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Roberto Matta
13 lunedì Feb 2012
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13 lunedì Feb 2012
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13 lunedì Feb 2012
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A Gabriele, caro e fraterno amico
Accade sovente di scartare un film a priori, per via del genere sotto la cui egida viene collocato. E’ –questa- una scelta discutibile, perché il cinema dovrebbe essere una forma di comunicazione che utilizza un linguaggio universale, a prescindere dalla catalogazione delle sue singole, mutevoli estrinsecazioni. La qualità è un dato che percorre trasversalmente i generi, ed è pacifico che ci si possa imbattere in un buon thriller o in una pessima commedia. Ogni film è potenzialmente in grado di trasportare un concetto, di rendersi foriero di messaggi diretti o simbolici che trascendono la famiglia d’origine dell’opera.
Il genere non è una parola come può esserlo Alphonse o Barnaby, non è un movimento o una corrente artistica, non è una tendenza culturale o ideologica, ma si riduce a semplice aggettivo ornamentale, a fregio che parla dello stile ma non denota i contenuti intrinseci di un’opera.
13 lunedì Feb 2012
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Il film inizia con una dolce immersione nel caos, nel calore e nel colore indiani. Segue l’abbraccio toccante e perfettamente aderente fra un uomo europeo e un bimbo del luogo. L’uomo è Jacob, un danese costretto, suo malgrado, a rientrare nella terra natia per reperire fondi utili alla sopravvivenza dell’orfanotrofio in cui quel bimbo e tanti altri hanno trovato una casa.
E così lo stacco fra la miseria d’India e il verdeggiante sfarzo danese è prepotente. Susanne Bier trasferisce la scena e l’azione attraverso l’ottica spaesata del protagonista, che immediatamente viene calato in un alloggio modernissimo, zeppo di accessori inutili, simboli istantanei del contrasto con la semplicità della sua vita quotidiana in Asia.