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“L’umanità non può sopravvivere. I replicanti sono il futuro della specie. Ma non posso crearne di più”.

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L’agente speciale K (il rimando a Josef K, il protagonista de “Il processo” di Kafka è fin troppo evidente) è il cacciatore incaricato di ritirare vecchi modelli dissidenti. Modello Nexus 9, K è un replicante di ultima generazione dotato di maggior disciplina e obbedienza rispetto ai precedenti.

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Lo sguardo profondo ed esteso sul futuro di Villeneuve regala un universo ipnotico, claustrofobico, senza via d’uscita. I tempi flemmatici del montaggio si traducono in scene lunghissime e penetranti, incessantemente avide di dettagli. L’aspetto ambientale pesa nella realizzazione dei set (costruiti interamente a mano, senza alcun supporto digitale): a causa del collasso irreversibile dell’ecosistema, il pianeta è inospitale, il clima freddo, la vegetazione pressoché scomparsa sotto piogge acide battenti, mentre gli oceani sono arginati da enormi dighe che segnano i confini delle città.

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Questo 2049 è anche il prodotto di un black out di proporzioni immani, che ha segnato la fine dell’era digitale e il ritorno all’analogico: il passato non è più tracciabile, ogni dato è andato perduto e il protagonista si muove e indaga come un detective rétro in cerca di indizi tangibili, così come avviene all’inizio del film: in una fattoria immersa nelle dilaganti distese di colture sintetiche, l’agente K rinviene un replicante in incognito e un segreto che potrebbe rivoluzionare il rapporto fra esseri umani e lavori in pelle.

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La Los Angeles distopica di Villeneuve è più cupa di quella di Scott: una metropoli in procinto di collassare su se stessa come una delle città invisibili di Calvino, un agglomerato urbano tentacolare e soffocante, infinito e privo di logica, in cui moltitudini di individui solitari si mescolano nel caos. Esseri umani e artificiali perdono i loro tratti distintivi. Quella in cui si muove l’agente K è una città senza speranza.

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Neander Wallace è il folle dio della robotica che ha rilevato la Tyrell Corporation e concepito l’ultima generazione di replicanti. Wallace è ossessionato dall’utopia di perfezionare le sue creature fino a raggiungere l’inconcepibile. Il suo è un potere ultraterreno, la sua forza ineluttabile, il suo sguardo onnivoro controlla ogni cosa anche attraverso Luv, il suo factotum sintetico. La coppia si muove in un mondo a se stante, un dedalo percorso da superfici levigate e geometriche, una sequenza ammaliante di ambienti fluidi e ambrati, pervasi da un chiaroscuro intermittente che produce giochi di luce ed ombra sulle silhouette di Luv e Neander: i due emergono oniricamente da quelle scenografie con cui poi tornano a fondersi e confondersi.

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L’azione di Blade runner 2049, rispetto al film del 1982, non rimane “intrappolata” nella fitta e intricata rete di L.A., ma si sposta negli spazi aperti e desolati della California: attraverso i tragitti aerei di K osserviamo la successione infinita di serre destinate alla coltivazione; le mastodontiche discariche digitali di San Diego, dimora di reietti e orde di bimbi ridotti in schiavitù; le rovine di una Los Angeles post-apocalittica, in cui la fotografia di Roger Deakins raggiunge il suo apice espressivo: fra statue spettrali e monumenti titanici al collasso, le tonalità giallo-oro dell’ocra delineano atmosfere rarefatte e sulfuree.

Il sogno di K prosegue in Filmosteria