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Archivi Mensili: settembre 2012

Compenetrante Simbiosi Nordica

29 sabato Set 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Prima del volo

Il Precipizio

Ho visto un film di recente, “Il grande nord” del regista e avventurista francese Nicolas Vanier. E’ una sorta di documentario, una forma ibrida di cinema, a metà fra fiction e realtà. L’opera narra la storia vera di Norman Winther e della sua compagna Nebaska, un’indiana Nahanni: la coppia vive nello Yukon, una terra immersa nella natura selvaggia al confine fra Canada e Alaska. Norman è uno degli ultimi cacciatori in senso proprio, e interpreta se stesso, mostrando le meraviglie e le asprezze di una vita che sembra fuori dal tempo. E’ affascinante ed educativo  osservare due esseri umani in un contesto simile: il fuoco, la legna, il gelo, una capanna, due cavalli, una muta di cani, le continue perlustrazioni del territorio, la pace di lande lontanissime e incontaminate.

Il protagonista racconta se stesso, e nel descrivere il suo rapporto con l’ambiente utilizza un termine, un verbo, “compenetrarsi”, che mi ha colpito interiormente, attecchendo nelle profondità del mio essere d’osteria, fino a tambureggiare suoni primitivi che riecheggiano e mordono l’approccio inconscio delle mie riflessioni d’alba: si è rivelato come un verbo nuovo, rivoluzionario, tanto è antico e radicato nella memoria  collettiva dell’uomo inteso finalmente come specie animale.

La compenetrante simbiosi prosegue ne Il Precipizio

Arcobaleno turco sulle lande dei Basotho

24 lunedì Set 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

 

Narra una strana storia che, alcuni anni or sono, due inseparabili amiche si trovassero ad Istanbul.  Pare che la Cacciatrice di taglie e Donna Maya vagassero tra le vie di un mercato turco, accecate dai sapori variopinti e dal caos di quel crocevia di spezie.

D’un tratto un refolo improvviso catturò l’attenzione della Cacciatrice, come un solletico, un pizzico, o il sentore di uno starnuto; la giovane donna seguì la brezza con lo sguardo, e quando questa si posò fra le sottili maglie di un banchetto policromo, intravide il luccichio di un foulard dispettoso: il fazzoletto dapprima oscillò con gesto di sfida, e poi sgusciò via, sull’invisibile scia dello zefiro, fra le mani e sul collo dell’ignara fanciulla.

Quell’alchimia di colori, quell’impalpabile velo dell’est, adornò il collo della ragazza negli anni a seguire, destreggiandosi con disinvolta levità fra la borsa di turno e la pelle delicata della Cacciatrice.

Le tinte del rosa, dell’arancio, del violetto, e l’allusione intermittente di filigrane dorate illuminarono il viso di lei e del suo futuro compagno di viaggio al sibilare del vento.

L’Atlantico, Lisbona e Cadiz, Granada e l’Andalusia, Las Alpujarras e la Isla del Viento, il monte Ida e i saliscendi cretesi, le dolomiti e la dorsale appenninica, il Pacifico, San Francisco ed L.A., Las Vegas e la Death Valley, l’infuocato Arizona, le bianche sabbie del New Mexico, Big Fish e lo Utah tutto, l’arcigno Colorado, i canyon profondi e le sconfinate pianure, il tufo e il verde di Scozia, il Paklenica e le sue derive allucinatorie, Pag e le sue disinibite sorelle, i venti gradi sotto lo zero del meridione polacco, e infine il bushveld africano e le sue praterie, l’arida savana, lo Swaziland e il calore della sua gente, l’oceano indiano e la Elephant Coast, fino alle aspre e selvagge alture del Lesotho, dove l’anziana e lo sciamano di una tribù di Basotho stregarono l’oste e la sua compagna con una pozione segreta. 

L’oste bevve l’intruglio che la vecchina gli porse, bevve senza pensare, e nella trance ipnotica la sciarpa volò via, fra rami spogli e fiori rosa, fra vacche marchiate a fuoco e piedi nudi di bambini che tuttora giocano e danzano col velo liso e sforacchiato di quell’oggetto prezioso.

L’amato fazzoletto adesso colora e ritaglia i visi di bimbi che sembrano un sogno, mentre le luci del tramonto si posano distrattamente sulle capanne di quella valle dimenticata. All’oste e alla cacciatrice non sembra vero d’esser stati lì, tanto quel giorno appartiene alla dimensione onirica, ma quella sciarpa vagabonda, così cara ai due, è rimasta in quella terra, forse per sua scelta, e lì si ferma, a raccontare il loro passaggio, la loro presenza, come un filamento ribelle e sfibrato della memoria.

