La guida di cui non ricordo il nome, di cui forse non ho mai saputo il nome, ci fornisce una serie di informazioni generiche in merito al nostro “piano di volo”. Il campo di concentramento era così suddiviso: il campo di prigionia di Auschwitz era il reparto principale, e fungeva anche da sede amministrativa dell’intero complesso; Birkenau era il campo di sterminio in senso proprio; chiudevano il folle cerchio il campo di lavoro di Monowitz e altri 45 sottocampi costruiti durante l’occupazione tedesca in Polonia.
Indi saliamo su un bus navetta. I soliti viaggiatori italiani, che all’estero amano armarsi di banalità, sghignazzano dicendo: “ma dove ci staranno deportando?Ah ah!”. Non so perché, ma in tutta onestà, forse per una forma di idiozia patriottica e solidale, accenno un sorriso. E’ un sorriso muto, che non si sente e si vede appena, ma c’è, e non posso negarlo adesso, limitandomi a catechizzare un comportamento ingenuo che con quel tenue gesto del viso ho –in un certo senso- appoggiato e condiviso. Comunque, mentre vi parlo di tal fatterello in questione siamo arrivati.
Scendiamo. Birkenau, campo di sterminio. Una scala stretta e consunta ci conduce alla torretta d’ingresso: dall’alto della postazione di vedetta prendiamo visione della vastità della struttura: non si può evitare di pensare che quello è lo stesso punto di vista da cui alcuni vili e cinici nazisti osservarono compiersi “la soluzione finale del problema ebraico”; non si può fare a meno di pensare di essere nello stesso luogo in cui, decine di anni prima, uomini come me, uomini come tutti noi, controllarono in tempo reale, coi propri occhi e la propria coscienza, che lo sterminio di milioni di persone inermi avvenisse senza intoppi di sorta.

Furibonde recinzioni in filo spinato corrono e s’intersecano sotto di noi per centinaia di metri e in ogni direzione. In mezzo alla neve compatta s’intravede la corsa di alcuni binari più o meno paralleli: quelle rotaie terminano nello stesso punto in cui cessarono per sempre le speranze e i sogni di una moltitudine di persone. Lo spettrale panorama propone poi una serie di edifici rossastri in successione, più o meno conservati, più o meno fatiscenti, a costellare come macchie scure la distesa bianca di Birkenau.
Entriamo nel campo, e la guida assume un contegno rispettoso e un tono sommesso, nonostante la rilevante distanza fra noi e le numerose comitive che si muovono in quello spazio sconfinato. Una serie di pannelli e fotografie interrompe di tanto in tanto un tragitto silenzioso. Più ci si inoltra nel campo, e più si avverte il peso imponderabile dell’orrore: soltanto i respiri affannati delle persone e la voce appena accennata della guida scandiscono un cammino doloroso.

La gentile signorina ci mostra un vagone originale dell’epoca, ed è subito chiaro il motivo dei decessi che avvenivano durante la deportazione: quei vagoni non erano che gigantesche stie prive di spiragli, adibite al trasporto di carne da macello. Per assurdo, ho immaginato che fosse quasi un sollievo morire lungo il tragitto, così da scampare all’orrore che attendeva i deportati.
Ma ecco, mi distraggo un attimo e non mi accorgo che siamo sul punto esatto in cui i prigionieri toccarono uno dietro l’altro il suolo di Birkenau. Proprio qui, la gente, gente vera, scendeva, subendo dopo pochi passi le prime drammatiche cernite. Anziani e malati erano inconsapevolmente in possesso di biglietti di sola andata per la gassificazione. I nazisti usavano separare immediatamente le madri dai figli, per terrorizzare i nuovi arrivati. “A quale madre piacerebbe separarsi dai propri figli, soprattutto in un posto così? Io penzo…nessuna”- sottolinea la nostra guida, e la parola “nessuna” , che chiude la sua frase, risuona come se avesse chiuso a tripla mandata una porta blindata, quasi fosse il portone di una certezza così massiccia da attraversare il tempo dagli anni 40 alla sua coscienza, e dalla sua coscienza alla mia, come sedimenti trasportati dal corso fluttuante della memoria.

Ma torniamo a noi. Le camere a gas furono la prima e l’ultima tappa polacca per molti deportati. Vecchi e malati –dicevamo- ma anche donne e bambini, a seconda dell’umore delle isteriche SS naziste. E sembra persino che quanti sopravvivevano a questo “passaggio” preliminare finissero poi col rimpiangere di non aver subito la stessa sorte istantanea, così da evitare le disumane atrocità che rivivranno nel prossimo passo di questa triste cronaca.