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6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria

DAY 3

Domenica 3 settembre. La sveglia suona presto anche stamani, ma la mia reattività accusa il colpo del giorno prima. Franci invece è pimpante e volitiva, mi trascina di sotto in stato di semi incoscienza, ci concediamo la solita super colazione e usciamo nell’aria fresca del mattino.

Sembra un’altra bella giornata, il traffico è leggero, Times square è linda e deserta, sembra impossibile paragonarla a quella della notte appena trascorsa, eppure è sempre lei. Ho ancora negli occhi il caos fiammeggiante e le esplosioni di luci, suoni e colori che riempivano ogni spazio fruibile, suscitando l’illusione che fosse giorno in piena notte. Questo sembra un altro mondo, un altro tempo. E in effetti forse è così, tutto muta continuamente. In un teatro danno il musical di Ritorno al futuro, un vero cult, una di quelle opere che a casa girano ciclicamente. Cerco al volo i biglietti on line per la sera ma non troviamo posti vicini e rinunciamo.

Anche stamattina New York ci regala una luce straordinaria, è bello camminare di buon passo fra i grattacieli. Il sole fa capolino a intermittenza, infilandosi fra le fenditure e rifrangendosi sui vetri a specchio in modo delicato, come se l’alba fosse sospesa a mezz’aria. Percorriamo poco più di due km a piedi per arrivare al negozio di noleggio bici convenzionato con il sightseeing pass. In cinque minuti ritiriamo le biciclette e ci avviamo verso Central park, che si trova a poche pedalate da lì.

Oggi le nostre mire non sono le stesse di ieri. Oggi intendiamo rilassarci, vivere il momento con la dovuta calma, goderci NY sotto un profilo diverso, senza farci prendere dal solito demone del viaggio che in certi casi ci spinge a superare l’asticella delle possibilità umane. Oggi è diverso, oggi non può essere come ieri, perché sarebbe impossibile reggere e perché ieri è una dimensione lontana nello spazio e nel tempo, vissuta con ritmo e intensità tali da essere irriproducibile. Oggi vogliamo goderci un po’ di natura senza affanni, e Central Park fa esattamente al caso nostro. Un nuovo viaggio nel viaggio.

Entriamo nel parco e per prima cosa cerchiamo di comprenderne la conformazione. Un circuito esterno circumnaviga tutto il perimetro del parco in senso antiorario. La città sonnecchia ancora, nel parco c’è poca gente e noi giriamo spensierati ma non proprio senza meta. Qua e là affiorano le splendide e primordiali rocce levigate dagli elementi che impreziosiscono varie zone del parco. Saltiamo a piè pari lo zoo, come da consuetudine, molliamo per qualche istante le bici e ci affacciamo su Sheep Meadow, uno dei grandi prati con vista di Central park. Qui, newyorkesi e non si rilassano, chiacchierano, prendono il sole, leggono, amoreggiano, si godono un picnic, giocano con ogni tipo di palla. E’ solo una rapida presentazione reciproca, perché è vero che oggi andiamo tranquilli, ma è altrettanto vero che non è il momento di fermarsi. Lo faremo poi.

Scopriamo presto che si deve scendere con frequenza dalla bici, dato che i luoghi da visitare nelle zone centrali del parco si possono percorrere soltanto a piedi. Salire e scendere dalle bici è un’operazione che eseguiamo con frequenza, fino al momento in cui inizieremo a fregarcene un po’, rimanendo in sella per tutto il tempo possibile, salvo i tratti di sentiero più stretti in cui sarebbe impossibile non travolgere i passanti.

Pedaliamo per un breve tratto e parcheggiamo le bici in prossimità di The mall and literary walk, un grazioso viale alberato che trascina indietro nel tempo. Il padre del romanzo storico è lì a vigilare. Sembra effettivamente un’ambientazione letteraria ottocentesca, e carrozze e dame d’altri tempi ci calzerebbero a pennello. Non disdegneremmo nemmeno un parasole, dato che le temperature sembrano giocare improvvisamente al rialzo. Bancarelle, ritrattisti e artisti vari guarniscono il percorso, e certi acquerelli somigliano ai quadri in cui saltarono magicamente Bert, Mary Poppins e i fratelli Banks. O forse la mia immaginazione è instancabile e cerca come sempre una via di fuga.

