DAY 4
Lunedì 4 settembre. Lo schema si è dimostrato vincente, e le dinamiche mattutine non cambiano. Mangiamo giusto un pochino meno del solito. Usciamo e tentiamo di nuovo la sorte con la metro. Sono preoccupato, considerata l’esperienza della sera prima, ma siamo diretti a Coney Island e non abbiamo scelta, perché per arrivare all’estremità sud di Brooklyn la strada è lunga. Stavolta fila tutto liscio, prendiamo la linea espressa per Coney Island e Brighton Beach e in circa tre quarti d’ora arriviamo a destinazione. La metro esce presto allo scoperto e possiamo goderci una nuova porzione di New York dal treno. La novità del giorno è un cielo carico di umidità che rende l’aria quasi irrespirabile fin dal mattino. Siamo presi in contropiede dal rapido e imprevisto mutamento meteorologico, con cui dovremo fare i conti per i prossimi due giorni.




Usciamo dalla stazione di Stillwell Avenue anticipando come di consueto il turismo di massa. Coney island in realtà è una penisola sita proprio davanti all’Oceano Atlantico, una striscia di terra con cinque km di spiaggia e una storia travagliata alle spalle, fatta di saliscendi simili a quelli che dominano il suo skyline. In effetti l’isola dei conigli è un enorme luna park, un parco giochi dall’aspetto retrò e un tantino decadente, dominata dalla Wonder wheel, una delle ruote panoramiche più famose al mondo. La popolazione che incrociamo sembra prevalentemente di origini ispaniche, dato che mi somiglia più del solito. Pare un’umanità un tantino trascurata, dall’aspetto consunto e dagli abiti trasandati. D’altronde questa è la gloriosa base dei Guerrieri della notte.

I palazzoni che si stagliano dietro il parco giochi sono fatiscenti e contribuiscono a un certo degrado estetico. La meccanica contorta delle attrazioni e alcune icone dal ghigno malefico aggiungono risvolti horror al contesto generale. Pennywise o il Joker potrebbero essere di casa da queste parti. Persino i bagnanti non sembrano al mare ma in una tendopoli improvvisata nel deserto. L’acqua dell’Atlantico però è fresca e tanto basta per allietare una giornata che si avvia a diventare rovente.




Certo, forse oggi abbiamo raggiunto la nostra prima tappa persino prima del previsto, perché la gente in giro è poca, la luce non è delle migliori, e i baracconi sono ancora chiusi o stanno muovendo pigramente i primi passi verso l’apertura. L’atmosfera è compassatissima, dominata da una malinconia che probabilmente si acuirà col finire della stagione estiva. Siamo in una località di mare, una delle preferite dai newyorkesi, ma dai movimenti dei gestori s’intuisce che siamo in fase di stanca, che sono le ultime aperture prima del letargo, e le persone sembrano trascinarsi più che camminare.






Percorriamo uno dei moli fino in fondo, c’è gente che pesca, e la dinamica -nella sua semplicità- mi ricorda il ponte di Galata a Istanbul, che però, al contrario di questo, era un totale e irrefrenabile bordello, un bazar a cielo aperto sospeso sul Corno d’oro. A dire il vero, questo parallelismo è una forzatura palese, ma non è malizioso. Nasce d’istinto, e credo meriti una chance. Qui regna il silenzio, le persone parlano poco e a voce bassa, forse per non spaventare i pesci. E’ anche uno dei tanti moli visti al cinema, uno di quelli che puoi collocare ovunque, anche fosse il molo sul Pacifico di “Un giorno di ordinaria follia”, che mi viene in mente senza forzare.



Desideravo vedere questo posto e saggiarne l’atmosfera, e avevo già capito in fase di pianificazione che sarebbe stato difficile collocarlo senza sacrificare altro. Ma non ho mai pensato di lasciarlo fuori dal nostro piano di viaggio. Non avevamo alcuna intenzione di adagiarci sulla ruota delle meraviglie di Allen o di rivoltarci le budella sulle montagne russe, ma è facile immaginare che questo luogo circense acquisti fascino quando è a pieno regime, e quindi di notte, quando le luci e i suoni del luna park la fanno da padroni. Ma Coney Island conserva indubbiamente fascino anche in questa modalità. Certo, sarebbe sufficiente una luce diversa per mostrarne lo shining, l’intrinseco scintillio che poi è dentro ogni cosa e dentro ogni luogo, ed emerge soltanto se irradiato in modo adeguato. Basti pensare all’arte in tal senso, e a quanto sia importante valorizzarla con la giusta illuminazione.

