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Forse non sono più abituato a viaggiare senza la mia famiglia, ma l’impatto con questa megalopoli a cavallo fra l’Asia e l’Europa è stato quanto meno interlocutorio

Batterie di palazzi spesso fatiscenti si susseguono a perdita d’occhio, affastellati uno sull’altro senza criterio. Sembrano orde di giganti in cemento armato, eserciti di abitazioni e botteghe fatiscenti che sfilano senza che la luce possa trovare spiragli in cui infilarsi. Ciò è visibile sia nell’antica Costantinopoli (a sud), che soprattutto nei quartieri di Pera e Galata a nord, oltre il Corno d’oro. Fra l’Istanbul europea e quella asiatica corre il Bosforo, striscia d’acqua che conduce dritta al Mar Nero, dove imbarcazioni enormi navigano senza tregua fra Russia ed Ucraina e il resto d’Europa e del mondo. Di là del Bosforo si scopre – per quanto sembri paradossale – una città totalmente diversa, dalle fattezze occidentali, più verde e curata ma un tantino anonima rispetto alla sorella “europea”. A sud di Istanbul dilaga il Mar di Marmara, specchio d’acqua che corre fino al Mediterraneo attraverso lo stretto imbuto dei Dardanelli.

Scrivo ciò senza nulla togliere al cuore di quella che fu Bisanzio e poi Costantinopoli, dove campeggiano monumenti e musei spettacolari. La fastosa Basilica di Santa Sofia (ora adibita al culto islamico), la misteriosa Cisterna di Yerebatan, meglio nota come Cisterna Basilica, antico deposito d’acqua costruito da Giustiniano nei sotterranei di una basilica di cui oggi non resta traccia, la maestosa Moschea blu, il palazzo reale Topkapi, la reggia da cui i Sultani governarono l’impero ottomano fino al diciannovesimo secolo, luogo denso di storie tanto affascinanti quanto spesso terribili.

L’aria di Istanbul è densa di fumi e odori penetranti, il traffico è incessante e si districa fra vicoli altrettanto interminabili, vicoli che salgono e scendono in modo caotico fra i meandri di questa pantagruelica creatura, che sembra divorare i passanti e poi inghiottirli definitivamente o rigettarli fuori in un dove assolutamente casuale. I tram si rincorrono senza pause, forse è solo un unico enorme vagone a serpeggiare fra il passato e il presente, probabilmente è il treno dei sopravvissuti di Snowpiercer, in cui si dipana tutta la vita residua in moto perpetuo. Un bambino vestito di rosso, scalzo, coi piedi neri e consunti, salta giù dallo spazio angusto che insiste fra un vagone e l’altro, e osserva il mondo con occhi grandi e allampanati; è un bambino perduto, dalla posa spavalda, che un attimo dopo scompare anche lui fra i grovigli di mezzi meccanici e la densa spirale della folla.

Istanbul va capita, e certo non bastano i quattro giorni che abbiamo a disposizione. All’inizio ti incazzi perché non sopporti che certe procedure siano poco oliate o semplicemente diverse da come le avevi pianificate, ma nell’istante in cui comprendi che abbandonarsi al flusso disfunzionale che ne catalizza l’energia è l’unico modo per intercettare la sua disorganizzazione organizzata, allora sei dentro, e non ti stupisci più quando ti accorgi che una maratona di ore interrompe ogni forma di trasporto possibile. Camminiamo senza fine, osserviamo divertiti i gonfiabili che segnano i traguardi parziali della gara afflosciarsi sui concorrenti di passaggio, passiamo e ripassiamo per anni sul ponte di Galata, dove i locali pescano pesce nutrito dagli scarichi delle imbarcazioni che si sfiorano e quasi si sovrappongono e navigano a castello sotto di noi. Forse è l’anno 2046.

A me Istanbul non è parsa una città bella in senso proprio, ma è di certo un luogo carico di fascino e segreti irrisolvibili. La sua bellezza senza tempo è minata dall’abusivismo edilizio, fenomeno drammaticamente visibile dalla corsa senza fine delle costruzioni lungo le rive del Bosforo, dall’inquinamento di terra, aria e mare, dall’assenza pressochè totale di porzioni verdi e naturali di tessuto urbano. Questa sorta di decadenza incarna però entrambi i lati della stessa medaglia, nel senso che, se da una parte trasmette un senso di desolazione, dall’altro incanta e seduce il viaggiatore.

