Django unchained
29 martedì Gen 2013
29 martedì Gen 2013
29 martedì Gen 2013
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Una fila di schiavi avanza nella notte degli Stati Uniti del sud. Un calesse incrocia il cammino dei negrieri e del loro carico. Un dente giganteggia sulla copertura del buffo barroccio. Alla guida del mezzo si trova King Schultz, uno stravagante dottore di origini tedesche che mostra modi affettati ed espressioni forbite. L’uomo cerca uno schiavo con l’intenzione di acquistarlo. Il nome dello schiavo è Django.
La trattativa parte col piede sbagliato, e la quiete delle notte viene rotta dal frastuono delle armi da fuoco: il dottore rivela una natura insospettabile e l’abilità di un cowboy. Nello spazio di un istante gli aguzzini sono a terra, esanimi, e gli schiavi liberi.
King Schultz è in realtà un cacciatore di taglie in cerca di tre fratelli di cui ignora i connotati fisici. Django li conosce per averne assaggiato la frusta, e aiuterà l’arguto ed elegante tedesco nell’identificarli e poi ucciderli. Django dimostra un certo talento nella caccia all’uomo, tanto che il dottore gli propone di divenire soci per l’inverno; in cambio King Schultz libererà definitivamente Django e lo aiuterà nella ricerca della moglie Broomhilda, venduta chissà dove come schiava.
Corre l’anno 1858, e la storia americana avanza a grandi passi verso la guerra civile. In tale contesto, in un’epoca in cui lo schiavismo imperversa, in cui la violenza dilaga e i neri sono trattati alla stregua di bestie e sfruttati a qualsiasi scopo, si sviluppa la storia di “Django Unchained”.
Il film è suddiviso in due capitoli ben distinti: nel primo – che definirei di formazione- assistiamo alla spassosa e spettacolare conoscenza fra Django e King Schultz, e al consolidarsi di un sodalizio “on the road” assai inusuale.
Nel secondo capitolo, la scena si sposta a Candyland, un’immensa piantagione in cui le persone di colore sono sottoposte a condizioni di vita subumana e all’umore di Calvin Candie, il sadico proprietario che gode nel far scannare fra loro i mandinghi.
Qui –dopo una sorta di rallentamento ideo-motorio della narrazione- avrà luogo la vendetta di Django.
21 lunedì Gen 2013
21 lunedì Gen 2013
Posted in film
Nuovo Sfizioso Spazio d’Osteria
“Le nostre vite e le nostre scelte, come le traiettorie dei quanti, sono comprese momento per momento; a ogni punto d’intersezione, ogni incontro suggerisce una nuova potenziale direzione. .Ieri la mia vita andava in una direzione, oggi va in un’altra”. Il concetto di Isaac Sachs –uno dei personaggi di “Cloud atlas”- rappresenta in modo più calzante di un’immagine il manifesto di presentazione del film.
“Cloud atlas” è il frutto del lavoro congiunto dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer (co-autore anche della colonna sonora del film): i tre registi hanno smontato e rimontato il romanzo omonimo di David Miitchell, realizzando un’opera caleidoscopica capace d’ingenerare infinite strutture parallele e simmetriche nell’arco di cinque secoli di storia umana.
“Cloud atlas” è qualcosa più di un film. E’ un esperimento di proporzioni immani, che si spinge oltre l’universo cinematografico conosciuto, che rifiuta forme e regole convenzionali, e l’idea stessa di seguire linee scontate o prevedibili di realizzazione.
Il film trascende ogni genere o catalogazione, infrange ogni barriera di tipo stilistico, concettuale, narrativo, e si propone di riscrivere il modo di fare cinema secondo canoni rivoluzionari; è una Babele multicolore in cui si dipana ed estrinseca la storia dell’uomo, è un mosaico quadrimensionale i cui tasselli fluttuano alla ricerca della giusta collocazione; è un’esperienza visiva e sensoriale di altissimo livello, che priva di ogni comune certezza percettiva e ribalta il modo di leggere e interpretare gli avvenimenti; è un film sul continuum spazio temporale, è l’acqua, l’oceano, la vita; è la vibrazione prodotta da microscopiche e affilatissime superstringhe; è una sinfonia orchestrata magistralmente, la cui eco si diffonde in ogni direzione, e persino oltre i confini dell’opera, che recapita un messaggio di cui è degna testimone: “Io non sarò mai soggetto a maltrattamenti criminosi”.
