“Via dalla pazza folla” non sembra un film di Thomas Vinterberg, per quanto l’evidenza delle cose non sia fatto opinabile. L’autore di grandi opere quali “Festen”, “Riunione di famiglia, “Il sospetto”, un così fine indagatore della psiche umana e delle sue storture, realizza una collezione di clichè senza pari, un trionfo di scontatezze a tal punto disarmante da condurre alla resa anche i più fervidi sostenitori del regista danese. Perchè riesumare il romanzo di Thomas Hardy per questa scialba trasposizione cinematografica? Perchè questo remake inutile? Cosa c’è di interessante in questo intreccio amoroso che vede coinvolti una volubile ereditiera, un pastore scoglionato, un ricco zitello fuori di testa e un soldato pazzo? Forse l’ambientazione vittoriana, la splendida campagna inglese, le prove di Sheen e della Mulligan, la fotografia degna di una tale natura, niente altro. Due ore sembrano due giorni, l’elettrocaridogramma dell’opera si mantiene assolutamente piatto, il film è privo di vita e di emozioni, e il finale sfocia in una banalità dai contorni persino comici: il pastore scoglionato incontra per caso l’ereditiera, le comunica con soddisfazione che è entrato nel coro della chiesa, che sta andando alle prove. Poi aggiunge che se ne va, che è lì per dirle addio, che all’alba partirà per l’America. Ma dico io, stai per partire per sempre per un viaggio epico, per cambiare terra e vita, e la sera prima vai alle prove del coro della chiesa? Non mi stupisco che una simile sceneggiatura venga proposta al grande pubblico, ma è sconcertante che sia Vinterberg a utilizzarla per una sua opera. E’ un mistero che può avere queste possibili soluzioni: una precoce e improvvisa demenza del regista; una forma di provocazione o un depistaggio; un incidente di percorso; una vecchia promessa fatta a uno sceneggiatore in crisi mistica. E’ per quest’ultima ipotesi che propendo.
Via dalla pazza folla – Allarme Vinterberg
13 martedì Ott 2015
