pieno di gente ma l’ingresso è gratuito. Uomini, donne e bambini punteggiano l’ampia distesa verde che ci circonda, ma lo spazio abbonda e le voci delle moltitudini restano distanti e assumono la consistenza di un lieve e sommesso brusio che si amalgama al vento, rimescolando le idee e gli idiomi di tutti gli abitanti del pianeta New York. Si sta davvero bene e ci lasciamo andare, allentiamo ogni tensione, molliamo gli ormeggi e ci spingiamo alla deriva fra le nuvole e gli alberi e il fulgore dei giganti assiepati ai confini del parco.

In ogni grande città abbiamo tentato e trovato una fuga nel verde. Lo Stanley park a Vancouver, Villa Borghese a Roma, i piccoli e graziosi parchi collinari a san Francisco, l’infinito Phoenix park a Dublino, il parco delle Table Mountain sopra Cape Town, il Jardim de Morro a Porto, il parco senza nome in cui ci addormentammo a Copenaghen, o infine il piccolo parco di periferia in cui ci rifugiammo a Reykjavik prima di lasciare l’Islanda. Ed ora Central Park a New York. Sono solo i più fulgidi e immediati esempi che mi vengono in mente, luoghi di mezzo che per noi rappresentano spesso i ricordi più luminosi di un contesto urbano, perchè le opere dell’uomo sono belle ma quelle della natura di più, anche quando la mano dell’uomo è intervenuta in modo tanto evidente.

Siamo in contemplazione, pensiamo a tutto e a niente, veleggiamo in dormiveglia finchè ci guardiamo e ci scuotiamo da quel dolce torpore. Siamo a New York, ci eravamo quasi dimenticati, abbiamo tante cose da fare. Riprendiamo le bici e seguiamo il mio capriccio di vedere il Carousel, una giostra coperta vecchia più di un secolo che si trova sul nostro tragitto di rientro. Nel mentre, il colpo d’occhio mi propone un grattacielo che pare il camino di una fornace. Le nuvole in cielo sembrano uscire dalla sua sommità. Allora dev’essere vero quel che mi rispose un indiano nell’Antelope Canyon quando gli chiesi cosa producesse l’ecomostro che sputava fumo dall’alto delle sue ciminiere. “It makes clouds”, mi disse accennando una timida smorfia. Ma basta divagare, ora la gente è tantissima, si cammina a stento, per noi è ora di cambiare aria.

Ci infiliamo di nuovo fra i grattacieli e in breve riportiamo le bici. Ormai sono le 16. Mentre torniamo in hotel a piedi, facciamo tappa alla cattedrale di Saint Patrick, la più grande chiesa neogotica cattolica degli Stati Uniti. E’ in corso la messa in spagnolo. L’acustica è incredibile e i canti fanno venire la pelle d’oca. Il prodigio di voci e melodie riempie ogni angolo della cattedrale e genera un’atmosfera solenne e coinvolgente. Ci aggiriamo fra i banchi e le icone di questo maestoso luogo di culto con il dovuto rispetto e una certa emozione.

Arriviamo in hotel, ci rinfreschiamo e ripartiamo al volo, dopo aver preso una decisione clamorosa: per la prima volta prenderemo la metro, dato che l’ingresso si trova a pochi metri dal Marriott, e che il Fanelli Cafè, che abbiamo scelto per cena, si trova a Soho. Scendiamo in Penn Station, ricarichiamo la metro card utilizzata per l’air train ed iniziamo ad attendere la linea C che ci porterà fino a Washington Square. Da lì cercheremo un posto carino per fare un aperitivo prima di cena. L’attesa è più corposa del previsto e io inizio già a mostrare i primi segni di squilibrio e insofferenza. La situazione precipita pochi istanti dopo, poichè la fermata di Washington è la West 4th Street in realtà, e noi la saltiamo con disinvoltura. Attendiamo due o tre fermate ma di Washington nemmeno l’ombra.

Chiediamo a una signora a bordo, che gentilmente ci mostra sulla sua app che siamo andati lunghissimi. Scendiamo a One World, e ci posizioniamo in attesa della C per tornare verso nord. L’idea è di scendere a Canal Street, sempre per aggiungere due passi e un cocktail al nostro tragitto. Ma l’attesa è lunghissima e snervante, io avverto la fiacchezza accumulata e sono stanco di aspettare, la temperatura e l’umidità sono insopportabili, ho voglia di tornare all’aria aperta e di godermi la città ma i minuti passano inesorabilmente. Lo ammetto, non tollero concettualmente i tempi e le modalità del trasporto pubblico, che interpreto esclusivamente come barriere limitanti le libertà individuali.

Penso che se fossimo andati a piedi, saremmo già arrivati a destinazione, e divento presumibilmente insopportabile. Franci accetta di buon grado un errore che può capitare ma io invece no, non l’accetto e non tollero la mia disattenzione. Aspettiamo quasi mezzora prima che passi il nostro treno e uscire fuori è un vero sollievo. Non abbiamo più tempo per l’aperitivo e andiamo direttamente a cena.

Il Fanelli, a dispetto del nome e delle graziose tovaglie a quadretti bianchi e rossi, è un locale tipicamente americano, in cui cucinano preminentemente carne. La tizia che gestisce il posto sembra una cowgirl del Wisconsin, il locale è frequentato da persone di età media inferiore alla nostra, ma abbiamo voglia di un luogo informale e accogliente, dove sentirci a nostro agio, e il Fanelli è perfetto in tal senso. Dunque assaggiamo carne, come da copione, in un’atmosfera che mi trasporta indietro di tanti anni, quando io e Franci mangiammo paella in una fumosissima trattoria sita nella parte più alta e vecchia di Granada. Tutto continua a tornare, nell’incessante confusione che spazio e tempo propinano a noi esseri fugaci.

Finiamo di cenare e usciamo in strada disorientati, camminiamo un po’ ma siamo stremati, svaniamo nella notte di Soho, come fossimo assorbiti dall’oscurità. Il mio ultimo ricordo è un orologio da stazione ferroviaria, oltre il quale non mi è concesso dire se e come siamo tornati a Midtown. Eppure siamo tornati, risputati chissà come dal regno d’ombre o dagli angusti sotterranei di Gotham.

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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DAY 2 – Greenwich – One World – Gotham – Seaport – Chinatown – Little Italy – Birdland

Sabato 2 settembre. Ci svegliamo alle 6e30 per essere a colazione alle 7 in punto. A parte il fervido desiderio di ricominciare a esplorare NY, va premesso che io e Francy sfruttiamo a pieno ogni potenzialità del primo pasto del giorno. La colazione rappresenta a tutti gli effetti un breathing, perchè di norma in quella sede, oltre a dare il meglio di noi al cospetto del ricco buffet, raccogliamo le idee della sera prima e mettiamo a punto un piano sommario per la giornata. Ci può capitare di restare anche un’ora in sala, muniti di guida e appunti di viaggio. L’idea di oggi è di andare verso sud a piedi, e di arrivare fin dove riusciamo, senza limiti di sorta. Ne uscirà fuori una giornata memorabile, che ci consentirà di scoprire un quadrante consistente di Manhattan. E grazie alla corposa colazione americana non avremo bisogno di pranzare, e anche questo ci sarà utile per risparmiare tempo.

Usciamo in strada che il sole è ancora basso e parzialmente scremato dietro ai palazzi, la luce della mattinata è splendida, il traffico scarseggia, la gente in giro è poca. Incontriamo per lo più lavoratori che in silenzio azionano gli enormi ingranaggi che regolano i meccanismi della città. Visitiamo il Chelsea market ancora dormiente: anche qui vige un’operosità sommessa e discreta, lungo i suoi corridoi corrono pavimenti scuri e pareti a mattoncini, sopra le nostre teste tubature a vista e condotti dell’aria avvolti nell’alluminio tradiscono un passato industriale. D’altronde questa fu la fabbrica della Nabisco, dove nel 1912, esattamente due mesi prima del naufragio del Titanic, idearono e produssero il biscotto Oreo. E chissà che nei più remoti recessi di questa suggestiva struttura a misura di Umpa Lumpa non si realizzi una produzione clandestina di cioccolato Wonka.

Usciamo e puntiamo il One world, ma non prendiamo nemmeno in considerazione di utilizzare i mezzi pubblici, vogliamo goderci a piedi Chelesea, Greenwich, Soho, Tribeca. E lungo il nostro percorso scopriamo perle che ci ripagano della fatica, se vogliamo chiamarla così. Siamo partiti da Midtown, e ci rendiamo conto ben presto di entrare gradualmente in un altro mondo. La luce filtra dolcemente fra gli alberi, i giganti d’acciaio sono svaniti nel nulla, probabilmente banditi da queste terre. Procediamo a zig zag fra le vie incantate di Soho e Greenwich Village, sperando di goderci qualche scorcio degli interni delle splendide case della zona.

Qui hanno girato Allen, Scorsese, i Coen, qui troviamo gli esterni di alcune note produzioni per la tv, qui è cresciuto De Niro. Case di mattoncini multicolore si avvicendano lungo viali alberati e pacifici. Gli abitanti si muovono pigramente. Chi porta a spasso il cane, chi si occupa della spazzatura, chi si incontra per strada e si concede due chiacchiere. Un giornale attende con garbo davanti a un portone turchese che il padrone di casa esca a prenderlo, il silenzio è incantato. Forzando un paragone acrobatico, azzarderei che la sensazione è di trovarsi a Garbatella dopo aver fatto un giro in pieno centro a Roma. Greenwich è una dimensione elegante ma quasi rurale, tanto è rilassata e distante dalla frenesia caotica della città senza sonno.

Io e Francy pensiamo che – se fossimo newyorkesi- sarebbe questo il luogo in cui vivremmo, anche perchè il quartiere somiglia all’America di provincia che abbiamo vissuto e amato. Ci convinciamo di ciò una volta di più dopo esser finiti per caso fra i banchi di un mercato di frutta e verdura in prossimità di un parco minuto. Acquistiamo due pesche e proseguiamo nell’incanto del sud ovest di Manhattan, mentre il vapore acqueo sotterraneo sbuffa in superficie dagli appositi camini bianco-rossi, regalando un alone di mistero al nostro percorso. Ti immagini che dai fumi di quel vapore spuntino fuori i gangster in erba di C’era una volta in America, ma non c’è tempo di rimuginare perchè nel giro di pochi minuti ci imbattiamo per caso in Ladder 8, la caserma dei pompieri in cui Reitman ambientò il covo dei Ghostbusters.

Proseguiamo verso Tribeca, dove cerco senza successo il locale in cui De Niro pochi giorni prima ha festeggiato gli 80 anni con tanti mostri sacri del cinema. Ignoro il motivo per cui si sia dimenticato di me, ma tant’è, trattasi probabilmente di una banalissima svista. Tribeca è un quartiere alla moda che sancisce il ritorno a un’architettura più moderna e slanciata verso l’alto. I grattacieli riprendono campo gradualmente, il One world domina l’orizzonte, svoltiamo l’angolo in direzione Battery park e ci troviamo al limitare di una delle due enormi vasche che sostituiscono le due torri e ne proteggono la memoria. E’ un luogo toccante e ciò che più fa impressione è scorrere i nomi e i cognomi delle persone che persero la vita l’11 settembre 2001, perchè ci si rende conto che vi è rappresentata ogni parte del mondo. Le Olimpiadi dell’orrore.

Entriamo nel grattacielo del One world observatory, scannerizziamo i pass in autonomia, registriamo i nostri dati e all’ingresso un contatore aggiorna in tempo reale grafici sui Paesi di provenienza dei visitatori.

Quindi attraversiamo le rocce vecchie 400 milioni di anni che costituiscono le fondamenta ancestrali del One World e forse dell’intera America. In 60 secondi saliamo al 102esimo piano, in ascensore propongono una rapida e suggestiva narrazione visiva della storia di New York. In cima a me e Francesca tremano le gambe perchè il salto nell’iperspazio è tanto impercettibile quanto destabilizzante.

Da lassù osserviamo NY da una prospettiva unica: il cielo è limpido e la visuale perfetta, a sud vediamo Staten island e i mitici traghetti arancioni intrecciare le scie e le storie dei pendolari che salgono a bordo ogni giorno; la Statua della libertà ed Ellis Island con le orde di turisti che le cingono d’assedio concentricamente; ad ovest l’Hudson e il New Jersey; a nord il cuore di Manhattan fino a Central park e Harlem; a est il Financial district e i ponti che uniscono la penisola a Brooklyn e al Queens. E’ un luogo perfetto per meravigliarsi e comprendere la geografia di Metropolis, la versione luminosa di NY .

Siamo sazi di tanta luce e torniamo a terra a capofitto, come siamo saliti. Dopo una rapida decompressione ci avviamo verso Financial district, quella che nel mio immaginario cine-fumettistico è Gotham City. Identifico la porta di Gotham in Trinity church, una cattedrale gotica dall’aspetto crepuscolare anche in pieno giorno, le cui mura sono circondate da un cimitero di bambini.

Davanti a Trinity si allunga Wall street, stiamo entrando nel cuore bancario e finanziario di NY. Non considero questa zona attrattiva in quanto tale, ma in funzione delle fantasie cinematografiche di cui mi sono nutrito negli anni. Mentre passeggiamo per quelle vie emergono dal liquido nero dei ricordi i lupi Douglas e DiCaprio e le loro straordinarie interpretazioni del controverso mondo della finanza.

Ma il ricordo più vivido e legato anche e soprattutto visivamente a questi luoghi è la Gotham cupa e claustrofobica dipinta nel Batman di Nolan, che si può respirare a pieni polmoni, come fosse un vero e proprio set: qui il cavaliere oscuro potrebbe dispiegare il suo mantello nero dagli abissi del cielo e calarsi fino al dedalo di ponti e sottopassi sovrapposti in cui si annidano degrado e paura; dal portellone di un furgone postale parcheggiato potrebbe deflagrare la follia del Joker e cospargere la città di puro terrore distillato; al crocevia fra Wall street e Board street, Bane e il suo esercito di rifiuti umani potrebbero scatenare la propria violenza irreversibile sul mondo intero. Queste visioni di Gotham provengono da lontano, e fanno parte dell’immaginario collettivo. Posso solo immaginare l’aspetto decadente del distretto finanziario in versione notturna.

Lasciamo Wall street, abbandono le mie tetre fantasie gotiche. Ci dirigiamo d’istinto verso est, andiamo incontro all’acqua, passiamo davanti al Malibù Barbie Cafè e pensiamo che a nostra figlia sarebbe di certo piaciuto. Ora ci troviamo in South Street Seaport. Facciamo due passi sul Pier 16, dove è ancorata la nave d’epoca Wavertree e si può godere di una fantastica vista sui palazzoni di Lower Manhattan ma soprattutto sul ponte di Brooklyn.

Videochiamiamo i bambini perchè siamo circondati da meraviglie a 360 gradi e vogliamo condividerle con i frammenti di cuore che abbiamo lasciato a casa. Sui moli che affacciano sull’East river ritroviamo l’atmosfera leggera e festosa che si respira a San Francisco. Musica, mercatini e gente rilassata in giro. L’ennesima New York che si dipana magicamente sotto il nostro sguardo attonito.

Camminiamo lungo fiume verso nord, protetti dall’ombra di un ponte viola addobbo funebre. D’un tratto viriamo verso Chinatown, che è più o meno sempre la stessa in ogni angolo di mondo. Ho letto che i cinesi hanno una caratteristica che favorisce la conservazione -quanto meno parziale- degli edifici storici della città. In effetti, mentre il volto della gran parte di Manhattan cambia continuamente, perchè è un attimo che costruiscano un grattacielo in luogo di 2-3 vecchie palazzine, i cinesi, se acquistano immobili, non fanno altro che smontare le vecchie insegne per sostituirle con le loro. Diciamo che un certo modo di fare assai sbrigativo, che mira a un’immediata operatività, si traduce per una volta in utile strumento conservativo. Chinatown comunque è un bel casino, il suo moto è incessante come quello di un formicaio, e per quanto i colori sgargianti e gli odori siano allettanti, la tagliamo da est a ovest senza trovare angoli di pace. Forse una volta che hai visto una Chinatown le hai viste tutte, e ce la lasciamo alle spalle senza rimpianti.

Non esiste più un confine certo a dividere Chinatown da Little Italy, ma se la prima non sorprende, la seconda lascia perplessi. Sembra una fiera, un baraccone di paese, una rappresentazione che ritrae la caricatura del nostro Paese. Ghirlande ed archi tricolori adornano ogni strada, assieme ai versi di “Volare” e di altri pezzi nostrani. E’ un quartiere di soli locali, e i gestori tentano di accalappiare turisti in strada in modo istrionico. Nonostante l’aspetto niente affatto autentico, Little Italy è piena di gente e assai festosa, e ci spinge a sederci per una birra e un po’ di riposo. Oltre la facciata parodistica, si nota subito che qui si interagisce in modo immediato e verace, c’è buona osmosi fra gli avventori, e la gente seduta ai tavoli, di ogni nazionalità, sembra allegra e a proprio agio. Quando noi italiani vogliamo far sentire a casa la gente non abbiamo rivali, nessuno sa farlo come noi, e questa dote è una prerogativa di cui andare fieri.

Così conosciamo una coppia di americani simpaticissimi, John e Carol. Vengono da Boston e anche loro hanno lasciato i figli a casa. Beviamo qualcosa insieme, brindiamo, e ci divertiamo a raccontarci i nostri viaggi. Loro amano l’Italia, noi l’America. Un idillio perfetto, che si scioglie soltanto dopo la foto e l’abbraccio di rito.

Penso a quanta gente abbiamo conosciuto in giro per il mondo, anche solo di striscio, penso alla magia di quegli scambi culturali tanto intensi quanto fulminei, penso a cosa ne sarà di loro, a quali vie abbiano imboccato, a quali territori abbiano visitato. Penso al fatto che senza di loro i nostri viaggi non sarebbero stati gli stessi. Viaggiare è anche conoscere, scambiare, interagire, tentare, sporcarsi, perdersi, fallire. Viaggiare è vivere e io e Franci proviamo a essere noi stessi ovunque andiamo. Di norma funziona, e ci consente di stare bene e stringere buoni rapporti con chi incontriamo lungo il cammino. Viaggiare ti insegna a non avere paura, a non nasconderti mai, anche perchè capisci presto che il tuo orticello è troppo piccolo per conservare consistenza al cospetto del mondo.

A questo punto sono le 15 circa e improvvisiamo. Ho una fissa chiamata Tenement Museum, un museo del Lower East Side che riproduce le abitazioni fatiscenti dei primi immigrati europei. Ne so qualcosa grazie a “New York è una finestra senza tende”, un bel libro di Paolo Cognetti. L’autore scrive che non si può capire New York e la sua storia senza aver visitato questo museo. Mi ha convinto e chiedo a Franci di assecondarmi nonostante la stanchezza. Lei non è convinta ma accetta. Entriamo in una libreria, che è l’anticamera del museo, prenotiamo la visita e pochi minuti dopo siamo con un giovane Freddy Mercury in giro per i palazzi adiacenti. Lo ammetto, il ragazzo è troppo veloce per il mio livello di comprensione della lingua inglese, si mangia troppe parole ed enfatizza eccessivamente alcune espressioni. Vado a senso e percepisco più o meno quello che già sapevo dai libri, Freddy ci racconta la storia di una famiglia e della donna che ne reggeva l’economia con opere di sartoria che le pagavano una miseria. Ci muoviamo fra gli spazi angusti di questi appartamenti che erano condivisi da più famiglie, che poi subaffittavano ad altre famiglie come fossero matrioska. Forse il museo ha intrapreso la strada di una narrazione in serie, forse la guida non ci coinvolge per una questione di pelle e di elettricità. Fatto sta che ci aspettavamo di più sotto il profilo emotivo. Il beneficio del dubbio resta per i problemi linguistici di cui sopra, ma siamo stanchi e un tantino annoiati, e la fine del tour si rivela un sollievo.

Pensiamo per un attimo di prendere la metro, ma no, qui dietro c’è una fantastica birreria, la McSorley’s Old Ale House. Entriamo senza manco pensarci. Ora siamo in un rural pub irlandese, fuori non c’è più New York, ci sono solo distese verdi accarezzate dal vento a perdita d’occhio. Ci fanno accomodare in un tavolo condiviso con altre persone. Sul muro una targa recita: “be good or be gone”. Ordiniamo due birre e ce ne portano quattro. Questo posto mi piace. Una tizia sbraita manco avesse inghiottito un megafono, ma non ci facciamo caso perchè nel pub il baccano sostituisce ogni altra cosa. E’ un discorso stereofonico unico, le voci di ciascuno si sommano in una soltanto, e probabilmente nessuno capisce nulla di quel che dicono gli altri, ma non importa, non è essenziale. L’unica a farsi capire è la tizia che sbraita.

