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Poesie d’Osteria

A Luca, Marco, Paolo, Roberto e me.

Il rosso sfumato dal tempo diviene flebile arancio.

Rivestimenti in tela beige e un motore d’acciaio.

Il Visa si piega e i Cinque con lei,

scimmiottando fra le anse d’asfalto.

I Cinque trasudano vita ed ebbrezza,

e stendono al sole sogni freschi d’aurora.

Una birra ghiacciata disegna un tragitto incerto e malmesso.

Suoni d’antica partitura e grida di giubilo e idiozia

 si espandono fuori dall’auditorium a quattro ruote.

Eroiche e definitive sterzate al limitare di un tempo distratto.

Il tempo dolce e rarefatto del Visa.

Fra le sue cosce strette e sicure

trovarono posto

un prigioniero politico francese

un terrorista irlandese beone e cazzuto

un borgataro romano biondo e imparruccato

un folle spedizioniere dai riccioli neri

un Cristo dai tratti indocinesi.

Varcarono insieme i confini dello stato pontificio,

inseguendo fantasie danzanti, sgangherate compagini e tamburi battenti.

E libri e indumenti e storie gettati in strada

all’incrocio tra spazi intermittenti e indicazioni da decrittare.

E notti di viola e d’argento doppiate in pilota automatico.

E il rumore del Visa in fondo alla via,

una carovana spagnola e furoreggiante da prendere al volo.

E quei momenti che ancora vivono nelle parole e nei ricordi intensi dei Cinque.

Mezz’uomini che forse non sono cresciuti realmente

e vagano tutt’oggi per mete da definire,

in cerca di una locanda trasandata e di un appoggio sicuro

in cui parcheggiare se stessi e una compagna purosangue di nome Visa.