Mi guardo intorno e penso che il tono sbiadito e l’aria immobile e pesantissima di oggi non rendano giustizia alla costa sud di Brooklyn, che sembra soltanto una pallida idea di quel che potrebbe essere in circostanze diverse. Poi, non so come, mentre passeggio per questo lungomare un po’ desolato mi assale dal passato un ricordo imprevisto: ero piccolo e con la famiglia andammo dagli zii a Roma, forse per un matrimonio. Eravamo tanti per l’occasione, e non potevano ospitarci, non tutti per lo meno, e così alloggiammo in un albergo di Ostia Lido. Credo fosse inverno, quanto meno non era estate. La desolazione era un po’ quella di adesso, e c’era qualcosa nella fotografia di quel giorno a Ostia che mi riconduce al film che danno oggi, qui a Coney Island. Una sensazione strana, perché mi riporta a galla un ricordo nel suo complesso, come fosse la somma percettiva e incorniciata di tutti i sensi insieme, come se non fosse passato un giorno, come se fossi bambino adesso, o fossi stato adulto allora. Cercavo qualcosa del genere a Coney Island, ma non sapevo esattamente cosa. Questa terra di passaggio ha spalancato una porta mnemonica nella mia mente, e non mi è dispiaciuto affatto dare una sbirciatina oltre la soglia di una dimensione sì nostalgica e poetica.


Alcuni tizi, dall’aspetto truce e niente affatto atletico, giocano a fronton. Due coppie colpiscono la palla più forte che possono, chi a mani nude chi con la dote di un supporto, e la sparano sul muro di fronte, a una distanza breve e con uno spazio assai limitato. Devono essere lesti a prenderla senza scontrarsi, ma il gioco sembra piuttosto violento e doloroso. Una versione hard dello squash. Cerco fra i chioschi il mefistofelico mago Zoltar, quello che realizza anche i più strani desideri, ma temo di aver sbagliato luna park. E poi sono già grande, e non saprei cosa chiedere. Dietro l’angolo c’è Nathan’s, che dicono faccia gli hot dog più buoni di tutta NY, ma a quest’ora del mattino è impensabile mandarne giù uno. Ci riserviamo la possibilità di mangiarne uno nei chioschi mobili che si spostano dentro Manhattan, se avremo la fortuna di incontrarne uno.

Il sole adesso impazza, e il caldo è opprimente, ci sediamo sotto una pensilina che pare una fermata del bus. Una tizia che vende bibite abusivamente gioca a nascondino con la polizia utilizzando la colonna che sta alle mie spalle per nascondere il frigo portatile quando passa la pattuglia: se si fermano potrebbero anche concludere che sia mio, dato il mio aspetto vagamente centro-americano. Questo timore è probabilmente il retaggio di una vecchia esperienza. Anni fa io e Franci, sempre noi, ci trovammo nel cuore della notte di Yuma, nel profondo sud dell’Arizona, a poche miglia dal confine col Messico. Ci imbattemmo in un mega posto di blocco. Esercito schierato, controllo capillare dei documenti con pile sparate in faccia, cani a bordo, interrogatorio con il classico “Do you like America?” come ciliegina finale. Fu un’esperienza elettrizzante e formativa. Mi chiedo da allora se i militari pensino che qualcuno possa realmente rispondere “No, non mi piace l’America” in condizioni tanto stringenti.


Dopo aver bighellonato avanti e indietro lungomare, ci addentriamo a Little Odessa, una parte nota per ospitare una nutrita popolazione di origine russa. Qui la sopraelevata dei treni domina ogni cosa e crea un ambiente particolare, una sorta di sottomondo un po’ cupo e malandato, un luogo assai poco luminoso e ospitale, e niente affatto raccomandabile. E anche la gente sembra poco propensa alla solarità e alla leggerezza. Ma sono sensazioni estemporanee, che lasciano il tempo che trovano. E a Little Odessa di tempo ne dedichiamo davvero poco.