Ordiniamo altre due birre, anzi una, che sono due naturalmente, e poi ci dileguiamo verso Washington square, dove suonatori, giocolieri, cartomanti animano ogni angolo della piazza. Un gruppo di pazzi vestiti da suore intona cori in riferimento a un gioco chiamato “I suck this fantasy football”, che dovrebbe essere un gioco di abilità molto diffuso fra i giovani. I ragazzi si divertono a fare acrobazie con gli skate. Si sta bene ma dobbiamo andare, perchè abbiamo altri progetti.

Risaliamo verso il Chelsea Market che alle 18 è preso d’assalto. Troviamo posto in un ristorante indiano dove mangiamo un paio di piatti deliziosi, e uno meno. Non sto a rimarcare chi abbia scelto il piatto insipido, ma è semplice intuirlo. Sfamati, torniamo in albergo. Doccia rapida, cambio d’abito e via nel crepuscolo newyorkese.

Stasera ci attende il concerto di Catherine Russell al Birdland, uno storico locale jazz in Theater District. Ho prenotato il concerto dall’Italia, ma non potevo sapere che nell’arco della stessa giornata avremmo fatto quasi 20 km a piedi nella parte meridionale di Mannahatta, l’isola dalle tante colline. Siamo annebbiati ma curiosi. La ragazza all’ingresso cerca il mio nome su un elenco cartaceo, come ai tempi in cui si entrava in disco in lista, e il mio nome c’è. Simon? Yess!

Entriamo e la luce rossa e soffusa del club ci avvolge dolcemente. Ci fanno accomodare a bancone, come richiesto. La Russell è una bomba jazz, riempie il locale con la sua voce calda, e la sua band l’accompagna egregiamente. L’atmosfera del locale è onirica, i tavoli sono al completo e altrettanto i bar seating. Beviamo vino californiano e assaggiamo un ottimo cocktail di cui non ricordo il nome, i barman sfilano di corsa e versano incessantemente, sembrano seguire il ritmo del jazz.

E’ una situazione che ho sempre sognato, godermi un concerto simile con Francy in un locale tanto denso di storia musicale. Ed è stato esaltante, un insieme di sensazioni che non dimenticherò. Se fossi newyorkese, farei incetta di eventi simili. E’ uno dei risvolti eccezionali di cui gode chi abita qui, uno dei tanti.

Gli stimoli non hanno fine in questa città, e non appena il concerto termina ci troviamo immersi in Times Square, che sembra un acquario avveniristico. Nuotiamo nella folla come pesci fuor d’acqua, i mega schermi illuminano il viso di Francesca di ogni colore. La mia ragazza sembra Alice nel paese delle meraviglie, oppure Dorothy nella città di smeraldo. Continuiamo a fluttuare senza peso nella bolla illusoria in cui ci troviamo dalle prime luci del mattino, sembra uno dei sogni di Lynch e la paura è soltanto quella di potersi svegliare, prima o poi, e di scoprire che nulla è come sembra.

D’un tratto torniamo in noi, come se la maga dell’est avesse rotto l’incantesimo che ci teneva al riparo della realtà, ma è solo la folla che cresce e che preme, fino a trascinarci verso sentieri meno frequentati, che ci condurranno a casa dopo una giornata che somiglia a un’epopea. Questo giorno, visto dagli specchietti retrovisori della notte, pare una vita intera.

Oggi abbiamo iniziato ad amare New York, e le siamo grati per tutto quanto ci ha concesso di vivere in poche ore. Francy oggi si è sbilanciata, e l’ha definita “strepitosa”. E’ proprio così, non esiste aggettivo migliore, New York è strepitosa. Ne parliamo a letto, la sentiamo ancora pulsare, poi mi addormento, o perdo i sensi. A un certo punto sento palleggiare, la pallina rimbalza come un mantra fra le mie sinapsi in dormiveglia, chiedo a Franci chi mai si sia messo a giocare a tennis in strada, poi mi giro, lei dorme, ci sono gli US Open in tv. Realtà e immaginazione sono indistinguibili nella città dei sogni.

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DAY 1

Venerdì 1 settembre, 4e15 del mattino. Io e Francesca ci svegliamo, ci muoviamo con passo leggero, ci vestiamo senza far rumore e usciamo alla chetichella, come due ladri, ma in casa propria. Il bottino è la libertà di un viaggio a New York, un viaggio solo per noi, che siamo innamorati da diversi anni degli Stati Uniti. Dopo un paio di lustri di viaggi in famiglia, i bambini resteranno a casa con nonna Simonetta per una settimana scarsa. E’ un fenomeno senza precedenti, ma dobbiamo rendere omaggio ai nostri 25 anni, e pensiamo di meritarci questa fuga a due, nonostante quel lieve senso di colpa che poi svanirà in un battito d’ali di boeing.

Alle 5 usciamo, è ancora notte in realtà. Il viaggio in macchina per Roma è tranquillo, troviamo rari frammenti di traffico pendolare al GRA. Alle 8 chiamo il numero del Car Valet, riferisco che sarò in sosta breve per la consegna del mezzo entro un quarticello, e il tizio scoppia a ridere perché probabilmente il mio slang marchigiano possiede risvolti comici insperati. Mi saluta dicendo: “t’aspettamo ar parcheggio, Quarticè”, e ride di gusto. Questa cosa mi piace, è di buon auspicio, io godo nel far ridere la gente, è un fenomeno che mi procura enorme piacere da quando ero bambino, e quando capita di far ridere qualcuno senza volerlo, la soddisfazione raddoppia. Arriviamo al parcheggio, mi dichiaro subito: “Ciao, sò Quarticello”, lui ride e risponde che si, gli avevo detto un quarticello, ma poi ho tardato. Non gli spiego che a Roma non azzecco mai la via per il T3, che sta agli arrivi, e non alle partenze, e io lo so bene ma non la prendo mai lo stesso. “Ahò ma andate a New York e nun ve portate gnente?” E’ la battuta con cui ci salutano prima di rapire Zelda e portarla chissà dove. La mia teoria è che, visto il costo esiguo del parcheggio, utilizzino i mezzi per qualcosa di losco. Rapine, scambi di coppia, corse clandestine. Auguro intimamente buon divertimento alla mia macchina, che di norma ha una vita abbastanza regolare e monotona, ed entriamo in aeroporto.

I nostri bagagli sono leggeri, quasi inconsistenti, non abbiamo nulla da stivare, tanto meno da dichiarare. Sbagliamo terminal, ma di poco, e in breve superiamo i controlli di routine. Mi sento sospetto senza i figli appresso, e invece sono anche più trasparente del solito. Arriviamo al gate, ci imbarchiamo sul volo American airlines che tarda mezzora per aspettare un gruppo di passeggeri dispersi chissà dove. Verso le 11 decolliamo, mangiamo il mangiabile, beviamo, guardiamo il film di rito e tentiamo di riposare un po’. Annunciano una discreta turbolenza, ma non è nulla di che, e arriviamo addirittura in anticipo. Alle 13e30 siamo al JFK.

I controlli sono più lunghi del previsto, non perché siano diversi dal solito, ma perché c’è molto meno personale rispetto alle altre volte, e la fila ristagna, nonostante una buona organizzazione. Osservo l’impiegato delle dogane di origine nipponiche che fa il suo lavoro, controllo impronte digitali, controlli fotografici, attesa riscontro e timbro sul passaporto, apposto con una sorta di rigetto giustificato, considerate la fila di visitatori da vistare e la prassi che l’uomo dovrà ripetere per ore dentro a un gabbiotto identico a tutti gli altri gabbiotti. Un lavoro duro e ripetitivo, a maggior ragione perché il ruolo non consente di familiarizzare con nessuno a parte il proprio device. Quei loculi e la trafila disumanizzante mi riportano ai sogni di Sam Lowry, al povero Buttle confuso col “terrorista” Tuttle per colpa di un insetto, ai mezzi uffici in serie del ministero dell’informazione, al mondo assurdo che Terry Gilliam dipinse in Brazil, e che tanto inizia a somigliare al nostro.

Salutiamo il sol levante, e la mia solidarietà svanisce in un attimo. Prendiamo al volo l’Airtrain che dal terminal ci condurrà a Jamaica, una stazione di smistamento da cui partono metropolitana e treni per il centro. Noi scegliamo la LIRR (Long island rail road), un treno che costa poco più della metro ma impiega molto meno tempo ad arrivare a Manhattan. Treno in partenza dal track 2, ci affrettiamo, prendiamo al volo anche questo ma stavolta sbagliamo. Il nostro era quello successivo.

Il treno su cui saliamo è con ogni probabilità il Polar express, ci condurrà al Polo nord, e ciò sembra evidente dall’aspetto del controllore e dalle movenze magiche con cui bucherella i nostri biglietti. Invece a sorpresa ci fermiamo a Grand Central station, e noi alloggiamo proprio sopra Penn station, a circa 2 km a sud ovest. Poco male, non abbiamo zavorre di sorta, il bagaglio è leggero (non leggerissimo, a dire il vero, per colpa dei libri che mi ostino a portarmi appresso), e decidiamo di compiere i primi passi a NY.

Saliamo le scale fino in superficie e subito New York è ovunque intorno a noi. L’impatto è affascinante ma non ci destabilizza, forse perché abbiamo già visitato altre grandi città. O forse perché non si capisce subito cosa sia New York. Ciò che catalizza immediatamente la nostra attenzione è la ragnatela di scale antincendio che s’inerpica sulle pareti dei palazzi più vecchi. Forse immaginiamo Spiderman, o una ragazzina in fuga dalla finestra di casa, oppure l’incontro furtivo di due amanti clandestini. Certo è che quelle scale in un modo o nell’altro scatenano fantasie che arrivano da lontano, dalle piccole tv in cui negli anni 80 scoprivamo l’America e i suoi film.

Percorriamo la quinta verso sud, passiamo davanti alla Public Library e la prima cosa a cui pensa il mio cerebro deformato dal cinema è se effettivamente ci potrebbe stare la nave cargo incagliata sul fondo nella NY sommersa di The day after tomorrow. Il dubbio resta. Alla 33esima giriamo a destra, è l’angolo dell’Empire State Building, il grattacielo più rappresentativo di NY, una sorta di faro per navigatori alla deriva, che adesso quasi non percepiamo ma che poi avremo modo di osservare da ogni prospettiva possibile. Superiamo il Madison Square Garden, e dopo pochi passi siamo al Marriott, l’hotel di Midtown in cui stazioneremo per 5 notti. Ho riflettuto poi sul fatto che questa è con ogni probabilità la permanenza più lunga di sempre in un luogo, per me e Francesca insieme.

La nostra stanza è a un piano comodo ed è un bene perché le attese per gli ascensori si rivelano spesso dilanianti. Lasciamo i bagagli, ci facciamo una doccia, ci vestiamo e ci fiondiamo in strada per assaggiare la nostra prima fetta di grande mela. A un passo da noi c’è l’Edge, il più alto osservatorio esterno dell’emisfero occidentale. Saliamo al quarto piano del 30 di Hudson Yards per prenotare –con il consueto box automatico- la nostra visita alle 19e40. Riscendiamo per fare due passi ad High line, che non è altro che un passaggio sospeso lungo circa 2 km, costruito in luogo di una linea ferroviaria sopraelevata in disuso.

Ci godiamo le prime immagini del quartiere Chelsea da questo luogo particolare: il traffico che scorre sotto ai nostri piedi sembra distante, alcuni scorci sono bellissimi, i palazzi che incontriamo lungo la strada hanno linee ricercate e di indubbio gusto, qui il moderno e l’antico si fondono e confondono senza farsi del male, e così i mattoni rossi e marroni dei vecchi edifici rimbalzano cromaticamente sulle vetrate a specchi dei loro fratelli più giovani creando una corrispondenza di amorosi sensi.

Il problema è che High line d’un tratto si rivela affollatissima, e si cammina a stento, un passo che mal si addice a due mangiatori di strade come me e Franci. Dopo la birra di rito bighelloniamo un po’, diamo un’occhiata all’Hudson che scorre placido oltre una schiera di treni d’argento. I vagoni lasciano rimbalzare sciami iridescenti sui grattacieli circostanti, che controbattono in una sorta di partita in cui la luce si propaga avanti e indietro senza intervalli di sorta. I giocatori palleggeranno fino al tramonto, e solo allora si concederanno una tregua.

Decidiamo di lasciare High line e di scendere in strada, di attraversare a ritroso il ventre di Chelsea, di goderci il quartiere da dentro. E in effetti funziona. Si, è vero, il traffico ora ci tallona, ma questa visione più interiore ci aggrada, sembra più autentica e viscerale.

Torniamo verso l’Edge, saliamo al quarto piano, mostriamo la prenotazione e il pass, che merita una piccola parentesi. NY propone una serie di pass per visitare le attrazioni principali ma anche per accedere ad attività “minori”, e questo strumento consente di risparmiare tempo e denaro. Noi abbiamo scelto il Sightseeing pass, perchè ha una peculiarità rispetto agli altri: la maggior parte dei pass fornisce l’ingresso alle attrazioni per tot giorni, mentre il Sightseeing concede di effettuare un certo numero di attività, a scelta del sottoscrittore, senza particolari limiti di tempo. Questo pass ci ha concesso grande libertà, e lo rifaremmo, se dovessimo avere la fortuna di tornare a NY. Ma torniamo a noi (che tanto poi non torniamo mai nei posti che visitiamo). Entriamo piuttosto rapidamente dato che gli ingressi sono scaglionati, e saliamo in pochi secondi al 100esimo piano.

L’Edge è una terrazza panoramica triangolare sospesa nel vuoto a oltre 300 metri d’altezza, con una piccola porzione di pavimento a vetro. Le vetrate dividono la folla dal vuoto, e per eluderne l’ostacolo si possono salire le scale oltre cui la visuale è talmente pulita e libera da filtri da generare stordimento. Siamo fortunati, il tramonto inizia proprio in questo istante a calare il suo sipario multicolore. Le tinte del cielo limpido di questo venerdì newyorkese mutano intensità davanti ai nostri occhi, Manhattan da quassù è una meraviglia, e io e Francy siamo sbalorditi, perché un po’ te lo aspetti ma poi è effettivamente impressionante ammirare le mille luci di New York da un simile punto di vista. La folla è numerosa anche quassù, ma c’è spazio per tutti, e gli spiragli si aprono e si chiudono con frequenza, lasciando a ciascuno modo di respirare lo stupore di una tale visione. Lo stupore è una sensazione preziosa, lo stupore è vita.

Più la notte invade il proscenio e più mi aspetto di veder sfrecciare davanti a me le auto volanti di Blade Runner, di cui questa scena sembra l’incipit. E’ fantascienza, è un sogno al cloro che rimescola materia onirica e cinematografica, è un luna park a perdita d’occhio, una foresta di sequoie di vetro e d’acciaio, una distesa di luci e bagliori nel buio.

Forse è persino troppo per un viaggiatore come me, che ha visto un pezzettino di mondo ma rimane pur sempre un uomo da saloon, in cuor suo. Le grandi opere dell’uomo di norma mi sovrastano perché non le concepisco, ma sull’Edge la pellicola scorre diversamente e mi concede uno smarrimento ossigenato. Per Franci è diverso, lei hai il terrore delle altezze eccessive, e forse la sua euforia deriva dallo shock di quel terrazzo a precipizio sul mondo, mentre per il resto riesce a gestire lo spettacolo con più classe e disinvoltura.

Ma la fatica inizia a farsi sentire, a prevalere sullo stupore, sono le 22 ormai e quindi le 4 del mattino del giorno dopo per noi. Ergo, siamo a spasso da 24 ore, e il crollo è dietro l’angolo. Scendiamo dalla giostra e decidiamo di mangiare due piatti di verdure miste in uno dei market in cui ci si può anche sedere. Usciamo di scena in dissolvenza rapida, le fauci del Marriott ci fagocitano, in camera perdiamo i sensi in pochi istanti, nel silenzio ovattato della perdita di sè.

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Cap.8 – The end

Venerdì. Scappiamo dalla casa mobile di Santiago do Cacem senza rancore, proseguiamo verso nord infilandoci nella striscia di terra e sabbia che insiste davanti Setubal. Lungo la strada incontriamo paesini anonimi, ma di uno mi colpisce il nome: Deixa o resto, ovvero Lascia il resto, un invito curioso per una cittadina, che mi porta indietro negli anni al primo viaggio negli Stati Uniti, quando io e Francesca incrociammo un paese chiamato Truth or consequences, esattamente fra Las Cruces ed Albuquerque, in New Mexico. Sono nomi che non si dimenticano più, per quanto poi la memoria si fermi lì.

Arriviamo al mare e visitiamo due spiagge: praia da Malha da Costa e praia da Costa da Galè. Qui la sabbia è bianca e finissima, il mare più caldo, le acque caraibiche. Tutto bello, tutto selvaggio, ma mancano le infrastrutture utili a spezzare un po’ la monotonia della spiaggia, per chi, come noi, non riesce a stazionare in spiaggia senza far nulla oltre il minimo indispensabile. Così ci facciamo due passi che diventano duemila per percorrere la striscia di sabbia fino all’estremo settentrione, dove troviamo la più frequentata praia da Troia Galè.

Questo luogo merita una riflessione, perché al di là della mancanza di ogni tipo di servizio, a ridosso di queste splendide spiagge è in corso una cementificazione selvaggia, ma di lusso, tanto da far pensare che nel giro di pochi anni queste spiagge saranno appannaggio di pochi. Già ora l’ingresso è suddiviso fra owners e visitors, un ragazzo segna il numero di quanti entrano ed escono, quasi sia in corso un’indagine statistica utile a rilevare il flusso effettivo di persone in loco. Tutto lascia presumere che la speculazione edilizia in essere produrrà un piccolo paradiso per pochi eletti, perché la zona si presta ed è posizionata in modo strategico.

Mandiamo in frantumi la monotonia di quella bellezza illusoria e apparentemente virtuale, dato che le spiagge sembrano quelle di Valerian, un film/videogame che mi è capitato di vedere coi bambini, e ci mettiamo alla ricerca di un’altra spiaggia o di un bosco o di una possibile via di fuga. A pochi passi dal parcheggio c’è un traghetto già pronto a salpare per Setubal. Venti minuti e siamo di là. Sbrighiamo alcune urgenze e ci fermiamo a pranzo in una trattoria che pare il Boschetto di Diego. Mangiamo in questa allegra baraonda di cui inizialmente non comprendiamo i meccanismi e poi ci dirigiamo verso la nostra ultima tappa, che è un camping di bungalow immersi nel parco naturale di Arrabida. Il posto è perfetto per noi, decidiamo di fermarci lì e goderci la natura, l’ultimo tramonto portoghese e un bel piatto di pasta.

Sabato. 5 del mattino. E’ ora di andare. Restituiamo la macchina, imbarchiamo il bagaglio, stavolta va tutto liscio, a parte le file bibliche cui ci costringe Ryanair sia in fase di imbarco che di ritiro bagagli. Di voli ne abbiamo tanti sulle spalle, ma i due atterraggi di questo viaggio non sono stati dei migliori, forse a causa del vento. Scendiamo a Bologna e ci aspira un caldo soffocante cui non eravamo più abituati. La cappa della grande pianura termina all’altezza di Rimini più o meno. Il cielo si fa limpido e l’aria più fresca. Mentre guido non faccio che pensare alle prossime opzioni di viaggio, a dove puntare il dito sul mappamondo, a cosa sognare nei prossimi mesi per respirare bene e mantenere una prospettiva profonda. Qualche idea credo di averla già

Chiudo con un breve ma significativo resoconto finale, valido per ciascun membro del viaggio, eccezion fatta per poche sporadiche sortite di Irene sulla mia schiena:

km percorsi a piedi in 15 giorni: 113;

km percorsi in bicicletta a Lisbona in una giornata di sole: 34;

km percorsi in automobile sul territorio portoghese in 11 giorni: 2135.

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CAP.7 – Algarve – Sarges – Praia de Dona Ana – Praia Beliche – Praia Marthinal – Praia Amado

Apro il capitolo con una nota introduttiva sull’Algarve, premettendo che no, non sono un patito del mare. Prediligo altri tipi di ambienti naturali di norma. Ma non puoi non visitare l’Algarve, se decidi di girarti il Portogallo da nord a sud. L’Algarve è allegria pura, soprattutto nella parte più occidentale e selvaggia, dove si possono godere spazi immensi e persone speciali, che trasmettono energia positiva. Un luogo per cui le immagini parlano più e meglio delle parole.

E’ una terra costantemente sferzata da venti impetuosi, che insinuano ovunque la sabbia finissima ma coriacea, producendo un effetto simile al ticchettio martellante di una tempesta di neve e ghiaccio in alta montagna. Queste coste in alcuni frangenti non hanno nulla da invidiare alle scogliere sudafricane o irlandesi, di cui probabilmente rappresentano la giusta miscela. Il taglio nettissimo, le forma allungate, la maestosità, e poi le immense spiagge di sabbia sono elementi ricorrenti.

