“La figlia lo sbalza fuori dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”.

E’ un esercizio per registi navigati tradurre in immagini il messaggio di un romanzo complesso come quello di Philip Roth, e la trasposizione cinematografica di Ewan Mcgregor è una delusione quasi annunciata. Se poi la regia si rivela piatta e compassata e i momenti salienti della storia vengono stravolti od omessi, c’è da chiedersi il motivo di una tale ambizione all’esordio.
La discesa all’inferno di Levov lo svedese viene affrontata senza coraggio o mordente, e non c’è nulla della grande illusione narrata da Roth, di quel senso di inadeguatezza che l’uomo affronta quotidianamente a livello sociale e comunicativo: lo sforzo che ognuno produce per fare in modo che le cose vadano per il verso giusto, per mantenere un livello adeguato alle proprie aspirazioni, al fine d’essere un eroe senza macchia, un esempio positivo e una guida sicura, la consapevolezza dell’errore come fondamento della vita stessa, il disperato e spesso vano tentativo di educare e proteggere i propri figli, sono tutti elementi che latitano nel film.

McGregor azzera il livello di pathos del romanzo e dipinge personaggi in modo troppo canonico, senza considerarne la portata: i protagonisti del capolavoro di Roth sono modelli che rappresentano il crollo di uno stile di vita, il tramonto di una società costruita sulle basi approssimative di un abbaglio colossale, di un gigante che collasserà sotto il suo stesso peso. La provincia americana e i tipi umani che la popolano vengono dipinti in modo convenzionale e senza la necessaria spinta emotiva, e il prodotto finale è un’opera banale e noiosa, che nemmeno prova ad aspirare al livello consono a un tale lavoro.

Alcuni eventi fondamentali vengono tralasciati o ribaltati, le citazioni essenziali vengono ignorate, e così persino il senso del titolo rimane ignoto, poichè McGregor non si sporca le mani e non si addentra “nel terreno neutrale e sconsacrato della festa del Ringraziamento” in cui “un tacchino colossale” -che sazia duecentocinquanta milioni di persone- rappresenta simbolicamente “una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose, una moratoria sulla nostalgia trimillenaria degli ebrei, una moratoria su Cristo e la croce e la crocifissione per i cristiani … una moratoria su ogni doglianza e su ogni risentimento … per tutti coloro che, in America, diffidano uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza e dura ventiquattr’ore“; e non c’è traccia del bacio fra padre e figlia, che sarà poi uno dei motivi del profondo tormento del genitore, tanto che sarebbe stato preferibile tagliare per intero la scena anzichè fornirne una versione contraffatta.

Ma è il finale a demolire definitivamente il filo conduttore fra romanzo e libro: mentre nel primo non c’è spazio alcuno per la speranza o modo di recuperare, per i soggetti coinvolti e per una società intera, con l’aggiunta di un gesto violento ed estremo a sancirne l’irrevocabile autodistruzione, nel film troviamo una scena completamente inventata, inaccettabile perchè rovescia il senso stesso della storia fino a ribaltarne il significato, creando una speranza, aprendo uno spiraglio alla tragedia che invece dilaga, tentando di commuovere lo spettatore invece di prendere atto del dramma in essere ed accettarlo in quanto tale, un tentativo goffo che sancisce un fatto molto semplice: Mcgregor non ha afferrato il messaggio del capolavoro di Roth, non ne ha tradotto il senso o ha preferito non farlo; ha semplicemente raccontato un’altra storia, peraltro affatto interessante, che si poteva risparmiare.