Womb

20 giovedì Set 2012

Posted by osteriacinematografo in film

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Scene da ricordare
Eva Green e Matt Smith in una scena del film del regista ungherese Benedek Fliegauf

 

Womb

20 giovedì Set 2012

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

 

“Womb” è il primo lungometraggio in lingua inglese di Benedek Fliegauf, un giovane e talentuoso regista magiaro che ha scelto di trattare il tema della clonazione non dal punto di vista prettamente scientifico, ma da quello della sua potenziale applicabilità alla quotidianità, dell’abuso in cui l’uomo potrebbe incorrere nel caso di libera fruibilità di un simile strumento, e delle conseguenze che potrebbero derivarne.

Il film narra la storia di due ragazzini che s’incontrano per caso in riva al Mare del Nord. Tommy e Rebecca si piacciono nel modo in cui capita ai bambini,e creano d’impulso una sinergia fatta di idee e osservazioni comuni,di giorni trascorsi fra le loro rispettive abitazioni e le spiagge battute dal vento;si scrutano reciprocamente e con garbo,trascorrendo assieme un tempo dolce e intorpidito,nell’armonia di un rapporto autosufficiente che si alimenta con grazia e spontaneità. Ma d’un tratto accade che Rebecca debba partire,costretta a raggiungere la madre al settantaduesimo piano di un palazzone di Tokyo: sono così tanti quei piani nelle fantasie di Tommy,da costituire la reale distanza incolmabile fra lui e la sua giovane amica,quanto e più del Giappone stesso.

Rebecca, prima di partire, s’immerge nell’ultimo bagno caldo a casa del nonno, e quel bagno è una macchina del tempo, perché la bambina di allora riemerge da quella vasca -sotto forma di donna- senza che passi un istante.

 

E così il tempo, che il regista manipola come una fisarmonica, si assottiglia, nonostante siano passati dodici anni, e Rebecca torna, e cerca Tommy, e lo trova quasi senza accorgersene, e subito i due ragazzi si riconoscono, e si sfiorano, e ricominciano la lenta danza del corteggiamento, come se nulla fosse accaduto, come se la prolungata lontananza non fosse altro che un’insulsa e inconsistente parentesi.

E così tutto intorno scompare, e l’ambiente, ostile e squallido a tratti, non esiste, non conta, non c’è al cospetto dell’unione ritrovata dei due amanti.Ma  improvvisamente Tommy muore, travolto da un’auto in corsa. Rebecca sembra impassibile dinanzi al dramma , ma in realtà accarezza un’idea che rasenta la follia, spinta forse dal dolore, forse dal senso di colpa, ma è così ferma e risoluta nel suo proposito di riprodurre l’amore perduto, l’unico amore possibile, da farsi impiantare in grembo il clone di Tommy.

Rebecca partorisce (il cesareo è un indizio più che un dettaglio), allatta e cresce un nuovo Tommy, e ne ripercorre la vita, lo protegge in ogni modo, allontanandolo dalla comunità nel momento in cui trapela il segreto sulla natura del bimbo: la scena si trasferisce così in una cadente e grigia palafitta a due passi dal mare, dove la donna fissa la nuova dimora di una famiglia sui generis, dove i due individui vivono serenamente finchè Tommy diviene adulto e Rebecca non pare più in grado di rispettare il suo status di madre.

 

La vita dei due inizia così a correre su un doppio binario in picchiata, finchè sopraggiunge un’inevitabile e doppia  crisi d’identità, in cui Tommy mostra segnali sempre più evidenti di disorientamento e Rebecca osserva nel dolore e nel silenzio quel ragazzo che cresce e amoreggia con una coetanea, finchè in lei prende corpo una forma ossessiva e impronunciabile di gelosia, fino alla consapevolezza di un amore impossibile, che l’ha spinta forse a sacrificare la vita stessa in luogo di un sogno irrealizzabile, di una ripetizione che va contro il tempo e contro natura, che produce un duplicato di colui che amava, ma non dell’epoca e del contesto in cui il loro amore si era collocato.

I protagonisti smarriscono gradualmente se stessi, fino alla rivelazione che cancella ogni ruolo, ogni identità (“Non so più chi sono io, e non so più chi sei tu”), e l’unica soluzione possibile è la fuga, l’ennesima separazione che ribadisca quanto la morte aveva sancito in passato.

Il linguaggio cinematografico utilizzato da Fliegauf concede poco alle parole e molto all’espressività istintiva e silenziosa degli interpreti, ed  Eva Green, così splendidamente distante dai modelli classici e usuali d’attrice, se la cava in modo egregio, riempiendo ogni angolo dell’opera di sguardi intensi e pregni di significato, tanto da rimanere impressa negli occhi dello spettatore.

“Grazie”- dice infine Edipo a una maliziosa Giocasta, prima di andarsene per sempre, e una luce illumina l’imbrunire, nella fredda e scheletrica sagoma di una catapecchia sul mare.

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