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Capita -a volte- di andare a vedere un film per curiosità, di guardare per il gusto esteso di guardare. E può così accadere di imbattersi in produzioni artigianali sorprendenti.

Il giovane regista inglese (gli inglesi sono sempre i migliori) Gareth Edwards narra la fuga dalla civiltà, la riscoperta della natura, utilizzando la fantascienza come pretesto.
La natura -dicevamo- placida e selvaggia al tempo stesso, in cui un uomo e una donna conosceranno se stessi e si riconosceranno reciprocamente simili, fino al punto di temere il ritorno alla vita cementificata.

La storia non è così importante –non sempre lo è, se l’opera è foriera di un messaggio interessante e non soltanto di scene sovrapposte meccanicamente– e la regia scorre quieta, indugiando sui protagonisti e sulla giungla che li avvolge. La fotografia è cupa e accattivante, in un’ascesa crepuscolare ricca di vita e colore.

Le prospettive iniziali si ribaltano, e la zona infetta, l’insediamento alieno, si rivela zona devastata dai veleni e dalla barbarie umana, che sempre provoca per poi dover subire il ritorno delle forze naturali; gli immensi muri che dominano l’orizzonte perdono la loro esatta collocazione, e ci si chiede chi realmente quei muri protteggano da chi, chi dividano da chi.

I mostri sono quelli che i bambini vedono –in forma mutevole– nella penombra, e che gli adulti scorgono alla luce del sole. I mostri sono coloro di cui sospettiamo, perchè vivono diversamente da noi o non condividono le stesse abitudini. I mostri sono poi anche quelli che -con un gesto tanto inatteso quanto originario- ci rieducano all’amore: la strada diretta all’inaridimento –par essere il monito– può essere ancora percorsa in senso inverso, onde evitare di dimenticare le nostre stesse radici.