Il film “Man on the moon” (1999) di Milos Forman racconta la storia dello showman Andy Kaufman (1949-1984) in modo calzante e poetico.
Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in “Man on the moon”
L’enigma della vita di Kaufman diventa enigma nella regia di Forman, che tiene il film sospeso fra riproduzione della realtà e rappresentazione fittizia come il migliore dei prestigiatori, come Kaufman stesso avrebbe forse desiderato: il gioco di specchi realizzato dal genio di Forman restituisce immagini inafferrabili di Kaufman e dei personaggi che lo affiancarono, tanto che persino la sua morte diventa un fatto opinabile. Un film da non perdere, un personaggio indimenticabile.
“Man on the moon” è un film del 1999 di Milos Forman
Michael Stipe dedicò “Man on the moon” a Kaufman nel 1992, combinando la stima che nutriva verso un artista rivoluzionario e l’annosa polemica sulla teoria del complotto lunare (“Great moon hoax”); Stipe aveva visto in Kaufman un uomo capace di svelare senza paura i trucchi e gli assi nella manica dei “maghi” che dominano i media e l’informazione, e scrisse per lui un brano memorabile, degno di un uomo che ha lasciato il suo segno particolare sulla tabula rasa che scaturisce dall’omologazione.
Consegno quindi alle note di “Man on the moon” il ricordo di un personaggio eccezionale, che ha lasciato precocemente il palco della vita. Ma la sua impronta rimane, e il messaggio che ha lasciato è forte e chiaro, anche a distanza di anni.
Capricorno one (1978) è un film di Peter Hyams
Now, Andy did you hear about this one
Tell me, are you locked in the punch?
Andy are you goofing on Elvis? Hey, baby
Are we losing touch
If you believed they put a man on the moon, man on the moon
If you believe there’s nothing up his sleeve, then nothing is cool
All’inizio degli anni 70 uno stravagante showman di nome Andy Kaufman (1949-1984) riscosse un notevole successo negli Stati Uniti, prima come improvvisatore in brevi apparizioni live e poi come mattatore in televisione.
Andy Kaufman
Andy non era un comico in senso proprio -anzi forse non lo era affatto- ma un artista sui generis e un personaggio indecifrabile, che rivoluzionò il modo di fare spettacolo dell’epoca.
Kaufman spiazzava il pubblico con interpretazioni assurde e prive di senso: agli esordi si presentò sui palcoscenici di piccoli club come uno straniero timido e impacciato proveniente da Caspiar – un’isola affondata nel Mar Caspio- imitando vari personaggi noti con la stessa irritante impostazione vocale, per poi esplodere in imitazioni folgoranti e imprevedibili, come quella di Elvis Presley.
Kaufman, una volta scoperto e lanciato in tv dal noto talent scout George Shapiro, si dimostrò talentuoso ma ingestibile: ebbe il merito di collezionare una serie di performance innovative, ma creò il panico fra autori e produttori.
Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton
Io lo definirei un provocatore nel senso artistico del termine, un prestigiatore in grado di alterare e spiazzare l’occhio di spettatori abituati a una tv convenzionale. Andy Kaufman mirava in effetti a smascherare certi subdoli meccanismi televisivi, finalizzati a mostrare una realtà distorta, intrisa di retorica e falsi buonismi. In un contesto mediatico diretto a compiacere moltitudini di spettatori anestetizzati e a costruire un consenso condiviso in assenza di contraddittorio, Kaufman è la mina vagante che svela l’ipnosi, la variabile impazzita capace di scuotere i dormienti dal torpore.
ti scrivo per dirti che non mi interessa la tua età, non mi interessa che fai, con chi sei o dove vivi, anche se spero che te la passi bene, e che ti godi la vita come meglio puoi. No, qui non c’entra il tempo, il tempo non conta, conti solamente tu, conta quello che rappresenti per me e per una miriade di persone che forse nemmeno ti immagini.
