Non sono un amante del mare, per lo meno del mare visto e vissuto dalla spiaggia, delle vicissitudini spesso statiche e monotone cui la spiaggia induce.
La dolce e basculante mollezza, la reiterata orizzontalità, l’ozio annebbiato di blandi momenti sovrapposti mi danno spesso l’idea di non vivere realmente, di essere sempre in attesa di qualcosa o di qualcuno che non arriverà mai: in tale inerzia leggo il pericolo di attendere tanto a lungo che nello spazio infinitesimale di un breve intervallo si possa compiere la vita stessa, di ritrovarmi lì a osservarla, la vita, senza la consapevolezza di averla vissuta. Una lenta traversata senza scalo.
Eppure la spiaggia, vissuta sotto lo scudo tutelare di un ombrellone, è l’ambiente ideale per perdersi piacevolmente nelle letture più varie, per lo meno in quei giorni in cui il respiro del mare non sia filtrato da schiere di donne e di uomini in rosolatura libera. Le pagine scorrono via e cancellano tutto il resto intorno, la mente vaga dietro l’idea che un altro uomo sembra aver creato ad hoc per quegli istanti, e la sabbia dorata e il frangersi delle onde irraggiano le parole di una luce calda e seducente.
La lettura si tramuta in traslazione.
E così al mare sono spesso rapito dalle parole che un mio simile, sospinto dal desiderio e dall’amore folle d’inventare, ha creato per me. Si, perché la lettura sovente regala l’illusione che certi personaggi stiano lì per te, vivano per te, e così una storia si tramanda, assieme alla sacra scintilla che ha consentito a un autore di forgiare dal nulla un tessuto di vite parallele, con la forza dell’immaginazione e la potenza del linguaggio e delle idee che sgorgano incessantemente dalla fantasia umana.
Quel tessuto diviene –per così dire- “organico”.
Ma c’è una fase del primo pomeriggio in cui la spiaggia regala una piccola magia: il momento in cui ci si abbandona al dormiveglia. Quando si inizia a perdere coscienza e a vagare nei territori dell’indeterminatezza, si possono verificare le condizioni ideali per compiere un piccolo viaggio sensoriale. In quelle ore rimangono poche persone in spiaggia, e spesso un lieve venticello soffia e scappa in ogni direzione, con il mare a lamentarsi e a mormorare in sottofondo, con una cadenza tanto regolare da divenire ipnotica.
In quella fase -di norma- i superstiti si abbandonano al sonno o alla conversazione, alla lettura o al semplice relax. Ma quando ci si lascia andare alla cantilena dei flutti e alla leggerezza ammaliante del mare, le voci degli individui tendono a sovrapporsi in modo soffuso e casuale, e le conversazioni che giungono all’orecchio del “dormiente” mutano a seconda di come incrociano il vento, che trasporta voci in successione libera lungo invisibili corridoi aerei.
Si crea così una sorta di mosaico che induce l’ascoltatore a un piacere che accosterei al solletico: non si coglie il senso di alcuna discussione, ma i tanti puntini che tempestano l’apparato uditivo creano un insieme rassicurante, che muta al minimo mutare del vento e della propria posizione.
Frammenti d’estasi in dormiveglia.
E così una voce di donna, un bisbiglio, le risate di un gruppo di ragazzi, il pianto di un bimbo si mescolano e rimescolano in un cocktail di suoni, dialetti, espressioni che rilassa e culla chi pisola, lasciandolo a mezz’aria fra il sonno e la veglia, nel non-luogo in cui tutto risulta ambiguo e sfocato, là dove s’è posata l’idea di scrivere queste parole, che spiegano la sensazione che ho provato all’incrocio fra il vento, la sabbia e il mare.





