16 gennaio 2012
A Cracovia splende il sole. Io e Francesca camminiamo veloci, animati da una sana e inflessibile voracità, come sempre quando abbiamo poco tempo per vedere più cose. Passi e sottopassi si avvicendano in un percorso ghiacciato e vagamente tetro. Tram azzurri e il blue bus di Morrison sfrecciano fra polacchi affaccendati. Spacci di liquori a ottanta gradi e un negozio di giocattoli spuntano allegri dalla facciate grigie dei palazzoni in successione; un ostello tira l’altro lungo la strada che costeggia la parte centrale della città, che vanta una delle piazze più grandi d’Europa, un’anima blues e un’eccelsa vitalità sotterranea.
Quei locali clandestini in cui ci si accalca, in cui si beve gomito a gomito con il locale tutto, in cui eccellenti e variegate jam sessions musicali si alternano su palchi minuscoli, trasmettono la sensazione di vivere nel passato (Midnight in Krakow), al riparo da una guerra all’arma bianca che fuori impazza e che per contrasto scalda il cuore di chi è dentro.
Ma ecco la stazione, luogo popolato dai polacchi più scontrosi di Polonia, luogo di disinformazione e del “vai per tentativi che prima o poi qualcosa trovi, anche se non voglio sapere cos’è che cerchi”. Scansato l’ostacolo ferroviario, d’un tratto veniamo catapultati in uno strano corridoio di chioschi colorati: sembra d’essere sul posto di confine di un vecchio film di fantascienza, dove persone e merci transitano confusamente, dove t’aspetti di trovare da un momento all’altro un mutante , un cyborg, un lavoro in pelle, o un cacciatore di taglie che controlla i codici a barre di chi passa di lì. L’atmosfera umida e scarsamente illuminata mi ricorda gli esterni di “Blade Runner”, ma con uno sforzo d’immaginazione mi convinco di essere sul Pianeta Tatooine di “Guerre stellari”, ed esattamente nel porto spaziale di Mos Eisley, in cerca dello Ian Solo di turno e di un’astronave che faccia al caso nostro.
Un astro pullman sgangherato e arrugginito pare attenderci in quella stazione fatiscente. Saliamo sul mezzo diretto ad Oswiecim. Il pilota del Millennium Falcon somiglia più a Chewbecca che a Ian Solo: anzichè parlare emana grugniti gutturali, non ride mai, ha un broncio bronzeo e stampato. Ma Ciube è tagliato per il suo mestiere, e trasmette sicurezza ai passeggeri.
Partiamo dunque. I palazzi diminuiscono, cedono prospettiva al mondo naturale, si diradano fino poi a scomparire al cospetto delle distese rurali polacche. Neve ovunque e i vetri irrimediabilmente appannati dall’incuria e dall’escursione termica con l’esterno fanno filtrare immagini dai contorni incerti, figure oniriche, affusolate e concilianti. Un maestoso zuccherificio che pare un mostro precipita sul paesaggio immacolato. Dai brevi spiragli di nitidezza trapelano le deformi sagome di imponenti manieri diroccati sulle cime di aspre colline. Fermate d’autobus improvvisate nel nulla scivolano lungo la pellicola che scorre dinanzi ai nostri sguardi sonnolenti; nello spazio di pochi tornanti il tempo muta inesorabilmente e il sole lascia il palco a un cielo plumbeo e pesantissimo, che in breve scatena una cascata di neve in fiocchi grandi e corposi. Il cielo opprime con la sua densità, quasi fosse un presagio, e più c’inoltriamo e più la neve s’irrobustisce, aumentando in volume e frequenza.
Siamo ad Oswiecim. Scendiamo dal pullman. Fuori, l’atmosfera è irreale, la neve attutisce ogni suono, voce, pensiero; camminiamo sulla faccia bianca ma oscura di una luna ignota. Il campo di Auschwitz è davanti ai nostri occhi adesso, ma non ce ne rendiamo conto per via della fittissima nevicata. Svolgiamo le pratiche d’ingresso. Una graziosa guida polacca, avvolta da un piumino viola e da uno sguardo malinconico, ci attende in fondo alla hall. Le andiamo incontro.