L’anno è il 2008. Joaquin Phoenix decide di chiudere col cinema e di incidere un disco di musica rap. Il cognato Casey Affleck segue così questa sua fase di passaggio, documentando le travagliate giornate di un Phoenix irriconoscibile.
Barba incolta, foltissima, l’aspetto trasandato, gli abiti sdruciti, l’attore ingrassa notevolmente nel corso del film, fino ad apparire sformato; Affleck lo immortala in altalene d’esaltazione e depressione, nell’intimità più totale, alle prese con ogni tipo di eccesso, e ne esce fuori una figura goffa, un Morrison ultimi tempi, che finisce quasi con l’intenerire lo spettatore.
E’ un documentario interessante, dato che mostra ogni cosa senza apparenti artifici: Joaquin Phoenix è al tempo stesso splendido e inguardabile; interpreta alla perfezione la propria parabola discendente, tanto da sembrare vero.
Si discusse a lungo sulla veridicità del prodotto, sul reale abbandono delle scene da parte dell’attore portoricano, sul fatto che fosse soltanto un’astuzia commerciale; a maggior ragione, adesso che sappiamo che Phoenix sta lavorando a nuovi progetti cinematografici, il dubbio potrebbe essere legittimo.
Ma perchè –mi chiedo– un attore all’apice del successo avrebbe dovuto denigrare se stesso in modo così evidente?
Voglio fidarmi del folle Phoenix, e pensare che ci abbia semplicemente voluto mostrare il demone barbone che porta con sè.
I’m still here
19 giovedì Gen 2012
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