Un eccesso di aspettative può sovente giocare brutti scherzi allo spettatore.
Lo sguardo gelido e distante di Eastwood (non dissimile dalla rappresentazione di Clooney ne “Le idi di marzo”) su di un personaggio altrettanto gelido e distante non coinvolge emotivamente, regala una visione critica ma asettica di John Edgar Hoover, una regia perfetta, troppo perfetta, e l’elettrocardiogramma si conserva piatto, e si finisce con la sensazione di aver assaggiato l’antipasto freddo di un pranzo che non c’è.
La critica è rivolta all’assenza di emozioni che accompagna tutto il percorso del film, che diviene quasi un documentario, un reportage, nonostante le ineccepibili prove attoriali di DiCaprio, Dench (sempre un gradino sopra gli altri), Watts e Hammer.
In “J.Edgar” emergono i lati sgradevoli di Hoover, le menzogne, le incoerenze dell’uomo che ha rivoluzionato l’FBI, presiedendola per un cinquantennio sotto l’egida di otto diversi capi di stato, ma non c’è trepidazione alcuna, non si freme nell’attesa di un evento, quasi fossimo lungo una highway americana, rettilinea e infinita (ma senza il contrappeso del paesaggio a indorare gli occhi di chi guida).
E allora ci si chiede se Hoover, personaggio legato profondamente alla storia americana del ‘900, ma rapito dai principi sulla sicurezza nazionale e dall’ossessione di una perfezione inattaccabile al punto di dimenticarsi di vivere, meritasse le attenzioni di un grande regista, quale Eastwood rimane.
Il cinema dovrebbe emozionare, sempre.