Ci sediamo ad ascoltare la voce incantevole di Maya, una giovanissima cantante che, accompagnata dal fratellino e supportata tecnicamente dal padre, propone vari pezzi musicali, in particolare dei Beatles. I fratellini sono bravi anche a suonare piccoli strumenti. La piccola ci intenerisce e decidiamo di regalarle il dollaro che ci ha consegnato Irene a casa, prima di partire. Lei lo aveva conservato dal precedente viaggio in America, che ricorda bene -nonostante fosse piccolissima- perché fu la prima di noi ad avvistare un orso. “Orcio! Orcio!” – gridò all’epoca a Yellowstone, senza che nessuno di noi intuisse all’istante che c’era un giovane Grizzly nelle vicinanze. Pensiamo che far passare simbolicamente quel dollaro dalle mani di Iri a quelle di Maya sia un’idea carina, e la mettiamo in pratica.

Proseguiamo lungo il Mall e finiamo proprio sotto il terrazzino del Bethesda, luogo frequentatissimo da modelle in cerca della posa e dello scatto giusti, a quanto pare, e da chi decide di farsi un giretto in barca nel laghetto più carino e scenografico di Central park. Il cinema si è valso a tal punto di questo specchio d’acqua e dei luoghi limitrofi che sembra di essere costantemente a spasso in un film. Kramer contro Kramer, La leggenda del re pescatore, Harry ti presento Sally, Hair, Autumn in New York, Il diavolo veste Prada, Wall street, Home alone, Elf sono i primi che mi vengono in mente, ma l’elenco è lungo.

A me pare un quadro di Monet, su cui il pennello si appoggia con leggerezza, tracciando linee chiare ma rapide: la luce è al centro di ogni cosa, i dettagli sembrano scappare via, ma il momento nel suo complesso viene catturato, imprimendosi per sempre nelle distese di colore che popolano il parco.

La mole di gente cresce via via che passano i minuti, ma questo luogo trasmette una sensazione di pace, di tregua. Qui sembrano tutti tranquilli e lontani dalla frenesia del centro, che pure è lì a ridosso a scuotersi, mordere e sbuffare. Osserviamo le barchette muoversi placide e incorporee sulle acque del lago, e sembra di essere in un altro tempo, un tempo letterario, un tempo di candidi segreti e storie sussurrate, un tempo denso di parole raccontate con cura e dovizia di particolari. Qualche anno fa in Svezia abbiamo fatto un tentativo con una barca a remi, ma non è andata bene per una questione di equilibrio, e non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di riprovare. Central park è una vera e propria oasi, una parentesi verde ricavata dall’uomo per ricordarsi di sé. Provo una punta di invidia per tutti quelli che possono correre in un posto come questo. E sono tantissimi.

Torniamo verso le bici mentre una piccolissima violinista si esibisce con grazia. Riprendiamo il circuito principale e a questo punto il traffico aumenta vistosamente. Avvisto due risciò davanti a me. Alla guida ci sono due ragazzi di colore vivaci e super sorridenti, a bordo due signori sulla cinquantina, apparentemente inglesi. Qui vorrei un attimo divagare sulla differenza fra ragazzi sulla cinquantina e uomini sulla cinquantina, ma mi limito a rivendicare il fatto di appartenere in modo piuttosto evidente alla prima categoria. Ma torniamo a noi, sono ormai a ridosso dei due risciò, e sulla loro scia sento un odore che mi è capitato di sentire anche a Manhattan. E’ odore d’erba, e per la prima volta vedo anche distintamente da dove proviene. In città quell’odore è ad ogni angolo, ma forse a causa della mia vista di talpa, o del fatto che a NY hai altro a cui pensare, è più difficile intercettarne la provenienza. Prima di partire ho letto quanto basta per sapere che da un paio d’anni la cannabis è legale a New York, ma non pensavo a un utilizzo tanto palese dell’ameno espediente ricreativo. Da buon forestiero di provincia stupefatto, chiamo Fra -che è defilata rispetto a me- per mostrarle i tizi che di prima mattina se la ridono a bordo dei risciò, e la cosa buffa è che non mi risponde lei ma un ragazzo in bici che ridendo mi dice in romanesco spinto: “L’hai visti sti sacchi demmerda??”. Mi fa ridere, riguardo Franci, mi giro di nuovo verso di lui che mi sorride prima di scomparire in mezzo al classico gruppone di inseguitori al Tour de Parc.

