A volte capita di leggere libri per mesi senza che nulla balzi particolarmente all’occhio, senza che nulla richiami la nostra attenzione sì da superare la consistenza d’un battito d’ali. In tali periodi capita sovente di leggere molto, di alternare le letture più svariate, di perdersi nelle storie più assurde. Il significato di queste opere si realizza nella loro compiutezza, allorquando l’ultima pagina ne sancisca l’epilogo.
In quest’ultimo anno, senza che ne avessi intenzione, sono andato a lungo per mare, solcando tutti gli oceani alla ricerca di avventure, amori, pesci giganti, solitudine, verità, Sé. Un oceano letterario.
Nel sovrapporsi delle vicende, sono però finito nei boschi di Walden, assieme a Henry D. Thoreau, l’uomo che vi fissa in modo assiduo e penetrante, qui alla vostra sinistra. Ho pressoché terminato la sua “Vita nei boschi”, per quanto conservi l’ultima parte per ovviare a un distacco insopportabile. Ma c’è un capitolo di “Walden”, intitolato “Dove vivevo e perché”, di cui non posso liberarmi.
In particolare, le quattro pagine conclusive di quel dannatissimo capitolo sembrano contenere tutta le risposte di cui un uomo possa necessitare, tanto da non lasciare scampo, tanto da creare dubbio e scompiglio, tanto da risvegliare il dormiente anche nei momenti di perfetta veglia.
Ne riporto qui alcuni passi, nella speranza che chiunque legga queste righe con cura sviluppi il profondo desiderio di accostarsi alle rive del lago di Walden, al limitare del bosco e di una Verità mai così vicina.
“La falsità e l’inganno vengono creduti le verità più sincere, mentre la realtà effettiva è presa per falsa. Se gli uomini osservassero continuamente solo la realtà e non si lasciassero ingannare, la vita sarebbe simile a un racconto di fate, agli intrattenimenti delle Mille e Una Notte”.
“Chiudendo gli occhi e sonnecchiando e lasciandoci ingannare dalle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano dovunque la loro vita quotidiana di routine e abitudine, che è tuttora fondata su basi puramente illusorie“.
“Gli uomini credono che la verità sia remota, ai confini del sistema solare, dopo la stella più lontana, prima di Adamo e dopo l’ultimo uomo. Nell’eternità c’è effettivamente qualche cosa di vero e sublime. Ma tutti questi tempi, luoghi e condizioni, esistono ora equi. Dio stesso culmina nel momento presente, e non sarà mai più divino, nel corso di tutti i secoli”.
“Morte o vita che sia, desideriamo soltanto la realtà.
Se davvero stiamo morendo, udiamoci il rantolo nella gola e sentiamo il gelo alle estremità;
se invece siamo vivi, diamoci da fare.
Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca.
Vi bevo; ma mentre bevo ne scorgo il fondo sabbioso e vedo come sia poco profondo.
La sua corrente sottile scorre via, ma l’eternità resta.
Vorrei bere profondamente, e pescare nel cielo, il cui fondo è ciottolato di stelle. Non posso contarne nessuna.
Ignoro la prima lettera dell’alfabeto.
Ho sempre rimpianto di non essere saggio come il giorno che venni alla luce.
L’intelletto è un fenditore, esso discerne e scava la sua via nel segreto delle cose.
Io non desidero lavorare con le mani più del necessario.
La mia testa è mani e piedi. Sento che tutte le mie migliori facoltà vi sono concentrate.
L’istinto mi dice che la testa è un organo di escavazione, come per alcune creature il muso e le zampe,
e con essa vorrei scavare la mia strada tra queste colline.
Penso che la più ricca vena sia in qualche luogo qua attorno;
così io giudico per mezzo della bacchetta fatata e dei leggeri vapori che sorgono;
e comincerò a scavare proprio qui”.