Risaliamo verso la sopraelevata dei treni e riprendiamo la metro fino al cuore di Brooklyn. Scendiamo a Prospect park. La prima cosa che ci colpisce uscendo è il numero ingente di agenti di polizia schierati in zona. Alcune strade sono chiuse, molte sono le deviazioni e altrettanti i percorsi obbligati, in cielo volano vari elicotteri, forse perché entriamo nelle zone di competenza di Henry, il più avido e debole fra i Bravi Ragazzi di Scorsese. Temiamo sia accaduto qualcosa di grave, ma a ben vedere i volti degli agenti del NYPD sembrano distesi, lo spiegamento di forze è notevole ma forse stanno allestendo il terreno per un evento di una certa portata. La seconda cosa che notiamo è che il Prospect è senz’altro un parco bello e molto frequentato dalla cittadinanza, ma non gode delle stesse cure di cui beneficia Central park, di cui sembra il fratello intrigante ma un po’ trascurato.





Scopriremo con un pelo di ritardo che oggi è il labour day, la festa dei lavoratori che negli Stati Uniti si tiene il primo lunedì di settembre. Una sorta di festa di fine estate, anche se la temperatura adesso è torrida e l’estate sembra in piena enfasi. Quest’anno alla festa è abbinato il Carnevale Caraibico di New York, ma noi intuiamo soltanto che sia in corso una parata, perché da lontano si sente un gran casino in giro per strada e ogni tanto sfrecciano auto a tutto gas con bandiere giamaicane e gente che a bordo festeggia con musica a palla. Sfioriamo soltanto la coloratissima festa dei popoli latini, che sfilano a suon di tamburi, fischietti e musica in Eastern parkway fino a Grand Army Plaza. Siamo defilati ormai, e la stanchezza accumulata non ci rende lucidi e reattivi al punto da prendere, sterzare e impennare al volo verso il cuore della festa. E’ un peccato aver perso la sfilata, ma la fortuna è che NY non ti da tempo di pensare, devi continuare ad andare, a percorrerla e scoprirla senza rimpianti per quel che non è stato, perché tanto sai bene che ci sarà qualcos’altro di cui stupirsi, oltre la prossima svolta.






Dopo Prospect percorriamo la quinta strada, una via molto allegra e colorata, piena di locali e baracchini. Purtroppo tanti esercizi commerciali sono chiusi per la festa dei lavoratori. Usiamo la quinta come bussola ma facciamo l’elastico nelle vie che la intersecano e scopriamo case dai disegni e dalle tinte deliziosi, molto simili a quelle di Soho e Greenwich, ma più austere e signorili, dato che al loro cospetto siamo persuasi a un certo rispetto reverenziale. Questo è il cuore di Brooklyn, un cuore sobrio ma caldo, che si fa attraversare con piacere, senza attriti. Noi cerchiamo di fare la cosa giusta, come Sal e Mookie nel film di Spike Lee.





Io e Franci non abbiamo sentito mai un caldo simile. Non parlo solo della temperatura, parlo della qualità opprimente del caldo che a tratti si fa soffocante. L’umidità è oltre i livelli di guardia e io non smetto mai di sudare. Ci fermiamo in un localino per una pausa. Oggi ci rendiamo conto di essere palesemente in riserva e ci concediamo un’insalata per pranzo, a maggior ragione perché la giornata sta prendendo una piega impegnativa. C’è tanto da camminare, e dalla mappa capiamo che avremo bisogno di energia supplementare per raggiungere i nostri obiettivi. Anche gli zaini sembrano pesanti, per quanto contengano poco o nulla. Dentro c’è forse il peso dei giorni passati, e la schiena inizia a mandare segnali di disapprovazione.






Poco importa, ripartiamo. Come dicevo, è quasi tutto chiuso ma in quel quasi Franci riesce comunque a trovare un mercatino di abiti usati davvero originale. Il negozio è popolato da gente bella e stravagante. Ognuno sembra uscire da un tempo diverso, ognuno ha il suo stile ben marcato. Franci trova una giacca fantastica, una di quelle che le calzano a pennello perché richiamano l’abbigliamento londinese pop rock degli anni 70. E a lei quello stile si addice alla perfezione. Ora la giacca c’è, le mancherebbe soltanto un palco per esprimersi al meglio.