Il film è organizzato su vari livelli: c’è un piano superficiale in cui si sviluppano sei storie piuttosto semplici ambientate in epoche lontanissime fra loro; c’è poi un secondo livello narrativo, la meta narrazione che contiene –come uno scrigno magico- il prezioso significato del film, il collante universale che tiene insieme le singole vicende, che in apparenza e di primo acchito sembrano separate, per poi rivelare un legame d’interdipendenza così intenso da divenire esso stesso il fulcro su cui ruota l’intera esistenza.
14 lunedì Gen 2013
Posted in Storie
Senza Nome errò per giorni alla ricerca di un motivo, finchè cadde stremata nella pevera dell’incoscienza e dello smarrimento di sè. La donna si abbandonò a un sonno profondo, narcotizzante, e fece strani sogni, popolati da creature incredibili.
Sognò un tale di nome Dioniso e le donne tebane senza Tebe, sognò il monte Citerone e l’eccidio dei figli di Niobe, sognò della Sfinge e di strani rituali, di un tirso agitato in onore dell’oscuro Signore del bosco, sognò un’eccitazione che montava senza controllo dalla linfa stessa dei viventi, sognò il Caos e la perdita di controllo, sognò le pareti della mente e le porte della percezione, sognò una notte incantata in cui la voce di Dioniso recitava versi in una lingua ignota.
Sognò di un pericolo ai confini della città, di lande deserte e della strada del Re, di miniere d’oro e dei loro segreti, di una diligenza blu, della pelle fredda e vecchia del serpente, della storia dell’uomo dipinta sulle sue squame, sognò di cavalcare il rettile fino al lago antico.
Quando smise di sognare, Senza Nome si ridestò e riprese un cammino irregolare, estraniante. Realtà e allucinazione perdevano via via i loro connotati nello spazio condiviso della follia.
Un giorno, vagando lungo i confini sognati del regno, la donna si imbattè in una strano individuo, un serpente antropomorfo dalle capacità senzienti. “Ciao” – disse il serpente alla donna- “Sono il figlio di Cecrope. Il mio nome è Kaa per la parte rettile, e Morpheus per quella umana. Ma tutti nei paraggi mi chiamano Re Lucertola. Qual è il tuo nome?” “Il mio nome è Senza Nome” –rispose la donna- “è un piacere fare la tua conoscenza”.
07 lunedì Gen 2013
Diapositive
Una scena di “The angels’ share” di Ken Loach
07 lunedì Gen 2013
Posted in film
La porzione degli angeli corrisponde alla percentuale di evaporazione nel processo di maturazione del whisky. Ma l’elemento volatile del pregiato distillato non si disperde realmente: tutti reclamano la propria parte, e persino le creature celesti esigono la loro. Il maestro Ken Loach, nel suo ultimo lavoro, prende spunto da questa leggenda per raccontare una storia di emarginazione e speranza ambientata in Scozia.
L’incipit del film si svolge davanti a un giudice: al suo cospetto si alternano -come in un mosaico in movimento- le storie di delinquenza di alcuni ragazzi di Glasgow; tutti vivono allo sbando e ai margini della società, chi per un motivo, chi per l’altro: l’introduzione dei personaggi è divertente e originale, e si rivela un modo perfetto per anticiparne le personalità.
A Robbie, un teppista dedito alla violenza quotidiana, viene concesso di scontare la pena effettuando lavori socialmente utili, grazie all’attenuante di una compagna incinta; per vari motivi, seguono la stessa sorte altri tre ragazzi, Albert, Mo e Rhino, che con lui andranno a comporre l’allegro e strampalato quartetto che costituisce il fulcro delle vicende narrate nel film.
Robbie sembra geneticamente destinato alla violenza da un’infanzia trascorsa in riformatorio e da una famiglia di delinquenti che gli ha lasciato in eredità l’eterno conflitto con la stirpe avversa. Lo schema sembra doversi ripetere necessariamente e senza soluzione di continuità, come un disco rotto, come una litania autodistruttiva e inevitabile,come il prodotto di una forma primitiva d’onore da difendere a costi altissimi. In situazioni simili occorre una forza speciale per rompere un canovaccio scritto da altri, per uscire da una quotidianità che assume le sembianze di un tritacarne invisibile.