Eri la mia preferita a cinque anni, perchè mi facevi ridere, e lo sei anche adesso che ne ho quaranta, perchè ho potuto capire meglio con chi avevo a che fare. Si, perchè la sensazione è di aver condiviso qualcosa di importante, per quanto hai dato di te al mondo. Sei un’artista straordinaria e una donna vera, che può cavarsela benissimo tra straccioni e poveracci in una bettola di quart’ordine o a un gran galà con la meglio gente. Ti vorrei dire che mi manchi, in senso romantico, ma non posso perchè sei dappertutto, perchè hai prestato il corpo, il viso, la voce e la tua più intima essenza ai sogni di chi, come me, è cresciuto coi tuoi film. Il fatto è questo: sei la più grande di sempre, la mia preferita, e ci tenevo a ringraziarti per la generosità, la classe, la genuinità, la maestria dimostrate negli anni. Rendi onore al cinema e alla vita, alle donne ma anche agli uomini, al punto che il tempo diventa inutile, e non può farci niente, tanto che con te si arrende: e così -come fosse uno di noi- si ferma e ti osserva ridere piangere danzare cantare incarnare tutte le forme e le espressioni umane fino a perdere la cognizione di sè.
“Siamo ogni persona, ogni cosa la cui esistenza ci abbia influenzato o che la nostra esistenza abbia influenzato, siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti” (Almanya).
Antonio Sampaolesi (1909-1990)
Mio nonno Antonio era un personaggio interessante. Perito tecnico e agrario, il Commendator Sampaolesi è stato socio fondatore della Federazione Italiana Coltivatori Diretti e, dopo la guerra, Presidente Nazionale degli agenti di consorzio agrario. Mente ardita e inquieta, fondò la I.M.A. Sampaolesi, industria di macchine agricole all’avanguardia -tuttora operante sotto la direzione di una nuova proprietà. Fu anche sindaco di Ostra Vetere, il comune in cui risiedeva. Io l’ho conosciuto nelle vesti di nonno attento e affettuoso, per quanto fosse sempre indaffarato a leggere e scrivere chissà che cosa, e non ho saputo chi fosse realmente se non dopo la sua morte, avvenuta quando avevo 15 anni. Ho trascorso buona parte della mia infanzia con lui. Uno dei miei primi ricordi in assoluto lo riguarda: nel breve periodo che ho passato all’asilo, lui stava in piedi, immobile, in fondo al giardino che delimitava il Negromanti. Mi osservava senza lasciarmi, e io osservavo lui. I miei coetanei mi interessavano relativamente, e a sprazzi: non potevano reggere il confronto con nonno Antonino. E così combinai ogni tipo di mascalzonata per far capire che non ero tagliato per l’asilo. E riuscii nell’intento di trascorrere tante mattine con nonno, tra una passeggiata e una commissione. Un periodo impresso in modo indelebile nella parte di me in cui riposa la dimensione infantile. Nonno emanava carisma e otteneva il mio rispetto senza bisogno di manifestare alcuna autorità; i suoi baffi odoravano di tabacco, storpiava i nomi delle cose per farmi ridere e mi voleva un bene che sento addosso tuttora, un bene che è arrivato fin qui, un bene ciclico, che saprò rendere a chi di dovere: d’altra parte, per chi -come me, agnostico praticante- crede in una sorta di coscienza unificata, nulla è più importante del fatto che l’acqua di chi lascia continui a scorrere nell’alveo di chi resta. Nonno Antonino è semplicemente evaporato, e parte dell’acqua che si portava appresso l’ha lasciata a me.
Ciao nonno, ti voglio bene e ti penso ogni giorno, da allora.
Negli anni 30 –sul solco tracciato dalla Grande Depressione americana del 1929- gli Stati Uniti sud-orientali furono teatro di una migrazione interna senza pari. Una migrazione imposta dall’azione combinata di banchieri privi di scrupoli e di grandi latifondisti, che sradicarono gradualmente i coloni dai propri territori con inganno, furbizia, violenza e false promesse.
Le tempeste di sabbia che negli stessi anni imperversarono in quei territori (causate peraltro da decenni di agricoltura dissennata) rappresentarono il colpo di grazia per una popolazione già ridotta alla fame. L’esodo verso la California, che rappresentava il miraggio dorato in cui riporre ogni speranza, raggiunse così proporzioni immani.