Subito dopo, forse per rimanere in tema di alterazioni percettive, perdiamo tempo a cercare una statua raffigurante Alice in Wonderland, e la troviamo grazie al solito intuito di Franci. Alice nel paese delle meraviglie è una storia di gran voga a casa nostra. Scatto qualche foto alla statua, che raffigura Alice, il bianconiglio e il cappellaio matto, che è il mio personaggio preferito, a maggior ragione dopo che il maestro di visioni Burton scelse Johnny Depp per interpretarlo. Riprendiamo la tournèe, finchè -dopo una manciata di minuti- Franci si accorge di aver dimenticato lo zaino, con dentro passaporti, portafogli e altri effetti personali. Mentre io vado in blocco e do già per scontato che ci dovremmo recare presso l’ambasciata italiana, lei sgrana gli occhi e senza pensarci si getta a capofitto fra le bici che sfrecciano in senso opposto. La seguo, ma è dura starle dietro, e a un certo punto taglia la pista verso sinistra e si butta in discesa sopra un prato e poi in slalom fra gli alberi, violando presumibilmente tutte le norme del parco in una volta sola. La perdo di vista, dev’essere di certo un film di cui lei è la protagonista alata, la trama è avvincente ma la situazione è tesa, impossibile capire come finirà. Poi la vedo risalire la china sorridente e sollevata. Lo zaino è di nuovo sulle sue spalle, dopo averlo recuperato nelle profonde cavità della tana del bianconiglio. Siamo salvi, Alice è stata fedele alla sua strampalata amica. Sono certo che non sarebbe stata altrettanto magnanima se lo zaino fosse stato il mio.

Terminate le manovre acrobatiche, procediamo fino al lago più grande di Central park, dove ci concediamo una breve pausa e prendiamo una decisione abbastanza improvvisata. Pedalare non ci pesa affatto, nonostante la stanchezza accumulata il giorno prima, abbiamo già percorso un buon tratto del parco, Harlem sembra lì a due passi, anzi è lì a due passi, e così decidiamo di farci un salto, prima di ridiscendere il parco dal lato opposto. Così, quando è circa mezzogiorno, entriamo ad Harlem.

Cerchiamo soltanto per curiosità una chiesa per assistere a un ritaglio di messa gospel. Le strade sono semivuote, e dal buon numero di automobili parcheggiate anche in doppia fila in prossimità degli edifici di culto intuiamo che la popolazione locale dedichi la domenica alla funzione con assiduità e partecipazione. In effetti solo nei minuti successivi Harlem inizierà ad animarsi. Nel frattempo incontriamo un ragazzo di origini senegalesi simpaticissimo e assai loquace. Mi pare si chiamasse Sam. E’ un programmatore, lavora a New York e a Milano, abita da quelle parti e parla un italiano perfetto, ci da qualche indicazione, ci consiglia -scherzando ma non troppo- di unirci a un folto gruppo di ciclisti che stanno di là della strada: “vi mettete in coda e nessuno si accorge che non fate parte della comitiva, e con loro vedete la messa e tutti i luoghi più famosi di Harlem”. Lo ringraziamo, ma rifiutiamo il pacchetto: autonomia e indipendenza rappresentano i nostri fiori all’occhiello, e le gite organizzate, in tal caso persino abusive, proprio non fanno per noi.

Andiamo avanti, troviamo una chiesa, Franci si informa ma la signora all’ingresso ci fa capire che la messa butta de fori. Non è un problema, non reggerei mai due ore di funzione e so che rimarrei comunque deluso perchè mi aspetto di trovare fra i banchi Bono e gli U2 che intonano insieme ai presenti “I still haven’t found what i’m looking for”. Continuiamo il giro senza patemi. Tentiamo la sorte anche da Sylvia’s, un ristorante noto per il gospel brunch e per essere una delle location di “Jungle fever”, un bel film di Spike Lee. Purtroppo anche presso la regina del soul food inizia ad accalcarsi una discreta folla, e, come il lettore avrà ben compreso, a noi non piacciono i percorsi prestabiliti, né tanto meno le folle accalcate.

