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Poesie d’Osteria

Bucce di mandarino costellano l’abisso bianco,

disperdendosi e riaffiorando a intermittenza

lungo la superficie increspata di un mare neve.

Un toro irrompe poderosamente sulla scena,

squarciando il fondale di cartapesta.

Nervature muscolari in perfetta tensione e l’innata fierezza

ne contraddistinguono l’incedere.

Turgide nari vulcaniche si dilatano

per poi prendere a sbuffare collericamente.

L’Estetica del toro è minacciata dall’interferenza biodegradabile

che corrompe la purezza circostante.

La tauromachia diviene inevitabile,

l’arena si pone laddove è la fonte stessa della sovrapposizione elettromagnetica,

fra la bianchezza e la gradazione che sullo spettro tentenna fra il giallo e il rosso.

Vili picadores a cavallo punzecchiano l’animale che per un istante esita.

Ma il toro fissa lo sguardo sugli inani pupazzi,

che si sciolgono ancor prima che l’agone inizi.

Il sublime cornuto scuote il terreno,

sputa fuoco e tempesta,

volteggia indispettito la propria foga,

“e si sbarazza della sfida con una scrollata”.