L’Atlante delle Nuvole
“Stay” è un sogno struggente al confine fra la vita e la morte.
Nel rapido e turbolento incipit del film un’automobile si ribalta ripetutamente fra le mille luci di una notte newyorkese: la camera stacca e si posa sul volto disorientato di un ragazzo, seduto in terra nei pressi dell’incidente.
Ritroviamo Henry Letham alla luce del giorno, in cerca della sua psichiatra; non trova lei, ma il Dr. Sam Foster (Ewan McGregor), che sostituisce temporaneamente la collega. Henry -studente di storia dell’arte- soffre di allucinazioni e di un senso di colpa per la morte dei genitori, profondo a tal punto da divenire mania di persecuzione; il ragazzo, pallido e fuori fase, dichiara allo psichiatra l’intenzione di togliersi la vita entro pochi giorni, in corrispondenza del suo ventunesimo compleanno.
Foster si interessa alla drammatica vicenda di Henry, da un lato perché ha vissuto in prima persona un’esperienza simile con la propria compagna Lila (Naomi Watts), salvata in passato da un tentativo di suicidio; dall’altro perché subisce il fascino delle visioni di quel ragazzo smarrito, che hanno il sapore del déjà vu e sembrano avere un fondamento reale, al punto che lo psichiatra stesso si trova ben presto coinvolto nella dimensione distorta della mente dello studente.
Su tali presupposti si sviluppa un convulso tourbillon d’immagini e una sorta d’inseguimento fisico e psicologico fra Foster e Letham, lungo la via della follia e di uno sdoppiamento di personalità che dissipa ogni certezza fino all’epilogo rivelatore, che illumina in chiave tragica la narrazione.
Il regista tedesco Marc Forster , sulla base di un soggetto di David Benioff, versatile ed illuminato sceneggiatore americano, realizza un’opera d’arte complessa e originale, grazie alla sua sensibilità e a una maniacale attenzione ai particolari, a un cast e a un team di collaboratori di prim’ordine: le prove sublimi di Gosling (su tutti), McGregor, Watts; la fotografia cupa e angosciante di Roberto Schaefer; il montaggio tumultuoso e incalzante di Matt Chesse; le scenografie opprimenti e mutevoli di Kevin Thompson e gli effetti speciali (il morphing in particolare) di Bero e Caban: ognuno di questi elementi contribuisce alla fluidità del film e delle immagini, che si trasformano e assumono via via forme sempre nuove e diverse, privando lo spettatore di qualsiasi angolazione interpretativa plausibile.