Puntiamo le bici verso l’Apollo Theater, che ci interessa per lo più da un punto di vista simbolico. L’Apollo infatti è uno dei più importanti club musicali d’America, un vero e proprio crocevia della cultura musicale afroamericana, dove si affacciarono alle scene artisti eccelsi come Ella Fitgerald, Billie Holiday, James Brown e i Jackson Five. Ci limitiamo a dare un’occhiata al locale dedicato al dio greco delle arti e ad affacciarci sul foyet, un po’ come ci capitò di fare nel 2010 al Whisky a Go Go di Los Angeles, altro locale iconico, in cui Morrison e i Doors mossero i loro primi passi. A onor del vero, all’epoca ero alla ricerca espressa di Jim e dei suoi luoghi. E il Whisky era uno di questi.

Tributato il doveroso omaggio a questo monumento della musica, piazziamo sul navigatore la cattedrale di St. John The Divine, che Franci vorrebbe visitare. Non calcoliamo che il percorso prevede una bella salita e che il caldo a quest’ora inizia a farsi opprimente, e ci costringiamo a una faticaccia imprevista. Non a caso siamo in Upper west side. Arriviamo in prossimità della chiesa ma diciotto dollari pro capite ci sembrano troppi per visitarla, e così la pensano anche altri turisti che fanno dietro front in blocco. Nel gruppo ci sono tre ragazze, una delle quali dice: “Ahò, manco fosse San Pietro”. Come non concordare?

Qua e là zampilla acqua dal sottosuolo, e anche questa è un’immagine evocativa di altre immagini ormai sbiadite, che i miei occhi hanno visto in chissà quale cinema del passato. Ci fermiamo a osservare gli attrezzatissimi campi sportivi in serie in cui si gioca a basket e a baseball, e poi facciamo tappa in una birreria ben fornita, dove posso gustarmi una Smithwicks, la rossa più buona al mondo. Rifocillati, ci lanciamo in discesa per riconquistare il parco sul fianco occidentale, poco più a nord del museo di storia naturale, che non rientra nei nostri piani, forse perché inconsciamente speriamo di tornarci coi bimbi. A Giamma piacerebbe un sacco, ne sono certo. A proposito, anche l’Upper sembra un buon posto in cui vivere.

Rientriamo nel parco, troviamo un cono d’ombra davanti a Sheep Meadow, posiamo sull’erba un foulard, che è l’unico giaciglio disponibile, ci mangiamo una mela e ci stendiamo a contemplare in silenzio quello scorcio fantastico che proiettano innanzi a noi. E’ pieno di gente ma l’ingresso è gratuito. Uomini, donne e bambini punteggiano l’ampia distesa verde che ci circonda, ma lo spazio abbonda e le voci delle moltitudini restano distanti e assumono la consistenza di un lieve e sommesso brusio che si amalgama al vento, rimescolando le idee e gli idiomi di tutti gli abitanti del pianeta New York. Si sta davvero bene e ci lasciamo andare, allentiamo ogni tensione, molliamo gli ormeggi e ci spingiamo alla deriva fra le nuvole e gli alberi e il fulgore dei giganti assiepati ai confini del parco.

In ogni grande città abbiamo tentato e trovato una fuga nel verde. Lo Stanley park a Vancouver, Villa Borghese a Roma, i piccoli e graziosi parchi collinari a san Francisco, l’infinito Phoenix park a Dublino, il parco delle Table Mountain sopra Cape Town, il Jardim de Morro a Porto, il parco senza nome in cui ci addormentammo a Copenaghen, o infine il piccolo parco di periferia in cui ci rifugiammo a Reykjavik prima di lasciare l’Islanda. Ed ora Central Park a New York. Sono solo i più fulgidi e immediati esempi che mi vengono in mente, luoghi di mezzo che per noi rappresentano spesso i ricordi più luminosi di un contesto urbano, perchè le opere dell’uomo sono belle ma quelle della natura di più, anche quando la mano dell’uomo è intervenuta in modo tanto evidente.