La fotografa statunitense Dorothea Lange (1895-1965), seguì e documentò l’epopea di alcuni fra i tanti disperati che presero la via della west coast.
“Ed ecco che” -scrisse John Steinbeck- “d’un tratto, nel Kansas e nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell’Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi ed apparire le carovane dei nomadi: ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro”.
Tali migranti vennero denominati “Okies” per via della provenienza dall’Oklahoma della maggior parte di essi. Ma il termine assunse ben presto il significato di “buzzurro” o “cafone” per via della miseria e del degrado in cui i migranti vissero, al loro arrivo nella terra promessa: in effetti erano stipati a centinaia in tendopoli fatiscenti e prive di qualsiasi servizio igienico. Una storia che ne ricorda tante altre, in ogni tempo.
Nel 1928 Duke Ellington (1899-1974), uno dei maggiori compositori jazz della storia, dedicò “Black beauty” a Florence Mills, artista scomparsa un anno prima a soli 32 anni.
Duke Ellington nel 1930
Immagino senza fatica il suono cupo di questo magnifico pezzo blues uscire dagli apparecchi radiofonici dell’epoca, immagino Ellington e la sua band suonarlo ad Harlem, in locali densi di fumo, storie e odori del passato.
The Queen of Happiness
Una poesia in musica -“Black beauty”- un omaggio alla memoria di una grande artista: la Mills, attrice, ballerina e cantante di fama internazionale, nota come “The queen of happiness” per la verve che la caratterizzava sul palcoscenico, avrebbe accennato un sorriso e spalancato gli occhi se avesse ascoltato la nobile dedica di un jazzista del calibro di Duke Ellington.
Ma quella musica c’è, esiste, come filo conduttore, come forma di comunicazione che trascende la sfera delle possibilità conosciute. Forse Duke e Florence se la suonano e se la ballano, in un mondo soltanto sognato, in un recesso remoto della memoria condivisa degli uomini che furono, sono, saranno. Pensarlo lo rende vero, in un certo senso.
“The lobster” è un film/laboratorio del regista greco Yorgos Lanthimos, sviluppato su due binari che corrono in parallelo verso opposti modelli sociali: da un lato la ricerca affannosa e forzata di un partner, dall’altro la fuga spasmodica da ogni forma di legame. I protagonisti devono scegliere la direzione prediletta in un contesto che si mantiene costantemente semiserio e grottesco.
Gli spettatori/cavie osservano due ambienti, il “dentro” e il “fuori”, che insieme compongono un habitat complessivo oltre cui non sembra esistere altro. I due contesti sono uniti da una sola strada che sancisce una labile e approssimativa linea di confine.
“Dentro” è una sorta di hotel di lusso, dove tutto è organizzato in modo maniacale e sistematico: attività imposte e per lo più inutili si succedono senza soluzione di continuità, così da non lasciare spazio e tempo residui a disposizione dei membri. Una situazione che tanto somiglia alle civiltà occidentali più frenetiche ed “evolute”, in cui persino l’umanità viene tecnicizzata. “Dentro” occorre trovare qualcuno da amare entro un tempo stabilito per essere considerato membro a tutti gli effetti: le alternative sono la trasformazione in un animale a scelta o la fuga. Ogni individuo è pertanto indotto alla ricerca compulsiva di un elemento che lo accomuni a un’altro tanto da renderli affini: non è difficile intuire come tanti siano spinti alla simulazione onde evitare la muta, e come quindi si scelga la via meno dolorosa, cioè una convivenza costruita, per evitare l’emarginazione dalla società. L’inganno, ove rivelato, conduce parimenti alla muta.
“Fuori” –nel bosco- si è in apparenza liberi, ma è una libertà che si riduce ad una costrizione capovolta rispetto al primo sistema: in effetti la libertà è limitata allo stato brado in cui i membri vivono, poiché la regola in tal caso è la solitudine: di primo acchito la conquista dell’emancipazione assume le sembianze di una catarsi, ma poi si rivela per quello che è, ovvero una nuova imposizione. Il divieto di allacciare relazioni rappresenta l’ennesimo diktat, la condicio sine qua non di una trappola senza vie d’uscita. Le conseguenze di un approccio amoroso sono terribili menomazioni.