L’acqua è spesso freddissima, la temperatura atmosferica è godibile come del resto nel resto del Portogallo, ma qui il sole sembra stendersi e deflagrare sopra ogni cosa, fino a divorare in modo famelico ogni millimetro di superficie disponibile. Sole e vento spingono il viaggiatore a godersi un territorio a tratti ostile da punti di vista privilegiati, siano essi grotte, baracche, ristorantini, o caleidoscopici chiringuitos, che somigliano a visioni sciamaniche nel momento stesso in cui entrano nella dimensione dei ricordi.

Mercoledì. Il gestore del b&b Andmar è un ragazzo gentilissimo e ci fermiamo spesso a fare due chiacchiere con lui. La colazione che propone è squisita, i prodotti sono freschi e variegati, la salsa guacamole è da urlo, e non manca una doggy bag da portare in spiaggia per pranzo. Per la prima mattinata in zona scegliamo due calette sotto Lagos, molto belle e ricche di passaggi da perlustrare.

Passiamo ore piacevoli a praia de Dona Ana, facciamo il bagno, chi più chi meno, ma non reggiamo il sole del sud e alterniamo spiaggia e chiringuto sia nel pomeriggio che il giorno dopo, girovagando per spiagge stupende, come Beliche e Martinhal. Visitiamo il faro di Cabo de Sao Vicente e ci infiliamo in qualche allegra bottega in zona, dove ognuno di noi si concede un piccolo acquisto.

Concludiamo il nostro tour marittimo a Praia Amado, la più bella in assoluto fra quelle visitate, per l’atmosfera rilassata che si può respirare a pieni polmoni da quelle parti. I surfisti punteggiano l’oceano in quel disordine organizzato che è difficile comprendere per noi profani. Da lontano sembra un branco di foche, poi li vedi che galleggiano e si barcamenano e chiacchierano leggeri in attesa dell’onda giusta, col sole enorme a campeggiare alle loro spalle e il vento che domina ogni recesso ed agita il mare.

Poi persone e cani che vagano senza una direzione precisa, un po’ come il vento, bimbi che giocano e si rotolano, il blu intenso dell’Atlantico che quasi stordisce per la sua vastità. Il chiosco in cima al promontorio, in cui regna la felicità. Tutti ridono o sorridono, dai baristi agli avventori più o meno trasandati che si alternano a bancone alla rinfusa. Qui sembra non esistere alcuna forma d’ansia, qui non sembra esserci domani, è un oggi eterno, la cui consistenza, forse effimera, è dettata dal panorama che incanta e chiude chiunque dentro la bolla delle possibilità infinite. Nulla è precluso, forse nulla serve.

Mi piace immaginare le persone ad Amado -tuttora e sempre- intente soltanto a divertirsi e parlare di niente, di quel niente così pieno da contenere verità oceaniche. Finito l’incanto, urge la nostra contingenza che impone di proseguire verso nord. Ci attende un bel posto ma una casa mobile assai fatiscente, da cui ci affrettiamo a togliere le tende in fretta, l’indomani.

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Cap.6 – Zezere – Evora – Il set- Il Mago di Beja – As Roma – Albufeira – Portimao – Benagil – Piratas – La crisi – Vila do Bispo – Sagres

E’ lunedì , ci svegliamo a Manteigas di buon mattino e procediamo in macchina verso la Valle do Zezere, una delle più profonde valli glaciali d’Europa. L’ultima traccia del glorioso regno di ghiaccio è per l’appunto il Rio Zezere, un fiumiciattolo che trasporta acqua purissima a 5-6 gradi, e che da qui percorre ben 200 km prima di confondere la propria anima con quella del Tago e finire assieme a lui nell’Oceano Atlantico.

Abbandoniamo la macchina senza nome nel nulla e facciamo circa 5 km a piedi verso fondo valle, senza forzare. Non c’è nessuno in giro, a parte un’escursionista solitaria. Giochiamo più che passeggiare. Proviamo a entrare nel fiume, il freddo è glaciale e doloroso, ce la ridiamo, improvvisiamo una gara di resistenza e alla fine la spunta Francy in un modo che non esito a definire eroico.

Terminati i giochi olimpici di Zezere, si parte in direzione Evora, città bianchissima e assai accogliente, in cui incrociamo il secondo set cinematografico del nostro viaggio (il primo era uno spot nei pressi di Praca do Comercio a Lisbona): in una piazzetta si gira un film di cui non comprendo il titolo. Una macchina è incastrata nel fianco di un pullman a seguito di un incidente mai avvenuto, e un gran numero di poliziotti affronta dei malviventi, per motivi oscuri.

Dopo l’ultimo ciak è divertente osservare guardie e ladri festeggiare insieme, con tanto di bollicine e cori da stadio. C’è sempre un lieto fine, oltre la fine. Gelato per i bimbi, vino fresco per noi e di nuovo via in macchina. Dopo un’ora siamo a Beja, cittadina dell’entroterra ormai prossima all’Algarve. Mangiamo cibo paradisiaco nella taverna Pulo do lobo, il Mago di Beja, che per il resto ci pare una cittadina dimenticabile.

Martedì partiamo presto perché alle 12e30 dobbiamo trovarci a Portimao, dove ci attende una gita in motoscafo fino alle grotte di Benagil. Siamo nei tempi, il taglio dell’escursione è oltremodo turistico, ci sembra tutto troppo facile, quasi banale, e noi da bravi e sprovveduti lupacchiotti ci infiliamo una visita al ritiro della Roma, che si trova ad Albufeira proprio in quei giorni. Non si può resistere al fato, e arriviamo alle 11e30 allo stadio municipale, dove il pullman della magica svetta da lontano, dominando l’orizzonte. Attendiamo, chiediamo informazioni, e alla fine spuntano giocatori e allenatore.

L’impatto è emozionante, io sono il peggiore fra tutti i presenti in loco quanto a esagitazione, ci facciamo qualche foto, parliamo coi ragazzi e col mister, ne stanno per uscire altri ma è tardissimo, dobbiamo andare, tipo immediatamente, e sgommiamo via in una nuvola di sabbia da cui comunque riesco a scagliare un fragoroso “Forza Roma”, che rimane sospeso a mezz’aria per qualche istante in una sorta di vignetta animata.

Arriviamo d’un soffio a Portimao, il tizio all’accoglienza scorre il suo schermo e mi domanda: Simòn? E io: si, come lo sai? E lui: perché mancavi solo te! Ah ecco. Ci accodiamo e come in ogni fila le nostre ragazze scompaiono per le loro necessità, e io e Gim stiamo lì ad aspettarle come due bachalau. A proposito, ciò è accaduto sistematicamente dal primo all’ultimo giorno di viaggio. Attendere le ragazze nei momenti cruciali è consuetudine per noi maschi. Mi ricordo per una spennata di prendere la xamamina, che dai tempi del travaglio di stomaco davanti alle Cliff of Moher è mia fedele compagna in mare aperto.

Fra i nostri accompagnatori c’è una ragazza parecchio matta ed estroversa. Grida a squarciagola al passaggio di un bel galeone (“Ehiiii Pirataaaaas!”), e sostiene di essere la moglie di Jack Sparrow. E’ plausibile, a onor del vero. Si rivela ben presto una bella persona, appassionata del suo lavoro. Ci racconta tante storie e ci consiglia dei luoghi idonei ai bambini. L’escursione è canonica ma divertente, piena di scorci mozzafiato e di rocce interessanti, che in molti casi somigliano ad animali o mostri di foggia varia, in altri ci ricordano l’antro nascosto di Willy l’orbo e i tanto idolatrati Goonies. Ci bagniamo completamente a ogni virata, e Gian Marco ha persino il coraggio di tuffarsi in mare aperto per poi tornare a bordo in stato di congelamento nello spazio di un nanosecondo. Avremmo potuto anche venderlo a tranci in un mercato del sud a quel punto, ma decidiamo di tenerlo con noi.

Tornati a terra, andiamo a scoprire una spiaggia lì nei pressi. In mare ci sono dei gonfiabili che i bambini dovrebbero raggiungere nuotando per parecchi metri. Gim è un toro, se ne frega del freddo e della corrente avversa, nemmeno ci pensa, prende e in poche bracciate è già là a giocare.

Iri entra in crisi, l’acqua è fredda, si arrabbia, è furiosa, vorrebbe che qualcuno portasse i gonfiabili a riva probabilmente. Noi le prendiamo un’aranciata, un gelato, le promettiamo una casa nuova e tutta una serie di benefits, nonché la risoluzione di alcune criticità di portata planetaria.

Superata la crisi, partiamo alla volta di Vila do Bispo, paesino vicino Sagres, nell’estremo ovest dell’Argarve: frammenti di tramonto in spiaggia, vento che soffia da e verso tutte le direzioni, sopa do dia e pesce per cena, deliquio di gruppo nel grazioso appartamento di turno, e buonanotte.

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5 – Quinta de Cumieira – Vila Real – Casa de Mateus – Alvao National Park – Arouca – Passadicos do Pavia – Esposa – Manteigas

E’ già venerdì, la prima settimana è andata, siamo (o crediamo d’essere) viaggiatori e le nostre soste sono sempre brevi, faccio una doccia e ripartiamo. Devo guidare parecchio, la strada oggi non è il massimo, e nemmeno io. Arranco pesantemente, i miei sensi di ragno non sono i soliti al volante, percepisco la ragnatela del traffico e la strada in modo distorto e i miei navigatori mi supportano guidandomi e annaffiandomi al bisogno, e dopo un paio d’ore arriviamo in un paradiso intitolato Quinta de Cumieira, una masseria dell’800 con quattro stanze per gli ospiti. E’ un posto probabilmente incantato, di certo bellissimo, dove solo una lieve brezza rompe il silenzio inducendo il viandante al riposo e al sonno. Non sembra vero d’essere qui, dopo uno sforzo simile.

Le vigne circondano ogni cosa e ci avvolgono, un passaggio verdeggiante fra di esse conduce a una piccola piscina. L’ombra di un nocciolo ci tiene al riparo dalla luce e dal mondo fuori, la febbre scende ma non passa, però quel luogo gradualmente mi guarisce, cullandomi in una dimensione di pace rara. I gestori vanno e vengono, ci sono e non ci sono, ogni loro apparizione è discreta, estemporanea. Assaggiamo i loro vini, ci rilassiamo, i bambini trovano in questo luogo rurale e idilliaco una dimensione che incredibilmente li acquieta. La natura ci asseconda, e noi assecondiamo lei.

Passiamo ore nella quinta, eccezion fatta per la visita alla Casa de Mateus, una residenza settecentesca cinta da una flora rigogliosa e variegata, e per una piccola sortita alla cascata de Galegos da Serra, nel parco di Alvao: non è nostra abitudine stazionare tanto a lungo nelle strutture in cui pernottiamo, ma questo sembra il posto ideale per infrangere alcune regole di viaggio.

Quinta de Cumieira e le sue vigne raccontano storie antiche, storie di lavoro e di fatica, di vita e di benessere bucolici. Il tempo sembra essersi fermato perchè non c’è traccia delle sovrastrutture della modernità, eppure è chiaro che qui c’è tutto ciò di cui un essere umano abbia bisogno per vivere bene. Forse all’ingresso un filtro invisibile trattiene e tiene lontane le impurità e le tempeste mediatiche che oltre il recinto si diffondono senza ritegno e interruzioni. Forse questo luogo è una parentesi spazio-temporale, un buen retiro utile a ritrovare e ricomporre se stessi.

Dentro la quinta c’è una fonte di acqua fresca e purissima, arrivano gli amici dei gestori, si scambiano saluti e abbracci, si riforniscono. La loro posa, le movenze, e le parole, che pure non comprendo, sono di un’affettuosità reciproca e musicale che mi colpisce intensamente, infondono tranquillità. Decidono di fermarsi a cena, e anche noi, a pochi passi da loro. Stiamo davvero bene, tanto che quello stare bene si può sintetizzare, distillare e chiudere nella boccetta magica dei ricordi da portare sempre con sé.

La quinta ci regala due giorni magnifici, non la dimenticherò, come il succo delle arance che il gestore coltiva vicino a un rio che non vediamo, tanto è estesa la proprietà di questi signori d’altri tempi, o come la mano esile della mamma 92enne dei gestori, che ci saluta prima di partire. Se ripenso all’anziana signora, l’immagine che mi restituisce la memoria è quella della spassosa madre di George Jefferson, il mitico re delle lavanderie newyorkesi.

Domenica. Ci aspetta Arouca e il Passadicos che costeggia il fiume Pavia per 9 km. La strada per arrivarci è stretta e tortuosa ma panoramica, è divertente guidarla. Un mix fra le anse maestose che condussero me e Fra a Las Alpujarras in Spagna, più di 15 anni fa, e gli altopiani della Mesa Verde in Colorado, dove lasciammo il cuore nel 2010. Dopo anni di viaggi, i luoghi si mescolano, si confondono, si sovrappongono come se gli uni sfumassero per poi dissolversi negli altri, un sito te ne ricorda un altro o tanti altri per i motivi più disparati, e forse fa bene Francy a ritenere di aver fatto un solo grande viaggio che li comprende tutti, in questi anni e negli anni a venire, dato che il futuro del viaggiatore è comunque segnato.

Ad Arouca c’è uno dei ponti sospesi più lunghi d’Europa, ma qualcuno in famiglia soffre di vertigini da un po’ di tempo, e per solidarietà rinunciamo. Il percorso del Passadicos do Pavia è bello e articolato ma alcune salite sono faticose, ci impieghiamo 3 ore, i bambini sono esausti ma non deludono nemmeno oggi. Le loro possibilità e la loro prospettiva si allungano ogni giorno, sotto i nostri occhi. Acquistano indipendenza, iniziano a capire il valore del nostro modo di viaggiare (affascinante, ma faticoso), cominciano a intuire che tipo di viaggiatori vorrebbero e potrebbero essere, smaltiscono ogni forma di timidezza ma conservano il rispetto (più o meno), sanno quando è il momento di dare tutto e quando è tempo di ricaricarsi, imparano l’arte di arrangiarsi e le usanze dei popoli, lussi che gli sarebbero preclusi se in questi anni li avessimo rinchiusi nei villaggi in cui spopolano forme di turismo omologato e artificiale.

Un taxi pronto all’uso ci riporta alla macchina. Durante il tragitto, sullo schermo dello smartphone dell’autista compare la scritta “Esposa”. Giusto uno squillo. Sono curioso, e il signore di una certa età mi spiega che lui vive proprio sopra la strada, e che la moglie gli fa uno squillo quando lo vede passare. Mi racconta che vivono una bella vita, che l’aria è pulita e il cibo molto sano. Non stento a credergli. Ci ripuliamo, tento di fare pipì nel nulla, fra alberi e arbusti, ma come sempre quando tocca a me passano carovane di mezzi di ogni tipo, parate commemorative chilometriche e persino le frecce bicolori portoghesi.

Mi ricompongo, ripartiamo, abbiamo parecchia strada da percorrere in direzione Manteigas, un villaggio incastonato nel cuore della Serra de Estrela. Gim e Iri si sono meritati l’ipad e un bel film per trascorrere le oltre due ore di tragitto. Arriviamo tardi, il tempo di cenare e mangiare di nuovo benissimo. Forse troppo, rispetto al solito. Guardiamo le stelle e la luna, che gioca a nascondino con la valle, prima di sprofondare nel sonno profondo e scuro della montagna.

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4- Las Dunas de Sao Jacinto – L’aereo -Porto – Caldelas – Peneda Geres National Park- La febbre

E’ mercoledì mattina e dopo una colazione trascurabile prendiamo il traghetto che in pochi minuti ci condurrà nei pressi della Reserva Natural das Dunas de Sao Jacinto, dove ci concediamo una passeggiata di qualche km e un pigro spuntino in spiaggia. Il meteo è strano, per lo più nuvoloso, il sole fa capolino di rado, fa fresco, anzi no.

Nulla di speciale, l’atmosfera induce alla sonnolenza, ma ciò che rompe la calma piatta delle 10 o giù di lì è un rumore in aumento costante dal cielo e un grosso aereo grigio che squarcia il cielo e vira proprio sopra le nostre teste, veramente troppo vicino per chi non sa che a pochi passi da lì ci sono un aerodromo e la pista d’atterraggio di questi giganti dell’aria. Sono preso dal panico, perchè l’aereo sembra fuori controllo, penso stia per finirci dritto in testa, cerco Irene che era vicina a me ma non la trovo, non vedo nulla in realtà. Ecco cosa dev’essere il panico, che probabilmente non avevo mai sperimentato prima in tale misura, se non forse quando anni fa io e Francesca ci trovammo in macchina – all’interno dell’Addo Elephant park- davanti a un grosso esemplare maschio di elefante africano, peraltro incattivito dal picco di testosterone.

All’epoca, seguendo le istruzioni che i rangers ci avevano fornito all’ingresso, dopo aver notato segnali assai poco rassicuranti che lasciavano dedurre che l’elefante fosse in pieno must, procedemmo in retromarcia in modo quasi impercettibile finchè il gigante trovò uno spiraglio per defilarsi fra gli arbusti e lasciarci passare. Se mi concentro, sento ancora il battito del mio cuore e il respiro bloccato dall’emozione e dalla paura di quegli istanti.

Ma torniamo al presente, fra le dune di Sao Jacinto. Al terzo passaggio aereo mi abituo ma non troppo, dato che non ho nemmeno la prontezza di filmare quella scena tanto cupa quanto profondamente Dunkirk. O meglio firmo un decollo di cui si percepisce soltanto il boato. Ho poi pensato a quanto dev’essere spaventoso subire un vero attacco aereo, agli uomini che bombardano altri uomini, a quanto siamo bravi a generare terrore, a quanto siamo infinitamente stupidi in certi casi. Potremmo dedicarci ad ammirare e riprodurre la bellezza del cosmo, ma il lato oscuro prevale, il più delle volte.

Riprendiamo la macchina e dopo un’ora siamo a Porto dove trascorriamo il pomeriggio: dopo qualche minuto di terrore in cui perdiamo la bussola e il controllo e ci ritroviamo incastrati in vicoli tanto angusti da sembrare inestricabili, siamo finalmente in giro per questa splendida città che si sviluppa sulle rive del fiume Douro.

Porto è bellissima, per quanto eccessivamente turistica, visto il proliferare incessante di locali di ogni tipo, che si susseguono l’un l’altro senza respiro. Per il resto, rimaniamo incantati dalla città, dai suoi colori sgargianti e dalla luce che la illumina in un modo unico. Posso ancora vedere e toccare quella luce tanto rara. Il clima è fresco e godibile e la gente distesa e apparentemente serena.

Dai colli dove riposa quieto il Jardim de Morro si può godere una vista magnifica sulla città, mentre il sole affonda dolcemente sul Douro al tramonto. Gian Marco trova un completo sportivo e una palla che gli piacciono. E’ la svolta. Non se ne separerà più fino alla fine del viaggio.

All’imbrunire ci dirigiamo verso Caldelas, un paesino sopra Braga, situato in posizione strategica per visitare i parchi a nord. In paese sembra stia per esordire una festa che però non avrà mai luogo. Sembrano in corso eterni preparativi e messe a punto, forse i paesani si preparano da anni e nel frattempo la popolazione è invecchiata tanto da aver perso la necessaria verve. Nulla accade, almeno per quanto ci è dato vedere. Ceniamo ottimamente presso la Churrasqueira, dove una squadra di camerieri gentilissimi si occupa di noi con cura. Anch’essi sembrano in attesa di qualcosa o sul punto di fare qualcosa, ma qui tutto rimane perfettamente identico a se stesso oggi, domani, e sempre. Forse Caldelas è la fortezza di Buzzati, e a valle dilaga il deserto dei Tartari.

Non mi rendo subito conto della fatica accumulata in giornata, Porto mi è probabilmente fatale e la mattina del giovedì mi risveglio malconcio, ho sintomi influenzali importanti ma non ci faccio caso perché non sono mai stato male in viaggio, eccetto forse quaranta anni fa dopo aver visitato la sommità della Torre Eiffel con la mia famiglia.

Me ne frego, ordino una spremuta d’ibuprofene e andiamo verso il Parco di Peneda Geres, dove scegliamo un bel trekking nel bosco, costeggiamo un lago e saliamo e scendiamo per sentieri non perfettamente segnalati. I parchi non sono ancora organizzati a dovere, in alcuni casi mancano info point che sappiano fornire indicazioni in inglese. Manca un po’ di precisione nelle indicazioni, che risultano spesso sommarie. Manca in particolare uniformità nella comunicazione per quanto riguarda la possibilità di avventurarsi coi bambini in determinati siti, tanto che ti viene voglia di scommettere, ma entro i limiti della ragionevolezza.

Tuttavia il potenziale di Peneda Geres ci è parso notevole, grazie alla vegetazione particolare e coloratissima, che mi ha ricordato in senso pittorico la parte canadese del Glacier National Park, in Columbia britannica per la precisione, dove il giallo e il viola illuminavano un paesaggio di dimensioni ben più ampie di questo. Continuiamo a camminare fra boschi e arbusti, sbagliamo sentiero un paio di volte, finchè un giovane nord europeo ci indica la via del ritorno. Sudo freddo ma ho la sensazione di aver smaltito le scorie influenzali. Dopo qualche ora siamo in un chiosco nel verde, dove decidiamo di portare i bambini in una piscina nei paraggi per farli riposare un po’.