Siamo in contemplazione, pensiamo a tutto e a niente, veleggiamo in dormiveglia finchè ci guardiamo e ci scuotiamo da quel dolce torpore. Siamo a New York, ci eravamo quasi dimenticati, abbiamo tante cose da fare. Riprendiamo le bici e seguiamo il mio capriccio di vedere il Carousel, una giostra coperta vecchia più di un secolo che si trova sul nostro tragitto di rientro. Nel mentre, il colpo d’occhio mi propone un grattacielo che pare il camino di una fornace. Le nuvole in cielo sembrano uscire dalla sua sommità. Allora dev’essere vero quel che mi rispose un indiano nell’Antelope Canyon quando gli chiesi cosa producesse l’ecomostro che sputava fumo dall’alto delle sue ciminiere. “It makes clouds”, mi disse accennando una timida smorfia. Ma basta divagare, ora la gente è tantissima, si cammina a stento, per noi è ora di cambiare aria.

Ci infiliamo di nuovo fra i grattacieli e in breve riportiamo le bici. Ormai sono le 16. Mentre torniamo in hotel a piedi, facciamo tappa alla cattedrale di Saint Patrick, la più grande chiesa neogotica cattolica degli Stati Uniti. E’ in corso la messa in spagnolo. L’acustica è incredibile e i canti fanno venire la pelle d’oca. Il prodigio di voci e melodie riempie ogni angolo della cattedrale e genera un’atmosfera solenne e coinvolgente. Ci aggiriamo fra i banchi e le icone di questo maestoso luogo di culto con il dovuto rispetto e una certa emozione.

Arriviamo in hotel, ci rinfreschiamo e ripartiamo al volo, dopo aver preso una decisione clamorosa: per la prima volta prenderemo la metro, dato che l’ingresso si trova a pochi metri dal Marriott, e che il Fanelli Cafè, che abbiamo scelto per cena, si trova a Soho. Scendiamo in Penn Station, ricarichiamo la metro card utilizzata per l’air train ed iniziamo ad attendere la linea C che ci porterà fino a Washington Square. Da lì cercheremo un posto carino per fare un aperitivo prima di cena. L’attesa è più corposa del previsto e io inizio già a mostrare i primi segni di squilibrio e insofferenza. La situazione precipita pochi istanti dopo, poichè la fermata di Washington è la West 4th Street in realtà, e noi la saltiamo con disinvoltura. Attendiamo due o tre fermate ma di Washington nemmeno l’ombra.

Chiediamo a una signora a bordo, che gentilmente ci mostra sulla sua app che siamo andati lunghissimi. Scendiamo a One World, e ci posizioniamo in attesa della C per tornare verso nord. L’idea è di scendere a Canal Street, sempre per aggiungere due passi e un cocktail al nostro tragitto. Ma l’attesa è lunghissima e snervante, io avverto la fiacchezza accumulata e sono stanco di aspettare, la temperatura e l’umidità sono insopportabili, ho voglia di tornare all’aria aperta e di godermi la città ma i minuti passano inesorabilmente. Lo ammetto, non tollero concettualmente i tempi e le modalità del trasporto pubblico, che interpreto esclusivamente come barriere limitanti le libertà individuali.

Penso che se fossimo andati a piedi, saremmo già arrivati a destinazione, e divento presumibilmente insopportabile. Franci accetta di buon grado un errore che può capitare ma io invece no, non l’accetto e non tollero la mia disattenzione. Aspettiamo quasi mezzora prima che passi il nostro treno e uscire fuori è un vero sollievo. Non abbiamo più tempo per l’aperitivo e andiamo direttamente a cena.

Il Fanelli, a dispetto del nome e delle graziose tovaglie a quadretti bianchi e rossi, è un locale tipicamente americano, in cui cucinano preminentemente carne. La tizia che gestisce il posto sembra una cowgirl del Wisconsin, il locale è frequentato da persone di età media inferiore alla nostra, ma abbiamo voglia di un luogo informale e accogliente, dove sentirci a nostro agio, e il Fanelli è perfetto in tal senso. Dunque assaggiamo carne, come da copione, in un’atmosfera che mi trasporta indietro di tanti anni, quando io e Franci mangiammo paella in una fumosissima trattoria sita nella parte più alta e vecchia di Granada. Tutto continua a tornare, nell’incessante confusione che spazio e tempo propinano a noi esseri fugaci.