Occorrono dei motivi validi e una buona guida per ristabilire un livello minimo di fiducia nel rapporto con se stessi, per fare in modo che la mente cognitiva abbia la meglio su quella arcaica. Nel film, la figura “paterna” è rappresentata da Harry, un assistente sociale che si occupa di monitorare e reinserire in qualche modo i “reietti”nella collettività. Harry non si limiterà ai suoi compiti di supervisore: dopo aver procurato un’occupazione provvisoria a Robbie e ai suoi colleghi di malaffare, farà molto di più, fornendo loro il proprio supporto umano e solidale.
02 mercoledì Gen 2013
Premessa
Il titolo di questo breve articolo è un titolo inventato, un titolo d’osteria. Non so se la D.ssa Levi-Montalcini fosse avvezza a indossare gingilli simili, ma non è un fatto determinante in questa sede. Le perle rappresentano infatti le sfavillanti gemme che la celebre scienziata torinese ha lasciato in eredità alle donne e agli uomini che ne sapranno cogliere l’essenza. In questi giorni mi è capitato di rileggere alcuni brani tratti dalle sue dichiarazioni d’ogni tempo, ed è stata un’esperienza illuminante, che mi ha indotto a raccogliere le perle di Rita Levi-Montalcini in una collana di mio gradimento.
Sono una persona adulta, ma ancora più prossima e aderente alla gioventù che alla vecchiaia, sia per un dato di fatto meramente anagrafico sia per motivi che riguardano il contesto sociale in cui vivo e sono cresciuto, fin troppo propenso a far maturare tardivamente i suoi prodotti tipici. Eppure, dopo aver letto con attenzione e cura le parole di Rita Levi-Montalcini, comprendo di essere molto più avvinto e affascinato dal suo pensiero che non da quello delle generazioni più vicine alla mia.
Il suo è un messaggio carico di preoccupazioni, di perplessità, ma anche di speranza e positività, di significati protesi a trasmettere ai giovani il suo desiderio di conoscenza, la sua ingordigia intellettuale, un messaggio che sia monito e stimolo al tempo stesso, un invito a non temere nulla , a pensare con la propria testa, a diffidare del mare di superficialità che la modernità propina a iosa ai suoi adepti, un invito all’altruismo e alla solidarietà, all’abbandono d’ogni forma d’individualismo.
Per molti versi vedo il mondo come lei lo vedeva, lo sento come lei lo sentiva: semplicemente, e senza alcuna presunzione, condivido molti suoi punti di vista.
Queste mie righe sono quindi un atto di doveroso rispetto in memoria di una mente eccelsa e lungimirante.Sono stato sempre curioso e bramoso di leggere, capire, vedere, conoscere, vivere. Le sue parole incentivano i miei desideri in misura illimitata. E credo di aver capito che ne sarebbe felice, se solo potesse.
Va ora in scena un assaggio della Libera Raccolta d’Osteria, intitolata “Collana di Perle di Rita Levi-Montalcini”:
-“Credo di avere una curiosa immaginazione che mi permette di vedere quello che altri ignorano.”
-“Le mie simpatie vanno a quelli dotati di una profonda e acuta sensibilità, a quelli che sanno dimenticarsi completamente nella contemplazione dell’universo e/o dedizione agli altri e a quelli non “senza incrinature”, ma che fanno errori e sono vulnerabili… Non è l’assenza di difetti che conta, ma la passione, la generosità, la comprensione e simpatia del prossimo e l’accettazione di noi stessi.”
-“Dovremmo abolire nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone.”
-“Oggi, rispetto a ieri, i giovani usufruiscono di una straordinaria ampiezza di informazioni; il prezzo è l’effetto ipnotico esercitato dagli schermi televisivi che li disabituano a ragionare, oltre a derubarli del tempo da dedicare allo studio, allo sport e ai giochi che stimolano la loro capacità creativa. Creano per loro una realtà definita che inibisce la loro capacità di “inventare il mondo” e distrugge il fascino dell’ignoto.”
-“A vent’anni volevo andare in Africa per curare la lebbra. Ci sono andata da vecchia, ma per curare l’analfabetismo, che è molto più grave della lebbra.”
-“Il cervello arcaico ha salvato l’australopiteco, ma porterà l’homo sapiens all’estinzione. La scienza ha messo in mano all’uomo potenti armi di distruzione. La fine è già alla portata.”
-“A cento anni ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo, io sono la mente.”