Mi addormento avvolto dal mio fedele smanicato North face, probabile attuale simbolo pro tempore della mia individualità tanto sensibile al clima, ma qualcosa non va. Ho la febbre alta (alta per me), scappo in albergo, mi perdo in un delirio d’ombre che mi assalgono, mi difendo goffamente dalle staffilate influenzali con uno scudo di paracetamolo, affronto demoni immaginari e cerco il santo Graal come lo stralunato Parry (Robin Williams) de La leggenda del re pescatore, poi provo a cenare coi miei ma è solo un’allucinazione, anche quella.

La notte è una doccia di sudore e incubi, di lenzuola subacquee che mi avvolgono come viscida poseidonia oceanica, di visioni intermittenti come il sonno, che si interrompe puntualmente ogni ora, nemmeno fossi intrappolato nel loop esistenziale di Strade perdute. Attendo l’alba con ansia.

Robert De Niro – 80 anni spesi bene

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C’è poco da dire su questo mostro sacro del cinema e dell’arte, e le parole lasceranno presto spazio alle immagini, perché nulla può raccontare la storia di De Niro meglio delle immagini. Chiunque ami il cinema non può non aver sognato grazie a lui, i personaggi che ha interpretato sono tanti e tali da ritrovarlo ovunque, nei vostri film preferiti, nel vostro immaginario, in quello che potremmo definire mito. Robert De Niro è senza dubbio un mito del nostro tempo, un’icona capace di adattarsi negli anni ai ruoli più disparati, e di farlo con tali classe, maestria e risolutezza da lasciare stupefatti. I più importanti registi del pianeta lo hanno scelto e lo scelgono da 60 anni a questa parte, e non potrebbe essere diversamente. Cercherò di onorare questo spazio con la sua presenza, cercherò di riprodurre qui il suo sguardo denso, scuro e penetrante, senza avere la pretesa di aggiungere alcunchè alla grandezza di quest’uomo prodigioso. Tanti auguri Bob, ti amiamo alla follia.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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3- CABO DE ROCA, WACKY RACE A SINTRA, L’OVERLOOK, NAZARE’, OBIDOS E LA TRATTORIA FANTASMA DI AVEIRO

Lunedì, ritiriamo la macchina in Praca do Restauradores, dove sbrighiamo le solite pratiche estenuanti di noleggio presso Ok mobility, su cui il giudizio rimane tuttora sospeso. Probabilmente non la consiglierei . Il Portogallo si rivela subito facile da guidare, le strade sono buone, esordiamo visitando Boca do Inferno e Capo de Roca, il punto più occidentale dell’Europa continentale, luogo significativo e scenografico.

Poi tentiamo la sorte per Sintra. Non siamo in formissima, ne ignoriamo i motivi, e Sintra è un’altra trappola per turisti. Le persone ci arrivano a cataste, le automobili sbuffano una sull’altra, sembra di partecipare alla Wacky race, ma mancano Peter Perfect e Penelope Pitstop, non incrociamo nè il diabolico coupè né la multiuso di quel genio di Pat Pending. Entrare o trovare parcheggio è opera da contorsionisti kazaki a riposo, e non possiamo permetterci un altro errore, e per quanto siamo consapevoli di rinunciare a una delle principali attrazioni portoghesi, cerchiamo -con fatica- di uscire dal girone infernale che circonda le mura del sito e decidiamo di farci raccontare Sintra da Francy, che l’ha già visitata anni fa.

Filiamo via verso Nazarè, nelle cui acque un lunghissimo canyon sottomarino profondo fino a 5 chilometri garantisce ai surfisti i più grandi cavalloni al mondo. Quando arriviamo il mare è mansueto, e piccoli surfisti in erba assaggiano onde docili, facili da domare.

Ammiriamo un tramonto dirompente prima di cenare a Vinha d’alhos, una trattoria di Valado dos frades, un paesino dell’entroterra che pare il Messico anche se non hai mai visitato il Messico. Qui il gentilissimo gestore di cui ricordo bene il viso ma non il nome ci fa assaggiare una guancia spettacolare. La nostra dimora odierna è a due passi.

Quinta do campo è un‘antica tenuta gestita dal brillante discendente di una storica famiglia portoghese (“I’m the seventh generation of my family, i’m so proud”). Sarà anche uno dei rari gestori con cui riusciremo a parlare in inglese. In proposito, Irene continua a ribadire con forza a chiunque si rivolga a noi -sorridendo del suo sorriso travolgente e sdentato- che possono esprimersi nel modo che preferiscono, ma tanto “noi parliamo italiano”. Insomma, Iri non accetta di buon grado la varietà linguistica che la strada ci concede, nonostante viaggi da quando è in fasce. Eppure ogni idioma possiede una sua musicalità e custodisce la cultura e la storia di un popolo. Forse una quasi settenne non è abbastanza matura per comprenderlo?

Ma torniamo per un attimo dietro le quinte della quinta. I fasti della famiglia del nostro originale amico sono ben visibili nell’arredamento magnificente e negli antichi volumi presenti nella biblioteca da sogno cui consente generosamente agli ospiti di accedere in qualsiasi momento. Chiedo subito di pagare e l’uomo mi dice di rilassarmi, ora sono a casa (“Thiiis is your hooome nooow!”), non siamo in uno di quei posti in cui la gente e le procedure sono automatizzate, in cui tutto è ridotto a documenti carta di credito pin pulsante 2 in ascensore e tanti saluti. No, questo è un luogo in cui una certa disumanità è stata ufficialmente bandita.

Martedì. La colazione è servita in cantina, i cui interni trasudano tradizione e cultura. La maestosità complessiva di questo posto mi rammenta l’Overlook Hotel, senza un motivo particolare. Il mattino ha l’oro in bocca, ma non noto Jack o Danny Torrence aggirarsi per saloni e corridoi, né tantomeno il bancone ammaliante di Mr. Grady, ma Quinta do campo -soprattutto di notte- sembra nascondere storie oscure e imperscrutabili sotto la sua pelle bianca.

Alla fine si paga, perché alla fine si paga sempre, al di là di fughe poetiche e giravolte, e si riparte. Facciamo un passo indietro (attività inconsueta per la mia famiglia) per visitare Obidos, le sue mura e il suo grazioso centro storico bianco e giallo, costellato sovente da botteghe ciocco-artigianali e dal viola furoreggiante delle bougainville.

Il negozio che mi colpisce di più è un’eccentrica orto-libreria, dove ortaggi freschissimi convivono con una nutrita collezione di libri. L’impatto visivo è conciliante e il profumo dei libri si mescola a quello delle verdure.

Maciniamo poi un po’ di km verso nord, facciamo una pausa nella struttura di turno, dove le animelle si divertono in piscina, e poi andiamo a bivaccare sulle sabbie soffici di Praia da Costa Nova, dove noi assaggiamo il vino locale e i bambini saltano saltano come non ci fosse un domani. I nordici fanno il bagno come se niente fosse, come se l’acqua fosse calda, il guardaspiaggia è agitato sul suo quad, il suo fischietto è in fermento, come i marosi che aumentano col passare dei minuti.

Scende la sera e ceniamo da Pelucha, storica trattoria di Aveiro, che in base al romanzo di viaggio di Saramago non era più presente in città, quarant’anni fa. “Quando al viaggiatore viene un po’ di appetito, verso l’ora di pranzo, dai confini della memoria gli sovviene un ricordo. Tanti anni fa, ad Aveiro, ha mangiato una zuppa di pesce che fino ad oggi gli è rimasta nella ritentiva dell’olfatto delle papille gustative. Vuole appurare se i miracoli si ripetano e va domandare dove sia il “Palhuca”, come si chiamava l’osteria dove era avvenuta l’apparizione. “Palhuca” non c’è più, adesso “Palhuca” sta cucinando per gli angeli, o forse per la principessa Joana, sua patrizia, al di là di questo cielo grigio. Il viaggiatore china il capo, vinto, e va a mangiare da un’altra parte”.

Scopro il fatto curioso leggendo la parte del libro dedicata ad Aveiro dopo cena, e mi convinco di aver mangiato in una trattoria fantasma. Continuo a pensare ancora adesso, mentre sistemo gli appunti e scrivo, se sia stata magia o meno, se il Palhuca in cui abbiamo mangiato fosse reale o fosse invece una trattoria ai confini della realtà, nascosta com’era fra vicoli di scarso fascino e una serie infinita di piccoli cantieri e costruzioni decadenti. Che sia stato il frutto della nostra immaginazione? Se tornassimo da quelle parti, la ritroveremmo? Certo, il bacalhau e i camaroes erano veri, e anche buoni, e forse ciò basta per dissolvere le fitte nebbie del mistero. O forse no.

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2 LISBONA

Arriviamo a Lisbona nel tardo pomeriggio per via del volo in ritardo ma anche perché i ritmi portoghesi si rivelano subito piuttosto blandi. Inizialmente non la mando giù, non accetto un sistema che mi pare disfunzionale, reagisco con stizza, un po’ come mi capitò pochi mesi fa a Istanbul, in cui il fenomeno era persino più accentuato. Ma non faccio fatica a trovare il giusto assetto, che mi consente di intuire in modo graduale la forma mentis del popolo di cui saremo ospiti nelle prossime due settimane. Capiremo ben presto che il lato migliore del Portogallo è rappresentato proprio dalla sua gente.

Ci sistemiamo in appartamento nel quartiere di Alfama, valzer di docce e poi usciamo rapidamente verso Baixa e il Barrio Alto, ci concediamo la solita birra propiziatoria d’inizio viaggio, diamo un’occhiata preliminare, passeggiamo senza meta, mangiamo qualcosa, ascoltiamo della buona musica in un locale sotto casa, e poi andiamo a dormire sufficientemente stremati da una giornata che pare un mese, dato il calvario patito in patria.

Sabato. Ci alziamo presto, assaggiamo i pastel de nata in una pasticceria in zona, e poi saliamo al Castello di Sao Jorge, che ci godiamo quasi in completa solitudine, perché gli Alfacinhas (letteralmente, lattughe), ovvero gli abitanti di Lisbona, si svegliano tardi. Il mattino si rivela il momento migliore per evitare sovraffollamenti e spostarsi velocemente.

Lisbona è una bella città, e Alfama è il suo cuore più limpido e autentico, un reticolo di vicoli in saliscendi che nascondono e custodiscono gemme colorate e musicali. “Vediamo Alfama, ma non sappiamo cosa sia. Eppure continuiamo a girare, a salire e scendere senza poterci fermare”. Ovunque ci accolgono sorrisi e kapirinha, e capiamo ben presto che quel sorriso è il marchio di fabbrica del Portogallo, un fattore costante che ci accompagnerà -insieme alla kapirinha- per tutta la durata del nostro soggiorno. Ce la giriamo a piedi, in tram e in bus per tutto il giorno, cerchiamo di capire questa città contorta e attorcigliata su sè stessa, che somiglia alle montagne russe per come sterza impetuosamente e si getta a capofitto in mare, per poi atterrare e riposare placida a bordo oceano.

Di norma sono felice dove l’opera dell’uomo è meno evidente. Ma l’anima di Lisbona è grande, protesa com’è verso l’Atlantico e verso il resto del mondo. Questa città ha un cuore puro, generoso, romantico, somiglia a una sensazione, restituisce il desiderio di scoperta e conquista del popolo portoghese, desiderio che non può non appartenere a chi nasce in un luogo che garantisce una tale prospettiva e una finestra d’acqua di simili dimensioni. L’oceano deve aver rappresentato l’ignoto e un richiamo irresistibile per chi si è spinto al di là del mare, secoli fa.

Lisbona sembra tantiluoghinsieme, e probabilmente è ovunque ognuno desideri sia. Induce il viaggiatore a condividere, elimina il riserbo che regna nel nord del mondo. Ti fa sentire a casa. Soprattutto se si è liberi al punto da non avere un’idea radicata di casa.

Di sera cerchiamo la trattoria di Ti Natercia, la Maria de culo bello de Lisboa, ma troviamo la Velha Taberna. Zia Natercia, una signora assai loquace di una certa età, oggi è chiusa e ci affidiamo ai dirimpettai. Ci accomodiamo per errore, a onor del vero. Avevo scelto Natercia leggendo di lei a casa, e osservando le immagini di quell’umile e accogliente osteria, che non potrebbe non evocare in chiunque abbia avuto un’infanzia niente affatto sofisticata il ricordo di nonne affaccendate e tinelli dalle luci soffuse. Scopriamo poi, quando Natercia si presenta a sorpresa al nostro tavolo, carica di racconti incomprensibili e di gesti affettuosi per Francesca e i bambini, che avremo comunque l’onore di mangiare il suo sublime bachalau, dato che prepara vari piatti anche per la taverna in cui ci troviamo. Inutile ribadire che anche qui abbiamo trovato casa, ma lo scrivo lo stesso. Dopo cena assistiamo alle acrobazie di vari artisti di strada, e come da tradizione ci ritiriamo prima che sia tardi.

Ma è già domenica. Ci svegliamo presto, per muoverci d’anticipo sulla città, che inizierà a stropicciarsi gli occhi e a sgranchirsi le tortuose, affusolate leve un paio d’ore più tardi. Scegliamo la linea retta per il terzo giorno e noleggiamo le bici per costeggiare o forse inseguire il Tago fino all’oceano lungo l’Avenida do Brazil, una ciclabile nuova di zecca che forse si chiama così perché punta verso il Brasile, terra storicamente significativa per i portoghesi.

Di primo acchito assistiamo al degrado della solita periferia urbana, che nei porti spesso è persino accentuato. Gim ne soffre intimamente, pensa che sia inconcepibile che tanti uomini siano costretti ai margini con tale evidenza. Lo capisco, ma non riesco a consolarlo come vorrei, perché so che ha ragione lui. Superati gli ultimi relitti dei bagordi della notte, che in alcuni casi ballano ancora alla grande in qualche angolo sospeso sul molo, si apre un percorso di luce e acqua a perdita d’occhio, che ci condurrà fin quasi a Cascais.

Intercettiamo i mercatini e una parata di cavalieri tambureggianti nel parco adiacente il monastero di San Jeronimo, poi ci fermiamo in una spiaggia semi deserta a saggiare il mare, che è bello ma gelido, e di ritorno compiamo l’errore che al viaggiatore ogni tanto (di rado per fortuna) capita di compiere: pensiamo da turisti e ci mettiamo in fila per visitare il Palazzo di Belem, una trappola di proporzioni cosmiche in cui la prima fila è soltanto propedeutica alla seconda e così via a salire, fino all’ultimo anonimo piano di una struttura di cui sarebbe stato sufficiente leggere la storia e osservare gli esterni.

Devo ammetterlo, la parte esposta della torre ha il suo fascino, procura l’illusione di essere sul ponte di una nave in mare aperto, ma prego il lettore di fermarsi lì, di limitarsi a contemplare quel gioco visivo e di non proseguire oltre, nel caso capitasse da quelle parti. Perdiamo più di un’ora -tempo prezioso per il viaggiatore – e poi pedaliamo di buona lena verso il centro per concederci l’ultima sera in Alfama, dove chiudiamo in bellezza concedendoci una cena di prelibatezze angolane e capoverdiane da Sao Cristovao.

I nostri figli giocano con la figlia di una coppia di ragazzi polacchi, di cui mi colpiscono il sorriso e la spensieratezza. E poi c’è la solita sensazione che non è nuova all’estero, quella cioè che mi induce a pensare che quei ragazzi potremmo essere noi, in versione polacca. Lo so che non siamo esattamente ragazzi, ma voglio concedermi questo lusso dialettico. Fuori dall’Italia ci si rende sempre conto della moltitudine e della varietà infinita di persone e tipi umani, delle innumerevoli caratteristiche, modalità, usanze e abitudini che differenziano gli uomini e le donne e i bambini del pianeta, e si acquisisce la facoltà di mettere in discussione tutto, di non dare nulla per scontato, di capire che il nostro sforzo di pensare, di acquisire certezze o presunte tali, di confezionare verità o presunte tali è una stilla dispersa nella vastità oceanica dei punti di vista.

E’ forse questa la ricchezza principale che si acquisisce viaggiando: si esce dall’orticello, dai sentieri che battiamo ogni giorno, dai binari delle conversazioni convenzionali, e si può dare uno sguardo oltre, laddove è possibile intercettare il flusso incessante delle idee e dei pensieri del mondo.

Ma ora basta divagare. Domani prenderemo la macchina in centro, dovremo essere freschi, ma ci attardiamo ugualmente nei soliti localini, per salutare Lisbona ed Alfama nel modo che meritano.

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1- PROLOGO

“Queste terre costiere sono predilette dal turismo. Il Viaggiatore non è un turista, è un Viaggiatore. C’è una grande differenza. Viaggiare significa scoprire, il resto significa semplicemente trovare”.

Josè Saramago – Viaggio in Portogallo

Formazione: Francy, Gim, Iri e me.

Parto preparato ma non troppo per il Portogallo, felice ma non così eccitato, come spesso mi capita in prossimità di certi viaggi. I bambini sembrano contenti di poter fare una vacanza in maniche corte, dopo un po’ di tempo. Noi adulti siamo più sul chi va là. L’impostazione del viaggio mi soddisfa a metà, in effetti somiglia troppo a una vacanza per certi versi, e l’impressione è che ci sia parecchio da scoprire, si, ma anche tanto che non faremo fatica a trovare. E’ un viaggio semplice, senza particolari punti interrogativi, senza l’ansia di doversi preparare fisicamente o di dover studiare accuratamente il territorio o infine di allestire il bagaglio nei minimi particolari. Ma viaggiare è anche ritrovarsi e condividere con la famiglia lo spazio e il tempo che la quotidianità spesso ci nega. E’ andare lontano per sentirsi più vicini l’un l’altro. E questo, al di là dello spazio, del tempo e dei modi che scegliamo per farlo, non cambia mai. Inoltre è stato un anno faticoso, e per una volta non guasta non doversi caricare di quella sana inquietudine che in certi viaggi si traduce in adrenalina costante. Siamo rilassati, fin troppo direi, tanto da far tardi la sera prima con gli amici, da non lesinare brindisi e abbracci, con le valige ancora a metà e la partenza fissata il mattino seguente.

E così è venerdì. Partiamo lenti, talmente lenti che rischiamo seriamente di perdere l’aereo a Bologna. In fondo siamo nei tempi (ancora), procediamo di buon passo, poi gradualmente il traffico rallenta, il navigatore ci segnala un incidente, un brutto incidente, i tempi di percorrenza si allungano mostruosamente, siamo fregati (forse). Si, ma questo racconto non avrebbe alcun senso se non fossimo arrivati in aeroporto, giusto? Decidiamo rapidamente di uscire dall’autostrada, prendiamo l’uscita di Faenza su due ruote, ma troviamo coda inevitabilmente anche sulla nazionale, fra mille crocevia intasati e tanti guidatori acciambellati sul volante a causa della calura intensa del mezzodì. Io inizio a prendermela con tutti, coi guidatori acciambellati, con la nostra supponenza, coi nostri ritardi, col fatto che non valutiamo mai ma proprio mai la possibilità di un imprevisto, con l’incoscienza che ci caratterizza e che poi è il nostro segreto ma adesso no, adesso è dannazione eterna e viaggio a rischio, e sbraito e mi agito contro la mia stessa superbia che mi ha lasciato credere di essere un viaggiatore navigato e quindi infallibile. Per fortuna rientriamo in autostrada a Imola, posso smettere di pensare e dare di matto.

Ci fiondiamo verso Bologna. Stiamo per arrivare al parcheggio ma la strada è interrotta (fatto senza precedenti, anche questo) e perdiamo altro tempo. Un passante vuole per forza fornirci indicazioni dettagliate per raggiungere in fretta la nostra destinazione, ma la sua flemma mi impone una fuga impertinente. “Eh ma allora” – lo sento lamentarsi mentre evaporiamo. Infine congediamo Zelda, la nostra macchina. La navetta ci carica su, l’autista bolognese- che ci tiene a mostrarsi simpatico più di ogni altra cosa- si prodiga in un percorso alternativo. Era un pilota, e nessuno ha mai perso un aereo per causa sua -dice. Mi toccherei se non fosse per la signora accanto a me. Scendiamo e iniziamo a correre verso l’aeroporto per imbarcare la valigia, la coda è corposa ma di lì a poco chiamano al banco i passeggeri diretti a Lisbona, manca mezzora alla partenza di un volo che poi tarderà il decollo per motivi ignoti.

Usciamo a fatica dalla fila, lanciamo la valigia alla gentile signorina muta, corriamo al gate, beviamo un litro d’acqua a testa per evitare di sprecare il bene più prezioso al mondo, attraverso i controlli di sicurezza a pedi nudi perché i mie consunti Birkenstock non vogliono saperne e perchè i calzari sono tutti mezzi rotti, il tempo di un breve ma significativo crollo emotivo scaturito dalla tensione e di una sosta in bagno e siamo in aereo. Insomma, un incipit stressante per un viaggio che di stressante poi avrà ben poco.