Finiamo di cenare e usciamo in strada disorientati, camminiamo un po’ ma siamo stremati, svaniamo nella notte di Soho, come fossimo assorbiti dall’oscurità. Il mio ultimo ricordo è un orologio da stazione ferroviaria, oltre il quale non mi è concesso dire se e come siamo tornati a Midtown. Eppure siamo tornati, risputati chissà come dal regno d’ombre o dagli angusti sotterranei di Gotham.

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    • A SERIOUS MAN – Joel Coen, Ethan Coen
    • ALMANYA – Yasemin Samdereli
    • AVATAR – James Cameron
      • La maschera
    • BLADE RUNNER 2049 – DENIS VILLENEUVE
    • DARK SHADOWS – Tim Burton
    • DJANGO UNCHAINED – Quentin Tarantino
    • DOPO IL MATRIMONIO – Susanne Bier
    • E ORA DOVE ANDIAMO? – Nadine Labaki
    • HUGO CABRET – Martin Scorsese
      • Georges Meliès e la magia del cinematografo
    • HUNGER – Steve McQueen
      • 5 maggio 1981
    • IL CAVALIERE OSCURO – IL RITORNO – Christopher Nolan
    • IL GRANDE CAPO – Lars von Trier
    • L’AMORE CHE RESTA – Gus Van Sant
    • L’ARTE DI VINCERE (MONEYBALL) – Bennett Miller
    • LA PARTE DEGLI ANGELI – Ken Loach
    • LA PELLE CHE ABITO – Pedro Almodovar
    • LA TALPA (TINKER TAILOR SOLDIER SPY) – Tomas Alfredson
    • LE CENERI DI ANGELA – Alan Parker
    • MARIGOLD HOTEL – John Madden
    • MARILYN – Simon Curtis
    • MILLENNIUM – UOMINI CHE ODIANO LE DONNE – David Fincher
    • MIRACOLO A LE HAVRE – Aki Kaurismaki
    • PARADISO AMARO (THE DESCENDANTS) – Alexander Payne
    • PICCOLE BUGIE TRA AMICI – Guillaume Canet
    • REDACTED – Brian De Palma
      • Nemici immaginari – Dall’Iraq a Buzzati e ritorno
    • RUGGINE – Daniele Gaglianone
    • THE EDGE OF LOVE – John Maybury
    • THE HELP – Tate Taylor
      • Il fascino sottile dell’intolleranza
    • THE IRON LADY – Phyllida Lloyd
    • THIS MUST BE THE PLACE – Paolo Sorrentino
    • UNA SEPARAZIONE – Asghar Farhadi
    • VENTO DI PRIMAVERA – Rose Bosch
    • WARRIOR – Gavin O’Connor
  • I Grandi Classici
    • A history of violence
    • Amour
    • Casinò
    • Easy rider
    • Eyes wide shut
      • La tana del Bianconiglio
    • La città incantata
      • Paragone acrobatico con il mito di Orfeo ed Euridice
    • Schindler’s list
    • The artist
  • Il precipizio
    • Andy Kaufman – Man on the moon
    • Antonio Sampaolesi – Mio nonno, il mio idolo.
    • Caccia sadica
    • Central Park
    • Cigolante vetustà
    • Compenetrante Simbiosi Nordica
    • Cosmogonia d’Osteria
    • Crisi gravitazionale
    • Da Zachar a Wall-E in pilota automatico
    • E-voluzione
    • Effetto Domino
    • Follia o rivelazione?
    • Freccia rossa
    • Fuga d’ombre nel capanno
    • Generi cinematografici
    • I cantanti
    • Il pelo del pile
    • Il Visa
    • Inchiostro
    • L’Estetica del Toro
    • L’incontro
    • La chimica del mare
    • La fine 1.0
    • Magma dal retrobottega
    • Mezzosogno
    • Mine vaganti su Skyfall – L’altalena delle aspettative
      • Assenza di aspettative – Mine vaganti
      • Overdose di aspettative – Skyfall
    • Mostri alati
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    • puntofisso.com ovvero Il colloquio
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