A volte, storie di uomini e rotte marittime s’incrociano fra le nere increspature oceaniche.
Come le storie di Donald Crowhurst (1932-1969) e di Bernard Moitessier (1925-1994).
Il primo, commerciante e velista amatoriale inglese, si trovò a un certo punto della sua vita sull’orlo del fallimento. Il secondo, eccelso navigatore e scrittore francese, fu il primo a circumnavigare il globo senza scalo, nel ’65.
I loro destini s’incrociarono nel 1968, in occasione della Golden Globe Race -gara velica senza precedenti- la prima regata intorno al mondo in solitario. I partecipanti salparono da diversi porti inglesi, con l’obiettivo di passare i Tre Capi -Buona Speranza, Capo Leeuwin e Capo Horn- e la (buona) speranza di tornare.
Moitessier partì da Plymouth il 22 agosto 1968 a bordo di Joshua, imbarcazione amica e fidata; Crowhurst iniziò la propria avventura blu dal porto di Teignmouth due mesi dopo, il 31 ottobre 1968, a causa dei ritardi che subì l’allestimento della Teignmouth Electron, con cui salpò nonostante i numerosi avvertimenti circa la non adeguatezza del mezzo.
Un francese mosso dalla innata passione per il mare e un inglese spinto dalla disperazione e dal desiderio di stupire iniziarono così la marcia acquatica verso la gloria.
Moitessier ebbe naturalmente i favori dei pronostici fin dal primo giorno, e dopo aver doppiato i Tre Capi con largo anticipo sugli altri concorrenti, invece di tornare in Europa, si diresse nuovamente a sud, rinunciando alla vittoria e a 5000 sterline, in onore dell’amore per il mare –un valore non monetizzabile– che ne guidava l’istinto: superò per la seconda volta il Capo di Buona Speranza, e raggiunse la Polinesia francese nel giugno del ’69, dopo quasi un anno e circa 37.500 miglia di navigazione.
Crowhurst, dal canto suo, non venne mai accreditato come possibile vincitore della competizione, ed ebbe enormi problemi già nei primi giorni di mare. In realtà non doppiò alcuno dei Capi, rimase sempre entro i confini invisibili dell’Oceano Atlantico, ma la necessità di recuperare i soldi investiti lo spinse a comunicare via radio false comunicazioni alla giuria per mantenere comunque viva la speranza di vincere, nonostante la consapevolezza che sarebbe stato impossibile falsificare i diari di bordo. Il 29 giugno del 1969 -in concomitanza con lo sbarco di Moitessier a Tahiti- terminò le trasmissioni radio, e la sua imbarcazione venne ritrovata dieci giorni dopo al largo delle Bermude. Crowhurst non era a bordo, e il suo corpo non venne mai ritrovato. A quanto pare si suicidò, accecato dall’ennesimo fallimento e da una smisurata ambizione. Ma siamo nel campo delle ipotesi.
La regata venne poi vinta da Robin Knox-Johnston.
Ecco come le storie di due uomini si possono intersecare, sovrapporre quasi, ai confini del mondo.
Due tipi umani ben diversi, che si sono imbarcati nel medesimo viaggio con spiriti diametralmente opposti. Crowhurst muore nell’affannoso tentativo di un’impresa impossibile per un velista dilettante, forse a causa dell’ossessione del premio e del denaro, che tolse lucidità a una mente già indebolita e disorientata dal forzato isolamento. Lo stesso denaro a cui Moitissier rinuncia, quel denaro che il francese ignora in favore della libertà che gli si prospetta innanzi, una libertà fatta di acqua e cielo e solitudine.
Il mare che inghiotte, ingloba e seppellisce, e non sempre rende indietro.
Il mare mostro e il mare bambino.
Il senso romantico della scoperta in assenza di supporto tecnologico.
L’inaffidabilità della navigazione, senza sapere il dove e il quando.
E claustrofobici spazi a disposizione.
E trimarani erranti in balia degli elementi.
La voglia di vincere e il desiderio di scappare fluttuano nel barcamenarsi ondivago.
Varie personalità e un solo uomo oscillano e si avvicendano al timone.
E c’è chi cerca Dio. E chi trova se stesso.