48 non sono pochi

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48 NON SONO POCHI

E’ strano arrivare a un’età che non sembra corrispondere alla tua. Un po’ perchè non riesci a realizzare bene cosa tu possa aver fatto in tutto questo tempo, che sembra poco ma è una marea oceanica. Un po’ perchè si fa fatica ad ammettere di aver superato da un po’ quel valico invisibile ma non troppo ipotetico che sancisce la metà del giro che ci facciamo da queste parti.

48 non sono pochi, non mi provocano lo stesso effetto dei 46 o dei 47, si va un po’ troppo in là. Resto convinto che ognuno si assegni un’età, e c’è chi nasce irrimediabilmente vecchio e chi fatica ad invecchiare, come se ciò non fosse affatto nelle sue corde. Ma come dicevo ai miei amici ieri sera, sembra un po’ come se dal traguardo iniziassero a metterti a fuoco. Non sanno chi sei, in fondo ti ignorano, ma ti intravedono, ti percepiscono, diamine.

Adesso non vuoi più regali, non ti serve più niente, perchè nulla è più importante del fatto che la cornice sia giusta, che quello che hai intorno rimanga il più possibile com’è sempre stato, che lo stato di grazia si conservi.

La tua compagna, i figli, la famiglia, gli amici, i sogni e i progetti, i viaggi fatti e quelli imminenti, quelli che stai soltanto immaginando di fare, i libri da leggere, che sono sempre troppi, e i film da vedere, che sono sempre meno. Ma tutto ciò che dimora nel regno dell’immaginazione è prospettiva, una prolunga indefinita verso il futuro, un ponte onirico che unisce il qui e l’adesso al chissà quando e al chissà dove. L’immaginazione è vita.

La confusione degli auguri che arrivano da canali più disparati. I familiari più anziani di norma ti chiamano o ti scrivono un messaggio. La maggior parte degli amici, dei parenti e dei conoscenti più stretti utilizzano le vie social più “intime”, altri ancora ti scrivono su facebook.

E’ difficile districarsi in questo pandemonio di messaggi sovrapposti e penso che ne perderei la metà se non fossi in ferie, al mare, con Franci, sotto un sole che culla e stordisce, che rilassa fino al punto di debilitare il corpo e la mente. E così mi godo in modo leggero questi messaggi filtrati dalle tinte arancio di uno spritz.

“Avevo una casa vicino al mare. Per andare in spiaggia dovevo passare davanti a un bar. Non ho mai visto il mare” -recita una frase di George Best scritta sopra il bancone di un chiosco. Eh si, il mare senza un bar non avrebbe senso. Sarebbe inconcepibile, come… come un mare senza bar.

Per tradizione, il giorno del mio compleanno riguardo i vecchi messaggi di zio Gino, perchè sono unici e perchè è proprio questo il giorno in cui avverto di più la sua mancanza: in lui non esistevano banalità di sorta, e tutto quanto da lui proveniva, nel bene e nel male, era sorprendente, come le strisce di colore con cui sapeva dipingere la vita. Nel messaggio del 5 maggio 2016 mi scrisse che entro qualche tempo avrebbe preso la corriera e sarebbe passato a trovare me e Francesca. Mi sono subito immaginato la corriera stravagante di Steinbeck, ho visto zia sulla scalcagnata Sweetheart guidata da Juan, fra le stramberie di Bernice, Mildred ed Ernest. L’ho visto a San Isidro, presso la Svolta dei ribelli, col garzoncello Kit Carson, e poi in fuga verso la Magnadorsa, che colloco oltre le divine dorate colline californiane che poi diradano più o meno dolcemente verso il Pacifico.

E quindi il mio compleanno è stato questo: risveglio dolce al mattino, un’oretta dentro la libreria Sapere di Senigallia (la miglior libreria al mondo) senza nessuno appresso, un giro a piedi lungomare, il groppone causato dalla lettura delle parole di ZiaGina, i messaggi da leggere in ordine sparso, mio padre che mi chiama ma poi non risponde, l’aperitivo e il pranzo con Francesca, un ritorno precoce perchè Giamma non sta bene, e poi un giro di bevute con gli amici, sempre loro, sempre belli e irrinunciabili, sempre densi e caldi come quegli abbracci che nessun altro al mondo saprà mai darti.

E poi Gocce d’Occhio Colorate, la nuova opera di Iri a me dedicata per l’occasione, la passeggiata con mio figlio per andarci a tagliare i capelli da quel matto di Teo, il pensiero delle tante cose da organizzare per oggi domani e sempre, e l’assoluta certezza di non aver bisogno di altro, perchè sarebbe difficile e persino stupido desiderare di più. Grazie di cuore a tutti, a chi sostiene parti gravose, a chiunque abbia un ruolo delicato, alle comparse, a chi lavora nel retrobottega. Il film non sarebbe lo stesso senza di voi. Senza nessuno di voi.

Caleidoscopio

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Una notte mi sono svegliato nel groviglio inestricabile di passato, presente e futuro. C’erano ricordi senza fine, privi di un ordine cronologico, ricordi anche di ciò che forse deve ancora accadere. L’unico ordine sensato era quello di apparizione degli attori e delle attrici, dettato dalla memoria appena sfornata alle quattro del mattino. Una tessitura intricata di personaggi senza alcuna posa. Tutte queste ombre piombavano fuori dal liquido nero, saturo e denso delle profondità oceaniche della mia psiche, e prendevano forma in modo graduale, raccontando storie più o meno bizzarre. Attraversavo le paludi acquitrinose che dimorano fra la veglia e il sonno, ma ero lucido abbastanza da poter posare lo sguardo su di me.

Così ho pensato a chi sono, a come lo sono diventato, a come ciascuno diventi chi è. E’ banale ma siamo tutti figli di incontri casuali ma decisivi, siamo la somma di tante storie e coincidenze, l’intreccio delle individualità con cui siamo entrati in contatto, “siamo la somma di tutta la vita vissuta ma anche il terreno materno gravido di tutta la vita futura”.

Ho sempre cercato di pescare in modo mirato nello stagno delle opzioni vacanti. Spesso ci ho preso, a volte mi aspettavo di più, a volte di meno. Ma mi sono sempre arricchito, a prescindere dal fatto che una persona togliesse o aggiungesse qualcosa al mio bagaglio, perché ognuno ti lascia un pezzettino di sé, anche soltanto a livello inconscio. Ogni nuovo punto di vista è una scoperta. Conoscere una persona è come visitare una terra straniera, e ho sempre desiderato esplorare persone e luoghi diversi per arrivare a una sintesi sommaria, a una chiave di lettura universale di tutto ciò che è. Capire e leggere il mondo significa anche stanare se stessi. L’inventio.

Quante immagini frullano scomposte nella nostra testa, quasi fossero i fotogrammi caleidoscopici di unico interminabile film epico?

Per quanti motivi siamo legati a qualcuno? Per una serata indimenticabile, per un’immagine folgorante, per la più bella battuta del secolo, perché c’è sempre stato da quando hai memoria, perché forse volevi essere lui, perché sapeva ridere o divertirsi meglio di chiunque altro, perché aveva fissazioni uniche, perché si è perso e poi ritrovato come e quando ti sei perso e ritrovato te, perché ti ha fatto sentire importante, perché vi siete sentiti affini a fasi alterne ma con picchi altissimi, perché raccontava balle astronomiche e tu lo sapevi ma ti andava bene lo stesso, perché è stato sempre geniale nella sua attitudine alle paranoice, perché aveva problemi simili ai tuoi, perché ti sembrava diverso ma ti ha fatto capire che quello diverso eri te, perché stranamente aveva voglia di starti a sentire, perché ti osservava di nascosto mentre tu l’osservavi, perché sparava fesserie enormi senza ridere mai, perchè sapeva stimolarti, perché richiedeva uno sforzo che comportava un salto di qualità, perché riusciva a farti fare cose impensabili, perché poi ti ha messo a disagio ma quel disagio ti è servito, perché ti ha stancato in fretta, perché di colpo è cambiato, perché era troppo, perché era troppo poco, perché aveva una classe o un talento innati che volevi emulare ma non c’era verso, perchè anche lui lo faceva per i Doors, perché era circondato da belle donne, perché nessuno ti abbracciava in quel modo, perché avete fatto un pezzo di strada insieme, perché non ti andava affatto a genio, perché ti fidavi, perché non lo considerava nessuno eppure te eri sicuro che valesse la pena tentare, perché si destreggiava abilmente nella sublime arte dell’autoironia, perché volevi guarirlo dal cinismo a forza di eccessi, perché rideva dentro, perché gli hai sempre voluto bene, perché eri convinto d’essere uno scopritore di talenti, perché aveva i tuoi stessi gusti cinematografici, perché ti ha fatto crescere in un modo o nell’altro, perché ti ha mostrato che nulla è scontato, perché ti ha sopportato oltre misura, perché era indubbiamente più matto di te e non ti pareva possibile, perché anche lui aveva capito che è inutile sforzarsi di piacere agli altri, perché aveva modi rudi sotto cui eri sicuro si nascondesse qualcosa di buono, perché semplicemente vi siete incontrati al bancone dei sogni, dove il Mentore maramaldeggiava.

A me -lo confesso- è sempre piaciuto sperimentare, creare relazioni fra tipi umani diametralmente opposti, scatenare chimiche imprevedibili, cercare l’amalgama perfetto, combinare personalità apparentemente antitetiche, miscelare uomini, donne, ingredienti, musica, parole e follia negli alambicchi della notte e dell’alba.

La mia ricerca prosegue anche oggi, naturalmente in orari più consoni alle mie possibilità. E a volte può ancora capitare di incontrare qualcuno con cui si sviluppi una chimica immediata e incontrollabile, tale che vien da pensare che sarebbe stato impossibile non incontrarsi prima o poi (“le anime belle si incontrano sempre” – Cit. Zia Gina). Lo senti quando hai davanti una persona simile, con cui costruisci parentesi dialettiche notevoli anche se non sai bene chi sia, con cui l’affinità è innata e ti senti subito a tuo agio. Lo capisci perché con persone simili riesci a far gorgheggiare l’acqua. Quando incontri una persona speciale, l’aria -satura di vapore acqueo- raggiunge il punto di rugiada, e il mondo assume una posa e una grazia diverse, e tutto sembra improvvisamente possibile.

Rivolgo quindi il mio pensiero a tutti gli uomini, le donne, e le altre specie animali con cui sia nata un’affinità, mille anni fa o l’altro ieri, che sia o sia stata duratura od estemporanea, semplice o complessa, profonda o superficiale, fugace o approfondita, sensata o ridicola, razionale o pazzesca, monotona o variegata, antiquata o futuristica, formale o conviviale, limpida o velata, reale o presunta, familiare o amichevole, fisica o cerebrale, colorata o in bianco e nero, teatrale o rintanata, musicale o silenziosa, spontanea o artificiale, relativa al lato oscuro o a quello luminoso della Forza, e a loro, a voi dedico il mio più sentito Grazie e i miei più calorosi auguri di Buon Natale e di Buon Anno, nel senso e nei modi che ognuno di voi più gradisce. Che questo sia per tutti voi un momento sereno e introspettivo, da dedicare solo ed esclusivamente a quanto di più caro avete su questa terra, che sia semplice e vero, che sia carico dei racconti e delle persone che vi stanno più a cuore, che vi sappia stupire e meravigliare, e che soprattutto sia inondato da cascate di buon vino e risate prorompenti, senza cui la vita probabilmente non avrebbe senso. Buona fine e buon inizio.

Istanbul, la città fra i continenti

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Forse non sono più abituato a viaggiare senza la mia famiglia, ma l’impatto con questa megalopoli a cavallo fra l’Asia e l’Europa è stato quanto meno interlocutorio

Batterie di palazzi spesso fatiscenti si susseguono a perdita d’occhio, affastellati uno sull’altro senza criterio. Sembrano orde di giganti in cemento armato, eserciti di abitazioni e botteghe fatiscenti che sfilano senza che la luce possa trovare spiragli in cui infilarsi. Ciò è visibile sia nell’antica Costantinopoli (a sud), che soprattutto nei quartieri di Pera e Galata a nord, oltre il Corno d’oro. Fra l’Istanbul europea e quella asiatica corre il Bosforo, striscia d’acqua che conduce dritta al Mar Nero, dove imbarcazioni enormi navigano senza tregua fra Russia ed Ucraina e il resto d’Europa e del mondo. Di là del Bosforo si scopre – per quanto sembri paradossale – una città totalmente diversa, dalle fattezze occidentali, più verde e curata ma un tantino anonima rispetto alla sorella “europea”. A sud di Istanbul dilaga il Mar di Marmara, specchio d’acqua che corre fino al Mediterraneo attraverso lo stretto imbuto dei Dardanelli.

Scrivo ciò senza nulla togliere al cuore di quella che fu Bisanzio e poi Costantinopoli, dove campeggiano monumenti e musei spettacolari. La fastosa Basilica di Santa Sofia (ora adibita al culto islamico), la misteriosa Cisterna di Yerebatan, meglio nota come Cisterna Basilica, antico deposito d’acqua costruito da Giustiniano nei sotterranei di una basilica di cui oggi non resta traccia, la maestosa Moschea blu, il palazzo reale Topkapi, la reggia da cui i Sultani governarono l’impero ottomano fino al diciannovesimo secolo, luogo denso di storie tanto affascinanti quanto spesso terribili.

L’aria di Istanbul è densa di fumi e odori penetranti, il traffico è incessante e si districa fra vicoli altrettanto interminabili, vicoli che salgono e scendono in modo caotico fra i meandri di questa pantagruelica creatura, che sembra divorare i passanti e poi inghiottirli definitivamente o rigettarli fuori in un dove assolutamente casuale. I tram si rincorrono senza pause, forse è solo un unico enorme vagone a serpeggiare fra il passato e il presente, probabilmente è il treno dei sopravvissuti di Snowpiercer, in cui si dipana tutta la vita residua in moto perpetuo. Un bambino vestito di rosso, scalzo, coi piedi neri e consunti, salta giù dallo spazio angusto che insiste fra un vagone e l’altro, e osserva il mondo con occhi grandi e allampanati; è un bambino perduto, dalla posa spavalda, che un attimo dopo scompare anche lui fra i grovigli di mezzi meccanici e la densa spirale della folla.

Istanbul va capita, e certo non bastano i quattro giorni che abbiamo a disposizione. All’inizio ti incazzi perché non sopporti che certe procedure siano poco oliate o semplicemente diverse da come le avevi pianificate, ma nell’istante in cui comprendi che abbandonarsi al flusso disfunzionale che ne catalizza l’energia è l’unico modo per intercettare la sua disorganizzazione organizzata, allora sei dentro, e non ti stupisci più quando ti accorgi che una maratona di ore interrompe ogni forma di trasporto possibile. Camminiamo senza fine, osserviamo divertiti i gonfiabili che segnano i traguardi parziali della gara afflosciarsi sui concorrenti di passaggio, passiamo e ripassiamo per anni sul ponte di Galata, dove i locali pescano pesce nutrito dagli scarichi delle imbarcazioni che si sfiorano e quasi si sovrappongono e navigano a castello sotto di noi. Forse è l’anno 2046.

A me Istanbul non è parsa una città bella in senso proprio, ma è di certo un luogo carico di fascino e segreti irrisolvibili. La sua bellezza senza tempo è minata dall’abusivismo edilizio, fenomeno drammaticamente visibile dalla corsa senza fine delle costruzioni lungo le rive del Bosforo, dall’inquinamento di terra, aria e mare, dall’assenza pressochè totale di porzioni verdi e naturali di tessuto urbano. Questa sorta di decadenza incarna però entrambi i lati della stessa medaglia, nel senso che, se da una parte trasmette un senso di desolazione, dall’altro incanta e seduce il viaggiatore.

Visitarla somiglia più a una sensazione che a un’esperienza. Io e Francesco non abbiamo trovato tracce di frenesia in quel crocevia cosmico di etnie, storie, religioni, e culture diverse. Tutt’altro. Pare regnare un caos calmo in cui tutti fumano come se non ci fosse un domani e in cui nessuno da in escandescenze se un furgoncino blocca una strada a senso unico perché il suo proprietario è sceso a fare colazione.

La super città intercontinentale turca mi ha lasciato una grande serenità di ritorno, una sensazione di pace scalfita soltanto dall’ordigno esploso sei giorni dopo a pochi passi dalla zona in cui alloggiavamo. Le persone sembrano meno inquinate dalle lordure con cui bombardano noi vecchi europei ogni giorno, da anni.

Tutte quelle immagini che nel nostro mondo implicano e instillano finti desideri e inutili ambizioni, tutti fattori che impostano la vita comune come fosse una corsa ad ostacoli, dove devi rincorrere chissà cosa o chissà chi per arrivare prima e meglio degli altri, dove le cose vanno bene ma vorresti andassero meglio, dove il sistema è talmente drogato da non darti tempo per realizzare che in fondo è tutto a posto e sei felice e potresti goderne stilla a stilla se solo non fossi indotto a pensare che no, non basta, vuoi di più, anche se hai già tutto ciò che potresti umanamente contenere per stare bene. E il ridicolo impegno profuso per costruire quel modello di persona collettivamente conveniente, da cui Jung mise in guardia, poiché “tale costruzione è un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi con la Persona”. La più atroce delle illusioni, che induce l’uomo a sbarazzarsi di se stesso a favore di una personalità artificiale.

Gli orpelli e gli artifici dell’occidente, le sovrastrutture capitalistiche, la produttività agli estremi, la crescita continua e totalmente insostenibile, la fine dell’essere umano. Tutti questi fattori sono ben visibili quando rallenti in un contesto disorientato come un viaggio in Turchia col tuo amico di sempre. Non hai bisogno di dire nulla, puoi dosare pensieri, concetti e parole, sei a tuo agio, sei a casa, ma lontanissimo da essa, e riesci a vedere la tua immagine riflessa in tutta la sua inconsistente mediocrità.

Continuo a sentire Istanbul dentro di me, anche se è una sensazione intermittente. Ma il pensiero vola spesso da quelle parti, nel dedalo di architetture, viuzze e palazzi creati nei secoli da greci romani, turchi, genovesi e veneziani e chissà chi altro. Istanbul mette in crisi la personalità artificiale dietro cui gli occidentali amano nascondersi.

Ricordo una domenica pomeriggio di luce calda, un giro in battello sul Bosforo, un gruppo di amici turchi felici e affiatati. Si scattavano foto in successione, si mettevano in posa come forse si usava in Italia negli anni 50, si abbracciavano fraternamente, mostrando naturale intimità e reciproca familiarità. Mi hanno subito ricordato i miei amici, il nostro volerci bene, la nostra lunga e intricata storia collettiva, il fatto che anche per molti di noi il contatto fisico sia importante e che sia fondamentale sapersi abbracciare, che non è affatto una banalità. Ma fra di loro c’era un fattore ulteriore, che ho tentato di decifrare durante la navigazione: una fratellanza, o qualcosa che definirei “assenza di complicazioni”, un mood più semplice e lineare, forse meno tortuoso, un’empatia incontaminata, priva di malizie e concessioni, da cui mi sono fatto cullare fino all’attracco in porto.

Ieri -a casa- riposavo nella tana che abbiamo creato per i bimbi sotto un letto a castello, un regno di amore e infanzia e luci soffuse, ricavato in un cantuccio onirico. Ascoltavo i miei figli parlare, li sentivo giocare, mentre Franci andava e veniva leggera, senza che ne percepissi i passi. Le loro voci dolci, il tepore dei cuscini, il ricordo della partita di Gim al mattino e di una giornata trascorsa insieme ad amici cari, il pensiero rassicurante della famiglia, i rituali magici del Natale all’orizzonte.

Un momento perfetto, l’istante in cui comprendi che non puoi desiderare di più, perché ogni tassello aggiunto a quel contesto avrebbe la consistenza di elemento superfluo, di rappresentazione effimera, per quanto in fondo a me piaccia l’effimero, ma quello gustoso, privo di tarli corrosivi. E in quell’istante ho pensato a Istanbul e alla sua gente, alla genuinità di quelle persone ancora ai primordi del degrado che ha colpito l’occidente. Ho assaporato la stessa sana e innocente bellezza che dimorava sui volti dei ragazzi turchi in barca, bellezza che auguro loro di saper conservare in futuro, assieme all’iridescente gusto retrò che ne caratterizza la posa.

