Il Consiglio dell’Oste
“Womb” è il primo lungometraggio in lingua inglese di Benedek Fliegauf, un giovane e talentuoso regista magiaro che ha scelto di trattare il tema della clonazione non dal punto di vista prettamente scientifico, ma da quello della sua potenziale applicabilità alla quotidianità, dell’abuso in cui l’uomo potrebbe incorrere nel caso di libera fruibilità di un simile strumento, e delle conseguenze che potrebbero derivarne.
Il film narra la storia di due ragazzini che s’incontrano per caso in riva al Mare del Nord. Tommy e Rebecca si piacciono nel modo in cui capita ai bambini,e creano d’impulso una sinergia fatta di idee e osservazioni comuni,di giorni trascorsi fra le loro rispettive abitazioni e le spiagge battute dal vento;si scrutano reciprocamente e con garbo,trascorrendo assieme un tempo dolce e intorpidito,nell’armonia di un rapporto autosufficiente che si alimenta con grazia e spontaneità. Ma d’un tratto accade che Rebecca debba partire,costretta a raggiungere la madre al settantaduesimo piano di un palazzone di Tokyo: sono così tanti quei piani nelle fantasie di Tommy,da costituire la reale distanza incolmabile fra lui e la sua giovane amica,quanto e più del Giappone stesso.
Rebecca, prima di partire, s’immerge nell’ultimo bagno caldo a casa del nonno, e quel bagno è una macchina del tempo, perché la bambina di allora riemerge da quella vasca -sotto forma di donna- senza che passi un istante.
E così il tempo, che il regista manipola come una fisarmonica, si assottiglia, nonostante siano passati dodici anni, e Rebecca torna, e cerca Tommy, e lo trova quasi senza accorgersene, e subito i due ragazzi si riconoscono, e si sfiorano, e ricominciano la lenta danza del corteggiamento, come se nulla fosse accaduto, come se la prolungata lontananza non fosse altro che un’insulsa e inconsistente parentesi.
E così tutto intorno scompare, e l’ambiente, ostile e squallido a tratti, non esiste, non conta, non c’è al cospetto dell’unione ritrovata dei due amanti.Ma improvvisamente Tommy muore, travolto da un’auto in corsa. Rebecca sembra impassibile dinanzi al dramma , ma in realtà accarezza un’idea che rasenta la follia, spinta forse dal dolore, forse dal senso di colpa, ma è così ferma e risoluta nel suo proposito di riprodurre l’amore perduto, l’unico amore possibile, da farsi impiantare in grembo il clone di Tommy.
Rebecca partorisce (il cesareo è un indizio più che un dettaglio), allatta e cresce un nuovo Tommy, e ne ripercorre la vita, lo protegge in ogni modo, allontanandolo dalla comunità nel momento in cui trapela il segreto sulla natura del bimbo: la scena si trasferisce così in una cadente e grigia palafitta a due passi dal mare, dove la donna fissa la nuova dimora di una famiglia sui generis, dove i due individui vivono serenamente finchè Tommy diviene adulto e Rebecca non pare più in grado di rispettare il suo status di madre.
La vita dei due inizia così a correre su un doppio binario in picchiata, finchè sopraggiunge un’inevitabile e doppia crisi d’identità, in cui Tommy mostra segnali sempre più evidenti di disorientamento e Rebecca osserva nel dolore e nel silenzio quel ragazzo che cresce e amoreggia con una coetanea, finchè in lei prende corpo una forma ossessiva e impronunciabile di gelosia, fino alla consapevolezza di un amore impossibile, che l’ha spinta forse a sacrificare la vita stessa in luogo di un sogno irrealizzabile, di una ripetizione che va contro il tempo e contro natura, che produce un duplicato di colui che amava, ma non dell’epoca e del contesto in cui il loro amore si era collocato.
I protagonisti smarriscono gradualmente se stessi, fino alla rivelazione che cancella ogni ruolo, ogni identità (“Non so più chi sono io, e non so più chi sei tu”), e l’unica soluzione possibile è la fuga, l’ennesima separazione che ribadisca quanto la morte aveva sancito in passato.
Il linguaggio cinematografico utilizzato da Fliegauf concede poco alle parole e molto all’espressività istintiva e silenziosa degli interpreti, ed Eva Green, così splendidamente distante dai modelli classici e usuali d’attrice, se la cava in modo egregio, riempiendo ogni angolo dell’opera di sguardi intensi e pregni di significato, tanto da rimanere impressa negli occhi dello spettatore.
“Grazie”- dice infine Edipo a una maliziosa Giocasta, prima di andarsene per sempre, e una luce illumina l’imbrunire, nella fredda e scheletrica sagoma di una catapecchia sul mare.



