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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

3- CABO DE ROCA, WACKY RACE A SINTRA, L’OVERLOOK, NAZARE’, OBIDOS E LA TRATTORIA FANTASMA DI AVEIRO

Lunedì, ritiriamo la macchina in Praca do Restauradores, dove sbrighiamo le solite pratiche estenuanti di noleggio presso Ok mobility, su cui il giudizio rimane tuttora sospeso. Probabilmente non la consiglierei . Il Portogallo si rivela subito facile da guidare, le strade sono buone, esordiamo visitando Boca do Inferno e Capo de Roca, il punto più occidentale dell’Europa continentale, luogo significativo e scenografico.

Poi tentiamo la sorte per Sintra. Non siamo in formissima, ne ignoriamo i motivi, e Sintra è un’altra trappola per turisti. Le persone ci arrivano a cataste, le automobili sbuffano una sull’altra, sembra di partecipare alla Wacky race, ma mancano Peter Perfect e Penelope Pitstop, non incrociamo nè il diabolico coupè né la multiuso di quel genio di Pat Pending. Entrare o trovare parcheggio è opera da contorsionisti kazaki a riposo, e non possiamo permetterci un altro errore, e per quanto siamo consapevoli di rinunciare a una delle principali attrazioni portoghesi, cerchiamo -con fatica- di uscire dal girone infernale che circonda le mura del sito e decidiamo di farci raccontare Sintra da Francy, che l’ha già visitata anni fa.

Filiamo via verso Nazarè, nelle cui acque un lunghissimo canyon sottomarino profondo fino a 5 chilometri garantisce ai surfisti i più grandi cavalloni al mondo. Quando arriviamo il mare è mansueto, e piccoli surfisti in erba assaggiano onde docili, facili da domare.

Ammiriamo un tramonto dirompente prima di cenare a Vinha d’alhos, una trattoria di Valado dos frades, un paesino dell’entroterra che pare il Messico anche se non hai mai visitato il Messico. Qui il gentilissimo gestore di cui ricordo bene il viso ma non il nome ci fa assaggiare una guancia spettacolare. La nostra dimora odierna è a due passi.

Quinta do campo è un‘antica tenuta gestita dal brillante discendente di una storica famiglia portoghese (“I’m the seventh generation of my family, i’m so proud”). Sarà anche uno dei rari gestori con cui riusciremo a parlare in inglese. In proposito, Irene continua a ribadire con forza a chiunque si rivolga a noi -sorridendo del suo sorriso travolgente e sdentato- che possono esprimersi nel modo che preferiscono, ma tanto “noi parliamo italiano”. Insomma, Iri non accetta di buon grado la varietà linguistica che la strada ci concede, nonostante viaggi da quando è in fasce. Eppure ogni idioma possiede una sua musicalità e custodisce la cultura e la storia di un popolo. Forse una quasi settenne non è abbastanza matura per comprenderlo?

Ma torniamo per un attimo dietro le quinte della quinta. I fasti della famiglia del nostro originale amico sono ben visibili nell’arredamento magnificente e negli antichi volumi presenti nella biblioteca da sogno cui consente generosamente agli ospiti di accedere in qualsiasi momento. Chiedo subito di pagare e l’uomo mi dice di rilassarmi, ora sono a casa (“Thiiis is your hooome nooow!”), non siamo in uno di quei posti in cui la gente e le procedure sono automatizzate, in cui tutto è ridotto a documenti carta di credito pin pulsante 2 in ascensore e tanti saluti. No, questo è un luogo in cui una certa disumanità è stata ufficialmente bandita.

Martedì. La colazione è servita in cantina, i cui interni trasudano tradizione e cultura. La maestosità complessiva di questo posto mi rammenta l’Overlook Hotel, senza un motivo particolare. Il mattino ha l’oro in bocca, ma non noto Jack o Danny Torrence aggirarsi per saloni e corridoi, né tantomeno il bancone ammaliante di Mr. Grady, ma Quinta do campo -soprattutto di notte- sembra nascondere storie oscure e imperscrutabili sotto la sua pelle bianca.

Alla fine si paga, perché alla fine si paga sempre, al di là di fughe poetiche e giravolte, e si riparte. Facciamo un passo indietro (attività inconsueta per la mia famiglia) per visitare Obidos, le sue mura e il suo grazioso centro storico bianco e giallo, costellato sovente da botteghe ciocco-artigianali e dal viola furoreggiante delle bougainville.

Il negozio che mi colpisce di più è un’eccentrica orto-libreria, dove ortaggi freschissimi convivono con una nutrita collezione di libri. L’impatto visivo è conciliante e il profumo dei libri si mescola a quello delle verdure.

Maciniamo poi un po’ di km verso nord, facciamo una pausa nella struttura di turno, dove le animelle si divertono in piscina, e poi andiamo a bivaccare sulle sabbie soffici di Praia da Costa Nova, dove noi assaggiamo il vino locale e i bambini saltano saltano come non ci fosse un domani. I nordici fanno il bagno come se niente fosse, come se l’acqua fosse calda, il guardaspiaggia è agitato sul suo quad, il suo fischietto è in fermento, come i marosi che aumentano col passare dei minuti.

Scende la sera e ceniamo da Pelucha, storica trattoria di Aveiro, che in base al romanzo di viaggio di Saramago non era più presente in città, quarant’anni fa. “Quando al viaggiatore viene un po’ di appetito, verso l’ora di pranzo, dai confini della memoria gli sovviene un ricordo. Tanti anni fa, ad Aveiro, ha mangiato una zuppa di pesce che fino ad oggi gli è rimasta nella ritentiva dell’olfatto delle papille gustative. Vuole appurare se i miracoli si ripetano e va domandare dove sia il “Palhuca”, come si chiamava l’osteria dove era avvenuta l’apparizione. “Palhuca” non c’è più, adesso “Palhuca” sta cucinando per gli angeli, o forse per la principessa Joana, sua patrizia, al di là di questo cielo grigio. Il viaggiatore china il capo, vinto, e va a mangiare da un’altra parte”.

Scopro il fatto curioso leggendo la parte del libro dedicata ad Aveiro dopo cena, e mi convinco di aver mangiato in una trattoria fantasma. Continuo a pensare ancora adesso, mentre sistemo gli appunti e scrivo, se sia stata magia o meno, se il Palhuca in cui abbiamo mangiato fosse reale o fosse invece una trattoria ai confini della realtà, nascosta com’era fra vicoli di scarso fascino e una serie infinita di piccoli cantieri e costruzioni decadenti. Che sia stato il frutto della nostra immaginazione? Se tornassimo da quelle parti, la ritroveremmo? Certo, il bacalhau e i camaroes erano veri, e anche buoni, e forse ciò basta per dissolvere le fitte nebbie del mistero. O forse no.

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