LA PROVVIDENZA – Io, Francesca, Zelda, Riccardino, i tosco-balcanici, Super Mario e Sergione da Bordeaux

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Cronaca di una giornata folle

In un giorno di ferie possono capitare cose davvero strane. Io e Francesca andiamo da Maria a Pierosara a festeggiare il suo venticinquesimo compleanno a base di tartufo e funghi porcini. Poco prima di arrivare a destinazione, un rumore sinistro sotto la gomma posteriore destra ci impensierisce. Abbiamo bucato! A quel punto però è tardi, abbiamo fame e il pranzo ci aspetta. Quindi decidiamo di prenderla con filosofia e di non drammatizzare. Dopo pranzo, quando la gomma sarà totalmente sgonfia, la rimetteremo in sesto con la schiuma, come fanno tutti. Tornare a Jesi non sarà un problema. E così pranziamo, ce la godiamo, pensiamo a Zelda (la macchina) e non ci pensiamo, e poi usciamo per cercare di capire il da farsi. Agitiamo la bomboletta e spariamo la schiuma nello pneumatico. Ma diamine, non succede niente! Anzi la schiuma esce fuori allegramente da sotto. Spostiamo con cautela la macchina e ci accorgiamo con assoluta sorpresa che dentro la gomma c’è una chiave meccanica, di quelle che si utilizzano per avvitare e svitare dadi e bulloni.

Non sembra possibile, ma è vero. Siamo fregati. La mia assicurazione non risponde, dobbiamo trovare una nonna per prendere i bambini a scuola alle 16. Grazie ad Alessio e Simonetta riusciamo a collocare i figli a calcio e a ginnastica, ma rimaniamo bloccati a Pierosara. L’unica pompa di benzina della zona è chiusa. Si, siamo fregati. Armeggiamo intorno all’auto senza alcun profitto, finchè si ferma un ragazzo con un pick up bianco. Il suo nome è Riccardo, e si offre di aiutarci, nonostante abbia altro da fare, e si impegna per cercare di capire come estrarre la ruota. Servono attrezzi specifici che mi accorgo di non avere. Riccardo è dispiaciuto, non può aiutarci, chiama qualche suo amico in zona per cercare di trovare gli strumenti necessari, ma niente. Poi escono dal ristorante un ragazzo toscano, la sua compagna di chiare origini balcaniche e un bimbo sveglio e simpatico. Sono in vacanza, dormono lì vicino, potrebbero godersi il tempo a disposizione per fare altro ma anche loro decidono di usarne un pochino per noi. Ci chiedono quale sia il problema. Casualmente hanno una Volkswagen come noi, casualmente hanno gli attrezzi che ci servono. Tra una chiacchiera e l’altra togliamo la ruota. Riccardo, che tutti chiamano Riccardino nonostante la stazza perchè ha deciso di avere figli in giovane età, si propone di accompagnarci da un amico che vive fra Monticelli e Colleponi. Potrebbe avere la gomma che ci serve. Dopo circa dieci minuti arriviamo dal suo amico.

Suo padre Mario si precipita fuori. Vuole offrirci il caffè mentre i ragazzi lavorano. Io accetto, e scendo nella taverna di Mario, dove mi offre il caffè e una specie di distillato di sua produzione. Manifesto il mio stupore per la giornata pazzesca, e Mario mi spiega che è la provvidenza ad avermi fatto incontrare certe persone e poi ad avermi condotto a casa sua. La stessa provvidenza che pochi giorni prima ha salvato la sua casa dall’alluvione, dato che l’acqua si è fermata a poche spanne dall’ingresso della sua taverna interrata. Mario si commuove e mi fa commuovere, e così mi viene spontaneo abbracciarlo. Usciamo fuori come vecchi amici, la gomma sostitutiva è a posto, possiamo tornare a Pierosara. Salutiamo e ringraziamo, ma Mario non è contento e ci regala persino una bottiglia di vino di visciola prima di congedarsi. A quel punto siamo più leggeri, inoltre l’intruglio di Mario mi ha regalato brio e spensieratezza. Io, Francesca e Riccardo chiacchieriamo lungo la strada di ritorno, sembra impossibile che quella chiave meccanica infilzata da chissà quale assurdo rimbalzo abbia condotto a una serie di circostanze inconcepibili, tanto strambe quanto perfette nella loro successione. Riccardo rimonta la ruota in due secondi, io ne approfitto per omaggiarlo di un buono pasto da Maria, cosa che quasi sembra offenderlo, per quanto sia nulla al cospetto della generosità e dell’empatia d’altri tempi che ci ha offerto lui in questo strano venerdì novembrino. Il nostro nuovo amico scappa via, il barbiere lo aspetta. Torniamo, Zelda regge bene, ripercorriamo i passaggi di quella giornata straordinaria, che rimarrà impressa nella nostra memoria come il più strano dei compleanni di Franci. Passiamo a riprendere Irene, lascio le ragazze a casa e corro al Boario, dove Gian Marco si sta allenando. Incontro gli amici e Sergione da Bordeaux, che ascolta divertito il mio racconto, carico di magia e umanità impareggiabili. Apre il chiosco, è di certo la Provvidenza, e a lei brindiamo, prima di scomparire nella notte, oltre la discarica degli eventi impossibili.

Steinbeck – Sweet thursday

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“It’s a cosmic joke. Preoccupation with survival has set the stage for extinction”.

“Quel fantastico giovedì” è uno dei romanzi “leggeri” di John Steinbeck. Si aggiunge a “Pian della Tortilla” e “Vicolo Cannery”, di cui è una sorta di seguito ideale. Vicolo Cannery è un luogo non luogo in cui la vita dei protagonisti sembra procedere secondo modalità particolari. E’ una nicchia del tempo, tanto che è facile concludere che i vari Doc, Mack, Flora detta Fauna, Suzy, il vecchio Jingleballicks e il Patron Josè Maria Rivas siano ancora lì a discutere del più e del meno seguendo la ritmica e toni scanzonati e surreali dettati da Steinbeck negli anni 50 del secolo scorso.

I protagonisti di Cannery Row sono per lo più perdigiorno indaffarati a seguire i propri istinti, a procurarsi il denaro utile a comprarsi da bere, a vivere alla giornata, senza l’ansia del domani. “Quel fantastico giovedì” è un romanzo fluido e semplice da leggere, ma lo scrittore americano stavolta concede una sorta di riscatto ai suoi paisanos, riscrivendoli da una prospettiva diversa, che concede loro lo sguardo più profondo e luminoso del lettore.

Eccone un passo:

“L’uomo ha risolto i suoi problemi” – continuò Old Jay. “I predatori li ha scacciati dalla terra…il caldo e il freddo li ha stornati; le malattie infettive le ha praticamente eliminate. I vecchi continuano a vivere, i giovani non muoiono. Le migliori guerre non riescono neppure a soddisfare la quota di mortalità. C’era un’epoca in cui un esercito, in un anno, tagliava in due un popolo. La fame, il tifo, la peste, la tubercolosi erano armi sicure. Lo sgraffio della punta di una lancia significava infezione e morte. Lo sapete qual è la percentuale delle morti per ferite sul campo, oggi? L’uno per cento. Cent’anni fa era l’80%. La popolazione aumenta e diminuisce la produttività della terra. In un futuro prevedibile saremo soffocati dalla massa degli uomini. Solo il controllo delle nascite potrebbe salvarci, però è una cosa che l’umanità non metterà mai in pratica. “Fratello!” disse il Patròn. “Ma come mai tutto ciò la rende tanto allegro?” “E’ uno scherzo cosmico. La preoccupazione per la sopravvivenza ha preparato la scena per l’estinzione” – rispose Old Jay.

E’ quantomeno curioso come le parole di Steinbeck siano attuali 70 anni dopo e forniscano ancora oggi spunto per innumerevoli riflessioni. I predatori, il clima, le guerre, le malattie infettive vengono trattati cinicamente, quali necessari strumenti di controllo demografico. Il modo in cui l’uomo ha costruito e vissuto il progresso -per puro istinto di conservazione prima e di espansionismo poi- potrebbe aver contribuito a superare la soglia oltre cui campeggia a caratteri cubitali la sua stessa fine.

In poche righe sfilano i temi di maggiore attualità del nostro assurdo presente, e il futuro in cui l’uomo soffocherà se stesso è definito prevedibile. In effetti nel 2022 la sovrappopolazione mondiale ha raggiunto numeri impensabili, il clima è in una fase di stravolgimento tale da far intuire che solo le specie dotate della più innata versatilità e adattabilità riusciranno a sopravvivere, il virus di origine tuttora dubbia imperversa a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta, e la guerra c’è stata sempre, ma in molti se ne sono accorti soltanto dopo che le sue spire hanno sfiorato i sacrosanti confini europei.

Dall’elenco di Steinbeck rimarrebbe fuori soltanto il predatore, e si potrebbe ricorrere al Covid quale “naturale” vendicatore invisibile, ma non ce n’è bisogno: l’uomo è stato abilissimo ad epurare o confinare i suoi predatori storici, ed ora non deve temere che se stesso, il più avido, stupido e pericoloso fra gli esseri viventi sulla faccia della terra.

Tutto ciò conserva una certa ironia, e il dialogo dei ragazzi di Cannery row termina nell’unico modo possibile, con una battuta e una bottiglia di whiskey da rimediare in fretta.

“Quando si mangia?” chiese Old Jingleballicks. “Il io pranzo te lo sei mangiato tu” rispose Doc. “ho una buona idea” disse Old Jay. “Mentre tu pensi a far da mangiare, William and Mary può andare a prendere un’altra bottiglia di whiskey, e io preparo gli scacchi.” “Si chiama Josè Maria, non William and Mary.” “Chi è? Ah! Amico mio, le insegnerò il più grande dei giochi, la creazione eterea dell’intelligenza umana!”

Infinitamente Zia Gina

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​​​​​Utilizzo questo spazio alla deriva ma intimo per ricordare mio zio. E’ un luogo ispirato a lui e ai suoi microcosmi ludici, alla sua voglia di giocare e curiosare, di non essere mai contento in fondo. Zio Gino era un genio, un pazzo furioso, un artista totale, un uomo meraviglioso. Era un visionario, un sognatore indomito, un santo bevitore, un compagno di giochi, un saltimbanco, un oste d’altri tempi, un impudente latin lover, un immenso amico, un gran baciatore in bocca, un cantastorie, un principe del convivio, un intrattenitore totale.

Era un personaggio leggendario, infinito, un uomo difficile, burbero e scontroso ma anche gentile e delicato, un poeta raffinato e sensibile, un uomo libero, libero di essere quel che voleva essere, anche solo per dispetto, anche solo per irridere con una giravolta i pregiudizi dell’uomo comune. Come ho appena scritto a mio cugino Tommaso, suo figlio, lui non ha mai fatto finta di essere quello che non è, un atto eroico in questo mondo di finzione.

Mi ricordo una delle sue prime mostre, forse 30 anni fa, lungo le mura di Morro d’Alba. Una specie d’uomo nero usciva dalla tela a sfondo giallo. Ero poco più di un bambino ma le sue opere mi impressionarono e mi entrarono dentro senza più uscire. Forse è proprio l’uomo nero ad essermi entrato dentro, quel demone dell’arte che per anni mi ha fatto credere di poter tradurre in lettere quel che lui dipingeva. Non era questo. Era di più. Io sentivo le sue opere come fossero parte di me, erano anche i miei sogni e i miei incubi quelli che lui mi mostrava. Zio Gino è entrato in luoghi inaccessibili ai più, ha aperto una porta che introduce al suo mondo immaginario, che però è l’immaginario di tanti, che però poi è anche parte del percepito, è parte e retrobottega di tutto quanto resista a cavallo fra la realtà e i sogni.

“Noi due siamo identici Simo!” mi diceva alla fine di certe serate abbracciandomi e baciandomi in bocca. Aveva una sensibilità inaudita e in me aveva forse percepito frammenti delle sue stesse debolezze, delle sue stesse paure. Mi ha aiutato in momenti difficili. Ha fatto sentire a casa me e la mia ragazza, i miei amici e chiunque portassi lassù. Qualcuno forse lo ha pure cacciato.

Una mia grande amica mi ha scritto ieri sera: “Me lo ricorderò sempre un abbraccio tra Voi due al Tamburo Battente, alla fine di una spensierata cena fra Amici. C’ero anch’io per fortuna. Come una fotografia”.

Ho passato la vita ad andare a trovare zio Gino ovunque si spostasse da un versante all’altro della campagna marchigiana, a cercare di capire e interpretare con calma i suoi quadri, che lui mi illustrava con vino e pazienza, con quel suo sguardo sornione e profondo. Era fissato con la luna le mani i sassofonisti i trombettisti gli oboisti i ciclisti i motociclisti e i piloti morti di morte violenta.

Zia Gina

E’ stato un punto di riferimento essenziale per me, le sue osterie erano luoghi di fuga, dimore prive di tempo, castelli diroccati dell’esistenza, luoghi di culto e piacere e parole confuse e sovrapposte fino a notte fonda. Lui sapeva riempire di sé quegli spazi, sapeva ricreare e rigenerare se stesso in ogni sua nuova collocazione, e quegli spazi erano vivi e pieni di Zio Gino.

Mio zio Gino era una poesia beat, e per quanto si definisse pigro, è stato sempre mosso da una profonda inquietudine creativa priva di punteggiatura, da una voglia di manipolare gli elementi e i colori e di piegarli ai propri scopi, di rappresentare le fantasie del bambino curioso che conservava dentro di sé.

Ha lasciato tracce di sé ovunque, tracce importanti, mai banali. Tracce indelebili di una vita vissuta senza risparmiarsi, senza esitare, senza mezze misure, senza cautela o prudenza alcune.

Sei stato il mio eroe, mi volevi bene senza tentennamenti e io ti chiamavo Zia perché ti piaceva troppo giocare a interpretare il ruolo della vecchia zia. Mi mancherai in un modo che non riesco a dire e cerco di immaginarti in questa canzone di Lou Reed, intento a tratteggiare nel tuo universo creativo questa ragazza dagli occhi blu, a liberare l’estro e sublimarne ogni sfumatura fino a trasferirla sull’ennesima, magnifica tela.

https://www.youtube.com/watch?v=KisHhIRihMY

Non ho la consolazione di chi ipotizza mondi paralleli, ma non riesco a non immaginarti a bordo di una Austin Healy cabrio verde scoperta anche quando fuori piove cogli occhiali scuri e i capelli al vento e tele appoggiate dietro alla rinfusa come le idee a sgommare via verso i mille tornanti delle campagne e della memoria “a sud di nessun nord per parlare con la luna”. Con quella risata eccezionale e piena e altisonante a riecheggiare in lontananza.

Un giorno riderò come te, lo so.

Ti amo Zia. Ti amerò sempre per sempre col cuore che picchia in petto come un tamburo battente

Blade runner 2049 – La vita è sogno

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“L’umanità non può sopravvivere. I replicanti sono il futuro della specie. Ma non posso crearne di più”.

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L’agente speciale K (il rimando a Josef K, il protagonista de “Il processo” di Kafka è fin troppo evidente) è il cacciatore incaricato di ritirare vecchi modelli dissidenti. Modello Nexus 9, K è un replicante di ultima generazione dotato di maggior disciplina e obbedienza rispetto ai precedenti.

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Lo sguardo profondo ed esteso sul futuro di Villeneuve regala un universo ipnotico, claustrofobico, senza via d’uscita. I tempi flemmatici del montaggio si traducono in scene lunghissime e penetranti, incessantemente avide di dettagli. L’aspetto ambientale pesa nella realizzazione dei set (costruiti interamente a mano, senza alcun supporto digitale): a causa del collasso irreversibile dell’ecosistema, il pianeta è inospitale, il clima freddo, la vegetazione pressoché scomparsa sotto piogge acide battenti, mentre gli oceani sono arginati da enormi dighe che segnano i confini delle città.

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Questo 2049 è anche il prodotto di un black out di proporzioni immani, che ha segnato la fine dell’era digitale e il ritorno all’analogico: il passato non è più tracciabile, ogni dato è andato perduto e il protagonista si muove e indaga come un detective rétro in cerca di indizi tangibili, così come avviene all’inizio del film: in una fattoria immersa nelle dilaganti distese di colture sintetiche, l’agente K rinviene un replicante in incognito e un segreto che potrebbe rivoluzionare il rapporto fra esseri umani e lavori in pelle.

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La Los Angeles distopica di Villeneuve è più cupa di quella di Scott: una metropoli in procinto di collassare su se stessa come una delle città invisibili di Calvino, un agglomerato urbano tentacolare e soffocante, infinito e privo di logica, in cui moltitudini di individui solitari si mescolano nel caos. Esseri umani e artificiali perdono i loro tratti distintivi. Quella in cui si muove l’agente K è una città senza speranza.

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Neander Wallace è il folle dio della robotica che ha rilevato la Tyrell Corporation e concepito l’ultima generazione di replicanti. Wallace è ossessionato dall’utopia di perfezionare le sue creature fino a raggiungere l’inconcepibile. Il suo è un potere ultraterreno, la sua forza ineluttabile, il suo sguardo onnivoro controlla ogni cosa anche attraverso Luv, il suo factotum sintetico. La coppia si muove in un mondo a se stante, un dedalo percorso da superfici levigate e geometriche, una sequenza ammaliante di ambienti fluidi e ambrati, pervasi da un chiaroscuro intermittente che produce giochi di luce ed ombra sulle silhouette di Luv e Neander: i due emergono oniricamente da quelle scenografie con cui poi tornano a fondersi e confondersi.

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L’azione di Blade runner 2049, rispetto al film del 1982, non rimane “intrappolata” nella fitta e intricata rete di L.A., ma si sposta negli spazi aperti e desolati della California: attraverso i tragitti aerei di K osserviamo la successione infinita di serre destinate alla coltivazione; le mastodontiche discariche digitali di San Diego, dimora di reietti e orde di bimbi ridotti in schiavitù; le rovine di una Los Angeles post-apocalittica, in cui la fotografia di Roger Deakins raggiunge il suo apice espressivo: fra statue spettrali e monumenti titanici al collasso, le tonalità giallo-oro dell’ocra delineano atmosfere rarefatte e sulfuree.

Il sogno di K prosegue in Filmosteria

Il libero pensiero di Steinbeck contro Moloch

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Si accende a volte, nell’uomo, una sorte di eccitazione.

Succede a quasi tutti. La senti crescere e prepararsi come una miccia che brucia avvicinandosi alla dinamite.

Allora quell’uomo trabocca nel mondo esterno, come un torrente in piena, inesauribile. 

La madre di ogni creatività, che rende ciascun uomo speciale rispetto a tutti gli altri.

Non so cosa accadrà nei prossimi anni. Nel mondo si susseguono cambiamenti mostruosi, forze che modellano un futuro di cui non conosciamo il volto. Quando tutti i nostri alimenti, abiti e alloggi saranno fabbricati in serie, la massificazione finirà inevitabilmente per entrare nelle nostre menti ed eliminare ogni altra forma di pensiero. 

 Il mondo è percorso da tensioni estreme, prossime al punto di rottura, e gli uomini sono infelici e confusi. In un’epoca simile mi sembra cosa giusta e naturale pormi queste domande: in che cosa credo? Per cosa devo combattere? Contro cosa devo lottare?

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La nostra è l’unica specie dotata di creatività, e tale creatività ha un solo strumento: la mente e lo spirito individuale. Niente è mai stato creato da due uomini insieme. 

L’essenza più preziosa è la solitudine della mente di un uomo. 

E adesso le forze irreggimentate attorno al concetto di gruppo hanno dichiarato una guerra di sterminio contro quell’essenza preziosa che è la mente dell’uomo. Denigrata, ridotta alla fame, repressa, costretta in una direzione forzata, sottoposta ai colpi di maglio del condizionamento, la mente libera ed errabonda viene perseguitata, imbrigliata, menomata, drogata. E’ un triste percorso suicida, quello che la nostra specie sembra aver imboccato.

E questo credo: che la mente del singolo individuo, libera di esplorare ovunque, è la cosa più preziosa del mondo. 

E per questo sono pronto a battermi: per la libertà dell’intelletto di imboccare qualsiasi direzione desideri, senza dettami. E contro questo devo battermi: qualsiasi idea, religione, o governo che limiti o distrugga l’individuo. Questo è ciò che sono e ciò che voglio. 

Capisco bene perché uno schema costruito su uno schema ripetitivo tenti di annientare il libero pensiero: perché la mente indagatrice è la sola capace di distruggerlo. 

Il brano completo -tratto da “La valle dell’Eden”- tambureggia in Singolar Tenzone

PASTORALE AMERICANA?

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L’OSTE DELUSO

“La figlia lo sbalza fuori dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”.

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E’ un esercizio per registi navigati tradurre in immagini il messaggio di un romanzo complesso come quello di Philip Roth, e la trasposizione cinematografica di Ewan Mcgregor è una delusione quasi annunciata.  Se poi la regia si rivela piatta e compassata e i momenti salienti della storia vengono stravolti od omessi, c’è da chiedersi il motivo di una tale ambizione all’esordio.

La discesa all’inferno di Levov lo svedese viene affrontata senza coraggio o mordente, e non c’è nulla della grande illusione narrata da Roth, di quel senso di inadeguatezza che l’uomo affronta quotidianamente a livello sociale e comunicativo: lo sforzo che ognuno produce per fare in modo che le cose vadano per il verso giusto, per mantenere un livello adeguato alle proprie aspirazioni, al fine d’essere un eroe senza macchia, un esempio positivo e una guida sicura, la consapevolezza dell’errore come fondamento della vita stessa, il disperato e spesso vano tentativo di educare e proteggere i propri figli, sono tutti elementi che latitano nel film.

