Il Consiglio dell’Oste
Steven Soderbergh fornisce un’interpretazione cupa e claustrofobica della eventualità di un virus dilagante a livello planetario.
La parata di attori che sfila fornisce quasi la sensazione che il prodotto sia stato confezionato quale monito generale, che il film sia una sorta di allarme rosso in costante attività e i protagonisti ambasciatori dei pericoli che l’uomo corre (e che l’uomo genera) nell’epoca della globalizzazione del lavoro, dei mercati, dell’informazione e delle malattie.
Persone e merci circolano senza controllo, l’uomo divora ogni cosa, riduce gli spazi, danneggia ogni ambiente; le creature, cacciate dai propri habitat, vivono dove possono, dove non dovrebbero, e nuove forme virali si combinano, rimescolandosi, acquisendo forza, e poi viaggiano e si diffondono a bordo di corrieri umani che divengono cavie incubatrici (cicale a fine agosto – direbbe un mio amico).
Il panico dilaga e si moltiplica, di pari passo con la malattia, lo sciacallaggio prende forma e coinvolge generi alimentari, farmaci, vaccini, la paura stessa.
La paura gioca un ruolo determinante, e c’è chi la subisce e chi se ne nutre, chi ne viene schiacciato e chi ne sfrutta le potenzialità per arricchirsi, come -nel caso di specie- un blogger senza scrupoli.
E poi s’affaccia al proscenio per un meritato tributo Nostra Signora l’Industria Farmaceutica, autoproclamatasi neo divinità, assurta al ruolo di religione del terzo millennio: tutto regola e tutto controlla, plasma e indirizza la paura, e i suoi fedeli attendono la sua parola e accrescono le dimensioni del mostro, che gioca e specula su una patologia che prospera e straripa.
Il filtro livido, bluastro –in stile Mystic river– regala atmosfere degne di un tale abisso, che è fisico e morale: l’embargo, lo sfacelo, l’interruzione delle attività, il progressivo calo delle scorte alimentari riportano l’uomo allo stato brado senza fasi intermedie, e l’animale esplode e calpesta i propri simili e la violenza diventa l’unico linguaggio possibile.
Soderbergh aggiunge cauti e rarefatti messaggi di speranza a un quadro catastrofico, ma rimane il tarlo della convinzione che la (presunta) civilizzazione umana sia a tal punto labile e traballante da apparire sotto forma di minute stille nella pioggia battente di Blade Runner.