Visitarla somiglia più a una sensazione che a un’esperienza. Io e Francesco non abbiamo trovato tracce di frenesia in quel crocevia cosmico di etnie, storie, religioni, e culture diverse. Tutt’altro. Pare regnare un caos calmo in cui tutti fumano come se non ci fosse un domani e in cui nessuno da in escandescenze se un furgoncino blocca una strada a senso unico perché il suo proprietario è sceso a fare colazione.

La super città intercontinentale turca mi ha lasciato una grande serenità di ritorno, una sensazione di pace scalfita soltanto dall’ordigno esploso sei giorni dopo a pochi passi dalla zona in cui alloggiavamo. Le persone sembrano meno inquinate dalle lordure con cui bombardano noi vecchi europei ogni giorno, da anni.

Tutte quelle immagini che nel nostro mondo implicano e instillano finti desideri e inutili ambizioni, tutti fattori che impostano la vita comune come fosse una corsa ad ostacoli, dove devi rincorrere chissà cosa o chissà chi per arrivare prima e meglio degli altri, dove le cose vanno bene ma vorresti andassero meglio, dove il sistema è talmente drogato da non darti tempo per realizzare che in fondo è tutto a posto e sei felice e potresti goderne stilla a stilla se solo non fossi indotto a pensare che no, non basta, vuoi di più, anche se hai già tutto ciò che potresti umanamente contenere per stare bene. E il ridicolo impegno profuso per costruire quel modello di persona collettivamente conveniente, da cui Jung mise in guardia, poiché “tale costruzione è un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi con la Persona”. La più atroce delle illusioni, che induce l’uomo a sbarazzarsi di se stesso a favore di una personalità artificiale.

Gli orpelli e gli artifici dell’occidente, le sovrastrutture capitalistiche, la produttività agli estremi, la crescita continua e totalmente insostenibile, la fine dell’essere umano. Tutti questi fattori sono ben visibili quando rallenti in un contesto disorientato come un viaggio in Turchia col tuo amico di sempre. Non hai bisogno di dire nulla, puoi dosare pensieri, concetti e parole, sei a tuo agio, sei a casa, ma lontanissimo da essa, e riesci a vedere la tua immagine riflessa in tutta la sua inconsistente mediocrità.

Continuo a sentire Istanbul dentro di me, anche se è una sensazione intermittente. Ma il pensiero vola spesso da quelle parti, nel dedalo di architetture, viuzze e palazzi creati nei secoli da greci romani, turchi, genovesi e veneziani e chissà chi altro. Istanbul mette in crisi la personalità artificiale dietro cui gli occidentali amano nascondersi.

Ricordo una domenica pomeriggio di luce calda, un giro in battello sul Bosforo, un gruppo di amici turchi felici e affiatati. Si scattavano foto in successione, si mettevano in posa come forse si usava in Italia negli anni 50, si abbracciavano fraternamente, mostrando naturale intimità e reciproca familiarità. Mi hanno subito ricordato i miei amici, il nostro volerci bene, la nostra lunga e intricata storia collettiva, il fatto che anche per molti di noi il contatto fisico sia importante e che sia fondamentale sapersi abbracciare, che non è affatto una banalità. Ma fra di loro c’era un fattore ulteriore, che ho tentato di decifrare durante la navigazione: una fratellanza, o qualcosa che definirei “assenza di complicazioni”, un mood più semplice e lineare, forse meno tortuoso, un’empatia incontaminata, priva di malizie e concessioni, da cui mi sono fatto cullare fino all’attracco in porto.

Ieri -a casa- riposavo nella tana che abbiamo creato per i bimbi sotto un letto a castello, un regno di amore e infanzia e luci soffuse, ricavato in un cantuccio onirico. Ascoltavo i miei figli parlare, li sentivo giocare, mentre Franci andava e veniva leggera, senza che ne percepissi i passi. Le loro voci dolci, il tepore dei cuscini, il ricordo della partita di Gim al mattino e di una giornata trascorsa insieme ad amici cari, il pensiero rassicurante della famiglia, i rituali magici del Natale all’orizzonte.

Un momento perfetto, l’istante in cui comprendi che non puoi desiderare di più, perché ogni tassello aggiunto a quel contesto avrebbe la consistenza di elemento superfluo, di rappresentazione effimera, per quanto in fondo a me piaccia l’effimero, ma quello gustoso, privo di tarli corrosivi. E in quell’istante ho pensato a Istanbul e alla sua gente, alla genuinità di quelle persone ancora ai primordi del degrado che ha colpito l’occidente. Ho assaporato la stessa sana e innocente bellezza che dimorava sui volti dei ragazzi turchi in barca, bellezza che auguro loro di saper conservare in futuro, assieme all’iridescente gusto retrò che ne caratterizza la posa.