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McGregor azzera il livello di pathos del romanzo e dipinge personaggi in modo troppo canonico, senza considerarne la portata: i protagonisti del capolavoro di Roth sono modelli  che rappresentano il crollo di uno stile di vita, il tramonto di una società costruita sulle basi approssimative di un abbaglio colossale, di un gigante che collasserà sotto il suo stesso peso. La provincia americana e i tipi umani che la popolano vengono dipinti in modo convenzionale e senza la necessaria spinta emotiva, e il prodotto finale è un’opera banale e noiosa, che nemmeno prova ad aspirare al livello consono a un tale lavoro.

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Alcuni eventi fondamentali vengono tralasciati o ribaltati, le citazioni essenziali vengono ignorate, e così persino il senso del titolo rimane ignoto, poichè McGregor non si sporca le mani e non si addentra “nel terreno neutrale e sconsacrato della festa del Ringraziamento” in cui “un tacchino colossale” -che sazia duecentocinquanta milioni di persone- rappresenta simbolicamente “una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose, una moratoria sulla nostalgia trimillenaria degli ebrei, una moratoria su Cristo e la croce e la crocifissione per i cristiani … una moratoria su ogni doglianza e su ogni risentimento … per tutti coloro che, in America, diffidano uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza e dura ventiquattr’ore“; e non c’è traccia del bacio fra padre e figlia, che sarà poi uno dei motivi del profondo tormento del genitore, tanto che sarebbe stato preferibile tagliare per intero la scena anzichè fornirne una versione contraffatta.

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Ma è il finale a demolire definitivamente il filo conduttore fra romanzo e libro: mentre nel primo non c’è spazio alcuno per la speranza o modo di recuperare, per i soggetti coinvolti e per una società intera, con l’aggiunta di un gesto violento ed estremo a sancirne l’irrevocabile autodistruzione, nel film troviamo una scena completamente inventata, inaccettabile perchè rovescia il senso stesso della storia fino a ribaltarne il significato, creando una speranza, aprendo uno spiraglio alla tragedia che invece dilaga, tentando di commuovere lo spettatore invece di prendere atto del dramma in essere ed accettarlo in quanto tale, un tentativo goffo che sancisce un fatto molto semplice: Mcgregor non ha afferrato il messaggio del capolavoro di Roth, non ne ha tradotto il senso o ha preferito non farlo; ha semplicemente raccontato un’altra storia, peraltro affatto interessante, che si poteva risparmiare.

Si tu vois ma mère / Midnight in Paris – E il tempo perde consistenza

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Cronache e Storie d’Osteria

 

RadiOsteria consiglia “Si tu vois ma mère”, pezzo composto dal jazzista americano Sidney Bechet negli anni trascorsi in Francia.

Sidney Bechet (1897-1959)

Sidney Bechet (1897-1959)

Bechet, nato nel 1897 a New Orleans, rivelò fin dall’infanzia un talento naturale per la musica; maestro nell’improvvisazione, non imparò mai a leggere la musica per sua scelta. Esordì come clarinettista e vi si dedicò fino al 1919, anno in cui notò un sax soprano in una vetrina londinese. Divenne un eccelso sassofonista e suonò coi più grandi musicisti dell’epoca in ogni angolo del mondo. Nel 1949 si trasferì in Francia, dove morì dieci anni dopo.

Nel 2011, Woody Allen -regista ma anche compositore e grande conoscitore di musica jazz- ha inserito “Si tu vois ma mère” nella colonna sonora di “Midnight in Paris”, film in cui si rimescolano sogni, costumi e personaggi di  epoche diverse in quell’affresco dei sensi che Parigi raffigura. Il presente e gli anni 20 calzano entrambi a pennello a una città che sa ammaliare e confondere persino sua maestà il tempo. 

Marion Cotillard ed Owen wilson in una scena di "Midnight in Paris".

Marion Cotillard ed Owen Wilson in una scena di “Midnight in Paris”.

Il brano di Sidney Bechet apre il film di Woody Allen, accompagnando con garbo trasognato il carosello di immagini che introduce “Midnight in Paris”. E quel senso di inadeguatezza al proprio tempo, tipico peraltro dei frequentatori d’Osteria, vola via leggero e perde consistenza, tra un bicchiere e l’altro.

Buona visione, e buon ascolto.

The Visit – The grandpa diaper Project

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L’oste Allibito

 

Due fratelli più o meno adolescenti -la maggiore Rebecca e il piccolo insopportabile Tyler- decidono di andare nella campagna della Pennsylvania  a conoscere i nonni materni. 

The visit

Non sanno nulla di loro, non li hanno mai visti in foto o sentiti al telefono, e la madre non ha raccontato nulla dei genitori eccezion fatta per il modo brusco e misterioso in cui –tanti anni prima- è scappata di casa per andare a vivere con un uomo molto più grande di lei. I nonni insistono per vedere i nipoti, probabilmente grazie a una sorta di comunicazione telepatica, e i nipoti acconsentono. Nel frattempo la mamma dei ragazzini ne approfitta per andare a spassarsela in una crociera, fra un festival del petto villoso e balli di gruppo con obesi mangiatutto.

The visit

Le premesse sono ottime e credibili. La messinscena non è da meno. Il film viene raccontato dai fratellini Jamison grazie al supporto di due godibilissime camere a mano, che produrranno infine una nausea diffusa in luogo del panico cui si mirava. Pronti via, i fratellini arrivano a destinazione, e mentre la nonna cammina e vomita e sbraita nuda per casa ogni notte, il nonno fa collezione di pannoloni usati. La nonna ride a squarciagola contro un muro mentre il nonno si maschera ogni cinque minuti per andare a una festa che non c’è. La nonna prepara torte a ripetizione e insiste che la nipote entri per intero nel forno, mentre il nonno medita con la canna del fucile in bocca. La cantina nasconde chissà quale segreto, il pozzo misterioso contiene acqua, fango e cattivi ricordi, la nonna corre a quattro zampe coi capelli sul volto, qualcuno si impicca o viene impiccato, e il montaggio propone una sequela di primi piani improvvisi, tanto innovativi quanto terrificanti.  Una collezione di clichè dell’horror di ultima generazione si susseguono senza soluzione di continuità.

The visit

Dopo giorni di follie di varia natura, i fratelli iniziano ad avere il vaghissimo e illuminato sospetto che forse i nonni siano un tantino fuori di testa:  “ma dai forse sono soltanto vecchi, e si e no, noi continuiamo a fare il nostro film e a rappare allegramente, ma che importa se la nonna è tutta nuda con un coltello di venti centimetri dietro la porta della nostra cameretta, ma si dai in qualche modo faremo, tutto si risolve, intanto intervistiamoli così il nostro film sarà un capolavoro di neo-neo-neorealismo” . Finchè ogni evento diviene a tal punto incredibile che in sala si inizia a sorridere e a pensare che prima o poi il punto di vista dello spettatore verrà ribaltato dal migliore dei colpi di scena, e invece no, si procede su questa falsariga tragicomica fino alla fine del più banale e insensato dei film. Dopo alcune discussioni d’Osteria, si è concluso che il regista M. Night Shyamalan sia indubbiamente affetto da una demenza precoce di un certo livello e che vada fermato prima di produrre danni ulteriori alla propria dignità e all’amor proprio del pubblico pagante.

 

Man on the moon – Milos Forman

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Il Consiglio dell’Oste

 

Il film “Man on the moon” (1999) di Milos Forman racconta la storia dello showman Andy Kaufman (1949-1984) in modo calzante e poetico.

Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in "Man on the moon"

Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in “Man on the moon”

L’enigma della vita di Kaufman diventa enigma nella regia di Forman, che tiene il film sospeso fra riproduzione della realtà e rappresentazione fittizia come il migliore dei prestigiatori, come Kaufman stesso avrebbe forse desiderato:  il gioco di specchi realizzato dal genio di Forman restituisce immagini inafferrabili di Kaufman e dei personaggi che lo affiancarono, tanto che persino la sua morte diventa un fatto opinabile. Un film da non perdere, un personaggio indimenticabile.

"Man on the moon" è un film del 1999 di Milos Forman

“Man on the moon” è un film del 1999 di Milos Forman

La Storia di Andy Kaufman Impazza Oltre “Il Precipizio”, Strapiombo d’Osteria.

 

Man on the moon – R.E.M.

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SoundTrack

 

Michael Stipe - Cantautore statunitense

Michael Stipe

Michael Stipe dedicò “Man on the moon” a Kaufman nel 1992, combinando la stima che nutriva verso un artista rivoluzionario e l’annosa polemica sulla teoria del complotto lunare (“Great moon hoax”);  Stipe aveva visto in Kaufman un uomo capace di svelare senza paura i trucchi e gli assi nella manica dei “maghi” che dominano i media e l’informazione, e scrisse per lui un brano memorabile, degno di un uomo che ha lasciato il suo segno particolare sulla tabula rasa che scaturisce dall’omologazione.

Consegno quindi alle note di “Man on the moon” il ricordo di un personaggio eccezionale, che ha lasciato precocemente il palco della vita. Ma la sua impronta rimane, e il messaggio che ha lasciato è forte e chiaro, anche a distanza di anni.

 

Capricorno one (1978) è un film di Peter Hyams

Capricorno one (1978) è un film di Peter Hyams

Now, Andy did you hear about this one

Tell me, are you locked in the punch?

Andy are you goofing on Elvis? Hey, baby

Are we losing touch

If you believed they put a man on the moon, man on the moon

If you believe there’s nothing up his sleeve, then nothing is cool

Leggi La Storia di Andy Kaufman

Andy Kaufman – Man on the moon

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Cronache e Storie d’Osteria

All’inizio degli anni 70 uno stravagante showman di nome Andy Kaufman (1949-1984) riscosse un notevole successo negli Stati Uniti, prima come improvvisatore in brevi apparizioni live e poi come mattatore in televisione.

Andy Kaufman

Andy Kaufman

Andy non era un comico in senso proprio -anzi  forse non lo era affatto-  ma un artista sui generis e un personaggio indecifrabile, che rivoluzionò il modo di fare spettacolo dell’epoca.

Kaufman spiazzava il pubblico con interpretazioni assurde e prive di senso: agli esordi si presentò sui palcoscenici di piccoli club come uno straniero timido e impacciato proveniente da Caspiar – un’isola affondata nel Mar Caspio-  imitando vari personaggi noti con la stessa irritante impostazione vocale, per poi esplodere in imitazioni folgoranti e imprevedibili, come quella di Elvis Presley.

Kaufman,  una volta scoperto e lanciato in tv dal noto talent scout George Shapiro,  si dimostrò talentuoso ma ingestibile:  ebbe il merito di collezionare una serie di performance innovative, ma creò il panico fra autori e produttori.

Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton

Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton

Io lo definirei un provocatore nel senso artistico del termine, un prestigiatore in grado di alterare e spiazzare l’occhio di spettatori abituati a una tv convenzionale.  Andy Kaufman mirava in effetti  a smascherare certi subdoli meccanismi televisivi, finalizzati a mostrare una realtà distorta, intrisa di retorica e falsi buonismi. In un contesto mediatico diretto a compiacere moltitudini di spettatori anestetizzati e a costruire un consenso condiviso in assenza di contraddittorio, Kaufman è la mina vagante che svela l’ipnosi, la variabile impazzita capace di scuotere i dormienti dal torpore.

Scopri le perle di Kaufman

Lettera a Monica Vitti

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Ciao Monica,

ti scrivo per dirti che non mi interessa la tua età, non mi interessa che fai, con chi sei o dove vivi, anche se spero che te la passi bene, e che ti godi la vita come meglio puoi. No, qui non c’entra il tempo, il tempo non conta, conti solamente tu, conta quello che rappresenti per me e per una miriade di persone che forse nemmeno ti immagini.

Monica Vitti - 1968Eri la mia preferita a cinque anni, perchè mi facevi ridere, e lo sei anche adesso che ne ho quaranta, perchè ho potuto capire meglio con chi avevo a che fare. Si, perchè la sensazione è di aver condiviso qualcosa di importante, per quanto hai dato di te al mondo. Sei un’artista straordinaria e una donna vera, che può cavarsela benissimo tra straccioni e poveracci in una bettola di quart’ordine o a un gran galà con la meglio gente. Ti vorrei dire che mi manchi, in senso romantico, ma non posso perchè sei dappertutto, perchè hai prestato il corpo, il viso, la voce e la tua più intima essenza ai sogni di chi, come me, è cresciuto coi tuoi film. Il fatto è questo: sei la più grande di sempre, la mia preferita, e ci tenevo a ringraziarti per la generosità, la classe, la genuinità, la maestria dimostrate negli anni. Rendi onore al cinema e alla vita, alle donne ma anche agli uomini, al punto che il tempo diventa inutile, e non può farci niente, tanto che con te si arrende: e così -come fosse uno di noi- si ferma e ti osserva ridere piangere danzare cantare incarnare tutte le forme e le espressioni umane fino a perdere la cognizione di sè.

Ti abbraccio

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Antonio Sampaolesi – Mio nonno, il mio idolo.

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Storie e Personaggi d’Osteria

“Siamo ogni persona, ogni cosa la cui esistenza ci abbia influenzato o che la nostra esistenza abbia influenzato, siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti” (Almanya).

Antonio Sampaolesi

Antonio Sampaolesi (1909-1990)

Mio nonno Antonio era un personaggio interessante. Perito tecnico e agrario, il Commendator Sampaolesi è stato socio fondatore della Federazione Italiana Coltivatori Diretti e, dopo la guerra, Presidente Nazionale degli agenti di consorzio agrario. Mente ardita e inquieta, fondò la I.M.A. Sampaolesi, industria di macchine agricole all’avanguardia -tuttora operante sotto la direzione di una nuova proprietà. Fu anche sindaco di Ostra Vetere, il comune in cui risiedeva. Io l’ho conosciuto nelle vesti di nonno attento e affettuoso, per quanto fosse sempre indaffarato a leggere e scrivere chissà che cosa, e non ho saputo chi fosse realmente se non dopo la sua morte, avvenuta quando avevo 15 anni. Ho trascorso buona parte della mia infanzia con lui. Uno dei miei primi ricordi in assoluto lo riguarda: nel breve periodo che ho passato all’asilo, lui stava in piedi, immobile, in fondo al giardino che delimitava il Negromanti. Mi osservava senza lasciarmi, e io osservavo lui. I miei coetanei mi interessavano relativamente, e a sprazzi: non potevano reggere il confronto con nonno Antonino. E così combinai ogni tipo di mascalzonata per far capire che non ero tagliato per l’asilo. E riuscii nell’intento di trascorrere tante mattine con nonno, tra una passeggiata e una commissione. Un periodo impresso in modo indelebile nella parte di me in cui riposa la dimensione infantile. Nonno emanava carisma e otteneva il mio rispetto senza bisogno di manifestare alcuna autorità; i suoi baffi odoravano di tabacco, storpiava i nomi delle cose per farmi ridere e mi voleva un bene che sento addosso tuttora, un bene che è arrivato fin qui, un bene ciclico, che saprò rendere a chi di dovere: d’altra parte, per chi -come me, agnostico praticante- crede in una sorta di coscienza unificata, nulla è più importante del fatto che l’acqua di chi lascia continui a scorrere nell’alveo di chi resta. Nonno Antonino è semplicemente evaporato, e parte dell’acqua che si portava appresso l’ha lasciata a me.

Ciao nonno, ti voglio bene e ti penso ogni giorno, da allora.

Chiedi chi erano gli Okies

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Okies a San DiegoNegli anni 30 –sul solco tracciato dalla Grande Depressione americana del 1929- gli Stati Uniti sud-orientali furono teatro di una migrazione interna senza pari. Una migrazione imposta dall’azione combinata di banchieri privi di scrupoli e di grandi latifondisti, che sradicarono gradualmente i coloni dai propri territori con inganno, furbizia, violenza e false promesse.

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Le tempeste di sabbia che negli stessi anni imperversarono in quei territori (causate peraltro da decenni di agricoltura dissennata) rappresentarono  il colpo di grazia per una popolazione già ridotta alla fame. L’esodo verso la California, che rappresentava il miraggio dorato in cui riporre ogni speranza, raggiunse così proporzioni immani.

Madre migranteLa fotografa statunitense Dorothea Lange (1895-1965), seguì e documentò l’epopea di alcuni fra i tanti disperati che presero la via della west coast.

Dorothea Lange - Migranti“Ed ecco che” -scrisse John Steinbeck- “d’un tratto, nel Kansas e nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell’Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi ed apparire le carovane dei nomadi: ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro”.

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Tali migranti vennero denominati “Okies” per via della provenienza dall’Oklahoma della maggior parte di essi. Ma il termine assunse ben presto il significato di “buzzurro” o “cafone” per via della miseria e del degrado in cui i migranti vissero, al loro arrivo nella terra promessa: in effetti erano stipati a centinaia in tendopoli fatiscenti e prive di qualsiasi servizio igienico. Una storia che ne ricorda tante altre, in ogni tempo.

CRONACHE E STORIE D’OSTERIA

Black beauty – Duke Ellington celebra Florence Mills

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Soundtrack / Cronache e Storie d’Osteria

Nel 1928 Duke Ellington (1899-1974), uno dei maggiori compositori jazz della storia, dedicò “Black beauty” a Florence Mills, artista scomparsa un anno prima a soli 32 anni.

Duke Ellington nel 1930

Duke Ellington nel 1930

Immagino senza fatica il suono cupo di questo magnifico pezzo blues uscire dagli apparecchi radiofonici dell’epoca, immagino Ellington e la sua band suonarlo ad Harlem, in locali densi di fumo, storie e odori del passato.

 

Florence Mills (1895-1927)

The Queen of Happiness

 

 

Una poesia in musica -“Black beauty”- un omaggio alla memoria di una grande artista: la Mills, attrice, ballerina e cantante di fama internazionale, nota come “The queen of happiness” per la verve che la caratterizzava sul palcoscenico, avrebbe accennato un sorriso e spalancato gli occhi se avesse ascoltato la nobile dedica di un jazzista del calibro di Duke Ellington.

 

Ma quella musica c’è, esiste, come filo conduttore, come forma di comunicazione che trascende la sfera delle possibilità conosciute. Forse Duke e Florence se la suonano e se la ballano, in un mondo soltanto sognato, in un recesso remoto della memoria condivisa degli uomini che furono, sono, saranno. Pensarlo lo rende vero, in un certo senso.

Black beauty  – youtube

The lobster

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L’Atlante delle Nuvole

The lobster“The lobster” è un film/laboratorio del regista greco Yorgos Lanthimos, sviluppato su due binari che corrono in parallelo verso opposti modelli sociali:  da un lato la ricerca affannosa e forzata di un partner,  dall’altro la fuga spasmodica da ogni forma di legame.  I protagonisti devono scegliere la direzione prediletta in un contesto che si mantiene costantemente semiserio e grottesco.

The lobster

Gli spettatori/cavie osservano due ambienti, il “dentro” e il “fuori”, che insieme compongono un habitat complessivo oltre cui non sembra esistere altro. I due contesti sono uniti da una sola strada che sancisce una labile e approssimativa linea di confine.

Yorgos Lanthimos“Dentro” è una sorta di hotel di lusso, dove tutto è organizzato in modo maniacale e sistematico: attività imposte e per lo più inutili si succedono senza soluzione di continuità, così da non lasciare spazio e tempo residui a disposizione dei membri. Una situazione che tanto somiglia alle civiltà occidentali più frenetiche ed “evolute”, in cui persino l’umanità viene tecnicizzata.  “Dentro” occorre trovare qualcuno da amare entro un tempo stabilito per essere considerato membro a tutti gli effetti: le alternative sono la trasformazione in un animale a scelta o la fuga. Ogni individuo è pertanto indotto alla ricerca compulsiva di un elemento che lo accomuni a un’altro tanto da renderli affini:  non è difficile intuire come tanti siano spinti alla simulazione onde evitare la muta, e come quindi si scelga la via meno dolorosa, cioè una convivenza costruita, per evitare l’emarginazione dalla società. L’inganno, ove rivelato, conduce parimenti alla muta.

The lobster“Fuori” –nel bosco-  si è in apparenza liberi, ma è una libertà che si riduce ad una costrizione capovolta rispetto al primo sistema: in effetti la libertà è limitata allo stato brado in cui i membri vivono, poiché la regola in tal caso è la solitudine:  di primo acchito la conquista dell’emancipazione assume le sembianze di una catarsi, ma poi si rivela per quello che è, ovvero una nuova imposizione. Il divieto di allacciare relazioni rappresenta  l’ennesimo diktat, la condicio sine qua non di una trappola senza vie d’uscita. Le conseguenze di un approccio amoroso sono terribili menomazioni.

