“In time” ipotizza un futuro in cui, per via del sovrappopolamento, il tempo viene monetizzato: a ciascuno è concessa una vita di venticinque anni più un anno extra, dopodiché ognuno deve cavarsela come può, rubando, scambiando, contrabbandando tempo.
Il gene dell’invecchiamento è stato sconfitto, e si rimane giovani per sempre; naturalmente il tempo è la merce più preziosa: ogni cosa si paga in moneta/tempo tramite un dispositivo apposto sul braccio di ciascuno, che indica anche un ossessivo e fluorescente countdown esistenziale.
Il mondo è diviso in due blocchi ben delineati: non c’è una classe media, ci sono i poveri, che allo scadere dei propri giorni corrono e si affannano con ogni mezzo per accattare pochi minuti di vita, e i ricchi, che vivono in un mondo plastificato e si muovono con la lentezza tipica di chi ha tutto il tempo che desidera. Il gioco infatti consiste in ciò: i poveri hanno un tempo limitato proprio perché i ricchi possano vivere praticamente in eterno. Will, il protagonista, vuole spezzare questo equilibrio, annullare l’ingiustizia sociale che concede vite diverse a seconda del budget a disposizione.
L’idea è accattivante, estrema e logorante a livello concettuale, dato che assegna al tempo il valore che per la nostra società ha il denaro: la quantità di tempo richiesto per ogni servizio oscilla come il costo della vita, e così può accadere di non poter salire su un bus vitale per la sopravivenza; gli apparecchi con cui si scala il tempo dagli uomini sembrano i dispositivo per le carte di credito; sul tempo si specula, e c’è una vera e propria borsa del tempo, coi suoi indici e i suoi titoli; ai tavoli da gioco si scommette il proprio tempo fino ad esaurimento; nei posti di lavoro si viene pagati (miseramente) in tempo; guardiani appositi controllano che il tempo non subisca flussi irregolari o repentini e voluminosi scambi di persona, proteggendo così i veri usurpatori dai ladruncoli dei bassifondi.
Andrew Niccol sviluppa un’idea magnifica (si parla peraltro di una denuncia per plagio ad opera dello scrittore Harlan Ellison, che avrebbe persino ritardato l’uscita del film) nel modo sbagliato, “sprecando tempo” in dialoghi poveri di densità e in una serie di inseguimenti fini a se stessi; i protagonisti maschili se la cavano, ma il film non ha la giusta struttura per reggersi sulle proprie gambe: inizia ben presto a scricchiolare, fino a collassare inesorabilmente su se stesso e sulle aspettative di chi gli ha concesso tempo e fiducia.
Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se una storia simile fosse capitata fra le mani di un regista più valido, di un Cristopher Nolan ad esempio: ne sarebbe scaturito un prodotto intenso e affascinante, oscuro e claustrofobico, una sorta di scala a chiocciola verso il basso, anziché un film inutile che richiede tempo senza accordare alcunché allo spettatore.