Lungometraggio d’esordio del regista messicano Fernando Eimbke.
Paesino scarno e sperduto dello Yucatan: un ragazzino finisce con l’auto contro un palo, e deve prodigarsi per cercare qualcuno che ripari il guasto. Sembra un paesino fantasma, in cui le persone appaiono e scompaiono, e sarà un’impresa trovare il pezzo giusto per ricomporre l’insieme. In realtà il sedicenne Juan sta elaborando la morte del padre, e i suoi approcci tentennanti, i suoi disagi, sono dettati dal lutto recente che ne ha minato la stabilità. La sua ricerca è il pretesto per un percorso di crescita e distacco.
Eimbke indugia a lungo su paesaggi e persone, si prende tutto il tempo per mostrarne la piega ben definita, e sottolinearne la flemma e l’indolente e apatico approccio al contingente, mantenendosi fedele a tale impostazione fino alla fine della storia.
Il film è autobiografico, e il regista sovrappone spesso schermate nere a prolungati fermi immagine, come se i fotogrammi fossero diapositive, singoli estratti mnemonici, lampi istantanei che illuminano a giorno il cielo dei ricordi in tempesta -in alternanza ai passaggi dimenticati, a quei buchi neri che rimangono eternamente tali nel processo di reminiscenza.
L’opera è -forse- il modo in cui il regista riscatta un passato di dolore, in cui mostra se stesso bambino nella difficoltà di riorganizzarsi. Troverà la giusta solidarietà fra i suoi coetanei, e la forza in piccoli reciproci gesti di comprensione che ne faciliteranno la rapida mutazione, il cambio di pelle, il salto triplo nella dimensione adulta.