Segui l’aragosta oltre le nuvole

Via dalla pazza folla – Allarme Vinterberg

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L’oste deluso

Via dalla pazza folla

“Via dalla pazza folla” non sembra un film di Thomas Vinterberg, per quanto l’evidenza delle cose non sia fatto opinabile. L’autore di grandi opere quali “Festen”, “Riunione di famiglia, “Il sospetto”, un così fine indagatore della psiche umana e delle sue storture, realizza una collezione di clichè senza pari, un trionfo di scontatezze a tal punto disarmante da condurre alla resa anche i più fervidi sostenitori del regista danese. Perchè riesumare il romanzo di Thomas Hardy per questa scialba trasposizione cinematografica? Perchè questo remake inutile? Cosa c’è di interessante in questo intreccio amoroso che vede coinvolti una volubile ereditiera, un pastore scoglionato, un ricco zitello fuori di testa e un soldato pazzo? Forse l’ambientazione vittoriana, la splendida campagna inglese, le prove di Sheen e della Mulligan, la fotografia degna di una tale natura, niente altro. Due ore sembrano due giorni, l’elettrocaridogramma dell’opera si mantiene assolutamente piatto, il film è privo di vita e di emozioni, e il finale sfocia in una banalità dai contorni persino comici: il pastore scoglionato incontra per caso l’ereditiera, le comunica con soddisfazione che è entrato nel coro della chiesa, che sta andando alle prove. Poi aggiunge che se ne va, che è lì per dirle addio, che all’alba partirà per l’America. Ma dico io, stai per partire per sempre per un viaggio epico, per cambiare terra e vita, e la sera prima vai alle prove del coro della chiesa? Non mi stupisco che una simile sceneggiatura venga proposta al grande pubblico, ma è sconcertante che sia Vinterberg a utilizzarla per una sua opera. E’ un mistero che può avere queste possibili soluzioni: una precoce e improvvisa demenza del regista; una forma di provocazione o un depistaggio; un incidente di percorso; una vecchia promessa fatta a uno sceneggiatore in crisi mistica. E’ per quest’ultima ipotesi che propendo.

Ho ucciso Napoleone – “Io sono così”

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Il Consiglio dell’Oste

Ho ucciso Napoleone

Donna di ghiaccio. Solo lavoro. Nessun coinvolgimento emotivo. E poi, l’imprevisto. L’onta del licenziamento. Il mondo crolla. Napoleone muore. Tutto cambia. Solidarietà femminile.Vendetta e restaurazione dello status quo ante. Innamoramento e amore. No. Pia illusione. Vite camuffate. Macchinazioni impercettibili. Niente è come sembra. Il nemico è alle porte. Il nemico è ovunque. Il tempo aggiusta le cose (“A tutti i mali ci sono due rimedi: il tempo e il silenzio”). La donna di ghiaccio torna al lavoro. “Eh ma sei fai così te ricacciano!” “Io non faccio così, io sono così”, e la porta si chiude in faccia allo spettatore e al lungo giro che la protagonista si era imposta per ovviare a se stessa. Lo sguardo nuovo e transnazionale di Giorgia Farina. Il suo cinema trascende i confini geografici. I confini non esistono. Ineludibile è soltanto la personalità degli individui.      Un implacabile sciabordio che conserva identità e struttura. Anche nella tempesta.

La parole e l’azione: Roth versus Ibsen

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Un migliaio di parole non lasciano un’impressione tanto profonda quanto una sola azione” – dichiarò sinteticamente il celebre drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906).

Joseph Roth, talento d'Osteria

Joseph Roth, talento d’Osteria

Lo scrittore austriaco Joseph Roth (1894-1939) la pensava diversamente. O meglio la pensava diversamente Golubcik/Krapotkin, eccelso protagonista del suo romanzo “Confessione di un assassino”:

Solo molto più tardi ho imparato che le parole sono più potenti delle azioni, e spesso rido quando sento l’amata frase: “Fatti e non parole!”.Quanto sono deboli i fatti! Una parola rimane, un fatto passa! Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata soltanto da un uomo. Il fatto, l’azione, è solo un fantasma se lo si confronta con la realtà, e persino con la realtà immateriale della parola.L’azione sta alla parola press’a poco come le ombre bidimensionali del cinema stanno all’uomo vivo tridimensionale, oppure, se preferite, come la fotografia all’originale. Anche per questo sono diventato un assassassino”.

Per aver sottovalutato il potere della parola, Golubcik entra a far parte dell’Ochrana, la terribile polizia segreta della Russia zarista, evento che influenzerà tutto il corso della sua vita, fino a saggiare “la più profonda di tutte le tragedie, la tragedia della banalità”.

Henrik Ibsen, padre della moderna drammaturgia

Henrik Ibsen, padre della moderna drammaturgia

La coincidenza di interessarsi contemporaneamente a due grandi autori conduce di rado a una simile evidenza: il contrasto dei concetti summenzionati è talmente evidente da indurmi alla conclusione che non posso decidere per l’uno o per l’altro. Oltretutto vari fattori limitano la portata delle rispettive idee: nel caso di Ibsen, il concetto è stringato e privo di un contesto più ampio che potrebbe chiarirne meglio il significato: potrebbe essere -ad esempio- un’amarezza personale ad aver spinto l’autore di “Spettri” a un considerazione che denigra a tal punto il potere della parola. Nel caso di Roth invece, il concetto è filtrato dal fatto che sia un suo personaggio, e non propriamente egli stesso, a concepirlo.

In conclusione, ritengo che parola e azione siano interdipendenti: si nutrono l’una dell’altra, si alimentano vicendevolmente, traggono senso e respiro ognuna dall’esistenza e dall’essenza dell’altra, e forse si smarrirebbero entrambe se cessasse lo scambio osmotico che ne caratterizza la relazione.

Cave of the forgotten dreams – Quegli uomini siamo sempre noi o abbiamo smarrito noi stessi?

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Inventando la raffigurazione di animali, uomini, cose” -racconta Werner Herzog con voce profonda e suadente- “nasce una forma di comunicazione tra gli umani e il futuro, evocando il passato, trasmettendo informazioni in forme superiori al linguaggio, alla comunicazione generale. E la stessa invenzione esiste oggi, nel nostro mondo, ad esempio con questa videocamera.”

Chi ha avuto, come Herzog e un ristretto staff di scienziati, il privilegio di entrare nelle grotte Chauvet, descrive l’esperienza come un forte trauma emotivo, uno shock primordiale, acuito dalla sensazione di sentirsi osservati dagli spiriti di uomini che scrutiamo attraverso le voragini del tempo, uomini scevri dalle maglie della storia che invece intrappolano irrimediabilmente l’uomo d’oggi. Il silenzio della grotta e le opere di eccellente fattura, risalenti anche a 32 mila anni fa, comunicano più di qualsiasi linguaggio il segreto del tempo e dell’evoluzione umana.

Cave of forgotten dreams

Quella grotta, che non era una casa per gli uomini, ma un luogo d’arte e di culto, si rivela una sorta di mostra dei sogni perduti, che ha resistito ai crolli della rupe che ne hanno ostruito il passaggio ma non l’intima essenza, che è divenuta eterna e imperforabile teca, finchè un alito di vento ha suggerito a Chauvet di risalire la china di un percorso forse tracciato dall’uomo per se stesso, per ricondursi a sè, per coincidere ancora con il centro, puro e adamantino, della sua natura, una natura calpestata e rinchiusa nei contenitori oblianti dell’eternità, nascosta sotto i sedimenti millenari dei nostri stessi artifici, delle nostre strutture infestanti.

Coccodrillo albino

Nel finale del film, Herzog immortala alcuni rettili che vivono in un ambiente tropicale ricreato a pochi chilometri dal sito archeologico – laddove un tempo un ghiacciaio spesso 2.500 metri dominava il paesaggio-  “grazie” ai fumi residui di una centrale atomica che insiste nei dintorni. Il regista tedesco si sofferma in particolar modo sui coccodrilli albini, nati in questo ambiente fondamentalmente tossico, e quindi adattati ad esso. “Nulla è reale, nulla è certo. Non è semplice capire se queste creature si stiano trasformando nel loro stesso alter ego. E poi, si incontrano? Oppure non è altro che un riflesso speculare immaginario? È possibile che noi, oggi, siamo i coccodrilli che scrutano un abisso temporale, quando osserviamo le pitture della grotta Chauvet?“.

Queste parole di Herzog mi turbano dalle profondità della notte scorsa e di quella grotta di sogni perduti, quasi che le due dimensioni in qualche modo convergano, come tutto il tempo coincide con un solo infinitesimale istante, grazie alle tracce e ai segni che quegli uomini ingegnosi hanno disseminato per tramandare l’essere umano.

In quella grotta riposa un sogno lungo 32 mila anni, un sogno che scorre dentro ciascuno di noi.

Le tre cose della domenica – “Ossido di carbonio”, “Smoking runner”, “A tutto gas”.

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Le tre cose della domenica mi riportano a una mattina romana, quando o dove il mio caro amico Faust mi parlò per l’appunto delle sue tre cose della domenica. Il concetto mi piacque molto all’epoca e lo riprendo ora per intitolare questo mio pensiero.

Ieri era a domenica anche qui a Jesi, la mia città. Era la domenica di “Bicincittà”. Tutti in bici. La zona fra i giardini pubblici e lo stadio comunale era pedonalizzata, addobbata a festa e popolata da centinaia di bambini. Tante iniziative e una bella festa per tutti. Ma non è questo il punto.

Ieri mattina sono andato a correre, come mi capita spesso di fare. Attraverso di corsa la zona pedonalizzata. Magnifico -penso- dovrebbe essere sempre così. Ma proseguo di poche decine di metri, neanche il tempo che quel mio pensiero si sia fuso con gli altri mille che si accavallano allegramente nella testa di chi corre, e mi ritrovo immerso nei gas di scarico.

Cosa numero 1:

di colpo sembrava quasi che la manifestazione fosse “Auto in città”, tante erano le macchine che intrecciavano i loro percorsi. Non capivo e non capisco tuttora dove andassero tutti in macchina in quella bella giornata di sole. Un vero spreco e una dannazione per me, costretto a mascherarmi con una fascia da bandito per respirare meno ossido di carbonio possibile. Forse, ho pensato, arrivano in macchina fin dietro i giardini, tirano fuori le bici e sfilano per dare l’illusione di aver percorso sulle due ruote ben 500 metri. Oppure -penso- boh!

Cosa numero 2:

continuo a correre, sono entrato in un loop immaginario che percorro abitualmente, un anello di 4,4 km. Sono all’inizio del primo giro, quando, fra le persone che incrocio, una mi incuriosisce particolarmente. E’ un ragazzo sulla quarantina (si perchè mentre una volta a 40 anni si era vecchi, oggigiorno alla stessa età si è ancora giovani): è in tenuta ginnica, ma cammina e fuma una sigaretta. Ho pensato: gente strana, davvero. O forse è un’illusione ottica, forse sono già stanco. Ma il pensiero vola via, e proseguo, finisco il secondo giro, e, a metà del terzo, incontro di nuovo quel ragazzo. Il sole inizia a battere forte, e lui adesso corre, respirando con un certo affanno. E il boh che è dentro di me inizia a veleggiare verso il cielo.

Cosa numero 3:

sempre durante il mio percorso mattutino, in un momento collocabile fra il primo e il secondo incontro con lo smoking runner, passo vicino a due automobili parcheggiate una dietro l’altra, a bordo strada. Entrambe hanno il motore acceso, e si scaldano al sole. La prima è vuota. Due portiere aperte, al suo fianco quattro persone estremamente sovrappeso mangiano dei panini e discutono. Il sudore imperla la fronte di uno dei quattro, e subito penso al Barone Arkonnen e alle sue magnifiche pustole. Nella seconda macchina, parcheggiata subito dietro la prima, c’è un uomo al posto di guida. Fuma una sigaretta e legge il giornale, con il finestrino quasi chiuso, m non del tutto, giusto per aspirare anche buone dosi del gas di scarico che gli sparano innanzi. A quel punto un alto cirro che si leva dritto davanti a me assume indiscutibilmente la forma di Grande Boh.

Cirrus sky

La sera prima mi ero trovato a riflettere sui meccanismi che inducono l’uomo -almeno apparentemente- all’autodistruzione. Forse la scintilla che ha permesso all’uomo di evolversi in modo inaspettato non è stata un bene, a conti fatti. Forse è una malattia, un agente patogeno, un virus. Forse è la prova che stiamo miseramente fallendo, che la nostra crisi d’identità è profonda quanto la tana del Bianconiglio.

La sera prima ero assalito da ogni sorta di dubbio.Ma poche ore dopo, ieri mattina appunto, quegli strani fatterelli hanno confermato i miei sospetti e fugato ogni dubbio: l’uomo si è davvero fottuto il cervello.

“L’uomo è l’unica creatura che rifiuti d’essere ciò che è”

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La guerra è un concetto che mi ossessiona. Giorni fa ho ripreso visione di “Master & Commander”, un film di Peter Weir del 2003: trattasi di un’avventura immaginaria nei mari del sud agli albori del 19esimo secolo. Il Comandante inglese Aubrey rincorre il nemico francese a bordo di una fregata, oltre i limiti geografici che la missione e la corona gli impongono, oltre i propri doveri militari, oltre ogni logica, oltre il peso imposto dalla tutela degli uomini di cui è responsabile. Il gioco della guerra spinge l’uomo oltre tutti questi limiti.

MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.Nel film deflagra -oltre l’epico duello in mare fra bastimenti- lo scontro morale e dialettico fra il comandante e il medico di bordo, Maturin, suo caro amico e naturalista appassionato. I loro punti di vista sono opposti: il primo è un predatore in senso stretto, e vive alla ricerca di una preda, o meglio di un (valido) antagonista con cui confrontarsi in mare aperto; egli brama un nemico per respirare, lo desidera come fosse la vita stessa.
MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.Maturin invece è uno scienziato, un esploratore, un uomo che vive per la conoscenza, che si nutre di curiosità, che “caccia” la diversità che in Natura dilaga. Non è un caso che la sceneggiatura conduca la fregata inglese dal Brasile alle Galapagos, dopo aver doppiato la furente Capo Horn: l’arcipelago del Pacifico è infatti il simbolo dell’evoluzionismo sancito da Charles Darwin pochi anni dopo le vicende narrate del film, e Maturin è in effetti una sorta di Darwin ante litteram, per quanto affondi le sue ipotesi sull’opera di dio e non invece sull’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale.

MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.

I due amici condividono la passione per la musica e intrecciano i propri strumenti ogni sera, ma non riescono a toccarsi fin nel profondo, a comprendere ognuno cosa muova l’altro, intimamente.

Essi vivono

Essi vivono (e  quando scrivo “Essi vivono” non riesco a non pensare al cinema degli anni 87 e 88, a cartoni ricolmi di occhiali da sole neri e quindi a John Carpenter) -dicevo- essi vivono sulla base di criteri opposti, ma all’apice del dramma giungono a comprendersi reciprocamente, e persino a capire e carpire qualcosa dell’altro: Aubrey trarrà spunto dall’arte di camuffarsi di un insetto per impostare una strategia offensiva, mentre Maturin parteciperà attivamente all’arrembaggio finale.

Essi vivono (non resisto e non posso tralasciare che quando scrivo “Essi vivono” non riesco a non pensare al cinema degli anni 87 e 88, a cartoni ricolmi di occhiali da sole neri e quindi a John Carpenter) -dicevo- essi vivono sulla base di criteri opposti, ma all'apice del dramma giungono a comprendersi reciprocamente, e persino a capire e carpire qualcosa dell'altro: Aubrey trarrà spunto dall'arte di camuffarsi di un insetto per impostare una strategia offensiva, mentre Maturin parteciperà attivamente all'arrembaggio finale.Se riflettiamo un solo istante sulla follia che la guerra comporta, sullo spreco di tempo, risorse, energie utilizzati per giocare alla guerra, per escogitare marchingegni e strategie di morte, per porre in essere missioni, operazioni, equipaggi ed equipaggiamenti, possiamo comprendere con un discreto margine di approssimazione il retaggio di barbarie e stupidità che il genere umano eredita vita natural durante dalla sua stessa natura.

Galapagos

L’uomo a un certo punto della sua storia evolve in modo imprevedibile, un modo che non gli consente più di vedere la bellezza da cui è circondato; rifiuta di vivere in armonia con la Natura, ma anzi la rigetta e sfrutta e calpesta senza indugio, finchè il disamore e la mancanza di devozione nei confronti dell’ecosistema che gli ha offerto l’opportunità di essere divengono fattori genetici: l’uomo, il piccolo e misero uomo non “sente” più il legame indissolubile fra sé e la vita tutto attorno a sé, fino a smarrire il senso della sua stessa specie; si illude di essere il padrone del mondo che abita, e divide, distrugge, deturpa, si moltiplica a dismisura e diviene virale e pone confini che esistono solo nella sua mente, e inventa guerre per proteggere quei confini od estenderli a discapito di altri, per sfruttare selvaggiamente ogni risorsa disponibile, coinvolgendo nelle sue devastazioni tutto ciò che vive, alterando equilibri primordiali, senza giustificazioni di sorta.

L'isola dei rifiuti

Mi chiedo ogni giorno come ciò sia potuto accadere. Avidità e idiozia guidano i comportamenti umani in modo non arginabile. Abbiamo tramutato l’Eden in un’enorme discarica, viviamo in mezzo ai gas e alle macerie di una società purulenta, e per il piacere di un istante siamo pronti a sacrificare tutto, anche il futuro di chi verrà dopo di noi.

Forse -come scrisse Camus- “l’uomo è l’unica creatura che rifiuti d’essere ciò che è”: e forse questa eterna ribellione contro la bellezza, contro il pianeta, contro se stesso definisce l’uomo, la sua indole, il suo percorso, il suo scontato epilogo.

Gunter uber alles

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Gunter Grass

Osteriacinematografo rende omaggio a Gunter Grass, padre di quel “Tamburo di latta” che sconquassò la vita dell’Oste tanto quanto gli acuti di Oskar Mazerath -leggendario treenne paranoide che impedì al proprio corpo di crescere- sconquassarono i vetri degli edifici di una Danzica sempre sognata. Che la Vistola ti porti, egregio Gunter.

McCarthy, gli Apache, la guerra, il gioco, la morale, l’assoluto storico.

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L’essenza della tenzone in Singolar Tenzone

Contesto spazio-temporale:

nel cuore nero e fiorente del 19esimo secolo, da qualche parte al confine fra Stati Uniti e Messico.

 

“Sotto i soli abbacinanti di quei giorni i cavalieri divennero sempre più sparuti e macilenti, e i loro occhi incavati e bruciati parevano quelli di nottambuli sorpresi dal giorno. Rannicchiati sotto il cappello, sembravano fuggitivi in un ordine più grande, come essere dei quali il sole fosse affamato”.

Arizona

 “La guerra perdura nel tempo. La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente.

La guerra racchiude in sé tutti gli altri mestieri.

Essa perdura perchè i giovani la amano e i vecchi la amano nei giovani. 

Gli uomini sono nati per giocare. Nient’altro. Tutti i bambini sanno che il gioco è più nobile del lavoro. Sanno anche che il valore o merito di un gioco non sta nel gioco stesso, ma piuttosto nel valore di ciò che è messo in gioco. I giochi d’azzardo richiedono una posta per avere un senso. I giochi sportivi coinvolgono l’abilità e la forza dei contendenti, e l’umiliazione della sconfitta e l’orgoglio della vittoria sono di per sé una posta sufficiente poiché pertengono al valore degli antagonisti e li definiscono.

Ma tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perchè in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto.

Supponiamo che due uomini giochino a carte non avendo da puntare niente se non la vita. Una carta viene girata. Per il giocatore l’intero universo si riversa fragorosamente in quell’istante, che gli dirà se gli tocca di morire per mano di quell’uomo o se toccherà a quell’uomo morire per mano sua.

 Spingere il gioco alla sua condizione estrema non ammette alcuna discussione concernente la nozione di fato.

 L’uomo che tiene in mano una particolare combinazione di carte è in forza di ciò rimosso dall’esistenza. Tale è la natura della guerra, in cui la posta in gioco è a un tempo il gioco stesso e l’autorità e la giustificazione.

Vista in questi termini, la guerra è la forma pi attendibile di divinazione. 

La guerra è il gioco per eccellenza perchè la guerra è in ultima analisi un’effrazione dell’unità dell’esistenza. La guerra è dio”.

Il duello

“La legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprimere il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale sia corretto o erroneo.

Di un uomo che cada morto in un duello non si penserà di conseguenza che abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista. Il suo stesso coinvolgimento in una prova del genere conferma l’esistenza di un punto di vista nuovo e più ampio.

La volontà dei protagonisti di tralasciare ulteriori dispute, considerandole futili come in effetti sono, e di appellarsi invece direttamente al tribunale dell’assoluto storico indica chiaramente di quale scarsa importanza siano le opinioni, e di quale grande importanza siano le divergenze al riguardo. 

Le decisioni sulla vita e sulla morte, su ciò che deve e che non deve essere, pongono in secondo piano qualunque questione di diritto. Dentro scelte di questa entità vengono sussunte tutte le scelte minori, morali, spirituali, naturali”.

Passo per il passo completo  di “Meridiano di sangue” di Cormack MacCarthy