Un’estate da giganti
12 lunedì Nov 2012
Posted in film
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“Un’estate da giganti” è il secondo lavoro dietro la macchina da presa, dopo “Eldorado”, di Philippe “Bouli” Lanners, artista belga versatile e originale.
Il film narra la storia di Zak e Seth, due fratelli di tredici e quindici anni, e del loro inconsueto ed isolato soggiorno nella casa di campagna del nonno defunto. Annoiati e squattrinati, i due ragazzini trascorrono giornate allo sbando, senza una guida che non sia il loro istinto adolescenziale, tanto vitale quanto impreparato alle cose della vita.
Il loro unico contatto familiare è la voce di una madre perennemente lontana, che annuncia e proroga in modo sistematico la propria assenza, nel corso di brevi e rarefatte comunicazioni telefoniche. Zak e Seth conoscono poi Dany,un ragazzino del luogo che vive il loro stesso stato di abbandono,per via di genitori anziani e di un fratello violento e psichicamente instabile.
L’improvvisato terzetto sviluppa così uno spirito di sopravvivenza sui generis, fatto di piccoli espedienti quotidiani, assecondando in modo ingenuo ma democratico le idee più bizzarre di ciascuno dei componenti, compiendo scelte spesso avventate e inadeguate, al cospetto di adulti insulsi, in cui non si può riporre alcuna fiducia: “i grandi” vengono infatti descritti nel film come persone insensibili e indifferenti, prive di etica e scrupoli, di amore e identità, come titolari di esistenze squallide e asettiche, quasi fossero essi stessi il prodotto dell’abbandono.
I tre ragazzini, che sono i giganti della storia, comprendono in fretta di non avere speranze o prospettive nell’incivile squallore degli uomini, dato che sono gli adulti stessi a schiacciarli e ingannarli, a imporgli angherie d’ogni sorta, ad esasperarli, a costringerli all’emarginazione.
I pensieri di Zak, Seth e Dany sono precoci, liquidi, cortisonici, come quando comprendono scientemente di rappresentare una minaccia per l’unica persona che li ha soccorsi e accuditi, una donna che per pochi, immacolati istanti sostituisce ai loro occhi quella figura materna che è così tanto assente nelle loro vite da apparire come una condanna atavica, come un’ineluttabilità ontologica imprescindibile.
I piccoli protagonisti del film decidono quindi di vivere allo stato brado nella natura, di mimetizzarsi nel bosco, di seguire il corso del fiume, di immergersi nel mondo naturale, tanto spietato e imprevedibile quanto per lo meno leale.
L’opera di Lanners è contemplativa e si dipana attraverso ritmi lenti e compassati: il regista indugia a lungo e in senso pittorico sul paesaggio, sui particolari del mondo naturale, in cui i tre giovani trovano la giusta dimensione e la necessaria collocazione. E’ un racconto di rottura più che di formazione, e, come è forte il senso di abbandono e di disperazione dei protagonisti, sono altrettanto rilevanti la forza e la libertà dei tre adolescenti, che scelgono con senno una vita selvaggia e incontaminata, lontana dai dettami e dalle imposizioni di una società irrimediabilmente chiusa e inquinata.
I tre ragazzi non hanno bisogno degli adulti, soprattutto di certi adulti, ma di una zattera e dell’acqua, del fiume e del bosco, che dominano il paesaggio a perdita d’occhio: sul finire dell’opera, Zak, Seth e Dany recidono l’ultimo cordone ombelicale in un gesto definitivo e liberatorio, e la natura li inghiotte, accogliendoli senza celebrazioni o cerimoniali di sorta, quasi a lasciar intendere che sarà lei a crescerli, al di là del bene e del male.