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Lucio Dalla mi ha dato modo di ricordare che sono cresciuto sulle note e le parole delle sue canzoni. Mi ha ricordato un lungo viaggio fatto idealmente insieme a lui e realmente con la mia famiglia. Erano i primi anni ottanta quando mio padre, mia madre, mia sorella ed io partimmo alla volta di Amsterdam, a bordo di una sgangherata ma affidabile Nissan Sanny 140 y color rosso vino.

 Ho dei ricordi abbastanza confusi e sconnessi, ma rammento le grandi e desolate autostrade tedesche in cui le Porsche di Stoccarda ci sorpassavano a velocità supersonica; lungo quelle highways fatiscenti mi divertii a contare le macchine che riuscivo a contare, segnandole su un block notes apposito: l’obiettivo era di annotare marca e colore; lo facevo sempre nei vari viaggi compiuti in Italia con mio padre, ma all’estero fu molto più difficile, a causa dei modelli diversi che mi capitò di vedere e che complicarono non poco le mie indagini statistiche. Comprendo bene che questa bizzarra attività possa ricondurre al Raymond Babbitt di “Rain man”, ma così era, e così mi piaceva trascorrere il tempo dei tragitti automobilistici più consistenti.

Ricordo poche cose anche di Amsterdam: la prima è un volo improvviso di uccelli neri cui corrispose una reazione di paura mista a stupore; la seconda riguarda un tizio che da tergo ci propose di comprare ogni tipo di droga; la due/bis la fuga che improvvisammo in seguito a tal iniziativa commerciale; la terza concerne la sensazione di decadente squallore che la città e alcuni suoi abitanti malconci mi trasmisero; la quarta una puttana che mi guardò, facendomi strani gesti con la mano destra dalla vetrina in cui lavorava; la quattro/bis mia madre che subito dopo l’indecente proposta mi trascinò via pregandomi di non guardare; la quinta un fantastico negozio di dischi in cui comprammo la musicassetta “Like a virgin” di Madonna e un mangianastri modernissimo (per l’epoca).

Credo infatti che nel viaggio di andata si fosse guastata l’autoradio antidiluviana della Nissan, e così mio padre e mia madre provvidero a dotarci di una colonna sonora improvvisata per il tragitto di ritorno. Quando venne il momento di ripartire alla volta dell’Italia, piazzammo lo stereo in prossimità del lunotto posteriore, e mentre mia sorella dormiva o giocava ai suoi giochi di bambina, io intrapresi la mia breve carriera di disc jockey.

Non ebbi grande scelta: c’era questa cassetta nera e nuovissima di Madonna (c’era soprattutto una fantastica copertina che la vedeva ritratta con una specie di corpetto bianco e aderentissimo), “True blue”, un altro splendido album della cantante italo-americana, e un doppio album di un certo Lucio Dalla, intitolato “Dallamericaruso”: ricordo come fosse ieri queste due cassette bianche, ricoperte da un’etichetta fra l’arancione e il rosso, col marchio della RCA ben visibile.

Iniziai naturalmente da “Like a virgin” che per me rappresentava una novità nonostante fosse antecedente a “True blue”; dopodiché cominciai ad ascoltare con attenzione e interesse Dalla, che normalmente mi annoiava, forse perché mio padre –a casa- lo sparava a tutto volume ogni domenica: il fatto di metter su quella cassetta con le mie mani fu il primo passo di un cammino che mi condusse ad amare quel cantante un po’ matto ed eccessivo ma vero, talmente vero da riprodurre in musica il verso della strada e delle persone che la popolano, senza censurarne mai gli aspetti più sgradevoli o sconvenienti, fregandosene di una certa estetica buonista e delle maschere che la società impone.

Lucio Dalla mi ricorda la parte più esaltante della mia infanzia, mi ricorda gli odori e i sapori di viaggi e tinelli, le follie e le risate di una famiglia di matti e di artisti, in cui la sua voce si è calata alla perfezione, accompagnando inconsapevolmente le strambe e intense dinamiche di una vita che è un film intitolato “Big Fish”.