Proseguiamo e passiamo davanti al Barclay center, un tempio del basket di cui ci limitiamo a rimirare gli esterni, poi i palazzi ricominciano gradualmente a stagliarsi verso il cielo e fra questi spicca la Brooklyn Tower, il mio grattacielo preferito, per quanto alcuni sostengano che abbia rovinato il profilo di Brooklyn. Nera e stretta come i pantaloni di pelle di Jim, sembra la torre da cui svetta l’occhio di Mordor ne “Il signore degli Anelli”, oppure una di quelle che si levano sui pianeti alieni dell’Impero in “Star Wars”, tanto è magnetica e oscura.




Sono le tre ormai e il traffico inizia a farsi prepotente, ancora si avvistano auto festanti in giro, siamo in prossimità del ponte di Brooklyn, ne vediamo l’inizio e ci infiliamo alla sua destra, per scendere verso Dumbo. La zona sembra un tantino malfamata, per la prima volta abbiamo la pur vaga sensazione di non essere nel posto giusto, ma andiamo avanti senza patemi e dopo varie deviazioni e alcuni errori che ci sfiancano arriviamo Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Dumbo è un delizioso e vivace quartiere incastonato come un diamante fra il ponte beige di Brooklyn e quello azzurrino di Manhattan.



In quel coacervo di vie solcate e sovrastate da ponti troviamo un luogo magico. Immagino senza fatica Max, Noodles e soci scappare dalla furia vendicativa di Bugsy, quel colpo di pistola che squarcia la via e la vita del piccolo Dominic, centrato alle spalle senza pietà. Il cuore di “C’era una volta in America” è qui davanti ai miei occhi innamorati del cinema di Sergio Leone, e io vago in contemplazione, quasi disorientato, con la colonna sonora del film che mi percorre come fosse un brivido. E’ una gioia incontenibile essere qui. Questo è l’angolo di New York che bramavo più intimamente, e farò di tutto per prolungare la nostra permanenza qui.

Inanello foto in serie, per immortalare ogni sfumatura possibile di quel luogo che in fondo sembra vivere da sempre dentro di me. Non voglio perdere nulla di quanto osservo, voglio catturare ogni dettaglio, farlo prigioniero, e poi fonderlo nei miei ricordi per sempre. Il ponte di Manhattan da Washington street è una meraviglia, sono devastato in questo momento ma l’estasi prevale. Amo la mia ragazza, che ha contribuito a realizzare certi sogni che magari all’inizio erano solo miei ma che poi abbiamo sempre costruito e vissuto insieme. Si è sempre fidata di me nonostante l’abbia condotta anche in luoghi discutibili in condizioni discutibili, ha sempre trovato il lato positivo in ogni situazione anche quando magari ero io a preoccuparmi, e i nostri sogni sono divenuti reali.




Qui a Dumbo la osservo con attenzione mentre la fotografo: è distesa e sorridente, e la fatica le scivola via con eleganza come sempre, e penso al fatto che siamo indissolubili. Amo profondamente questo nostro film di genere indefinito che mi scorre innanzi proprio mentre sono al cospetto della location simbolo di “C’era una volta in America”, che è l’opera cinematografica che preferisco perché rappresenta la vita stessa, in tutte le sue forme, da quelle più limpide e luminose a quelle più cupe e dolorose. E’ il momento perfetto, in cui ogni cosa è al suo posto.



Amo New York, amo la vita che in questo luogo pulsa incessantemente, e non si può non consacrare un momento simile con dei flights multicolore nella Evil twin brewery, che a due passi da qui propone un menù vastissimo di birre alla spina di ogni tipo e gradazione. Fra l’altro, la birra produce effetti diuretici, come noto, e l’unico bagno disponibile in zona è posizionato proprio sotto la cartolina che non riuscivo a smettere di guardare. Ne approfitto per un break e una nuova sortita al suo cospetto. La birra ci rilassa, i muscoli abbandonano la tensione accumulata. Chiedo di salutare per l’ultima volta la visione cinematografica del Manhattan Bridge e ci dirigiamo lungo fiume per guardare lo skyline di NY dal suo profilo migliore.




Lungo la via incrociamo un fantastico magazzino della Brooklyn Historical Society, che contiene locali e negozietti vari, ma ci rendiamo conto passandoci accanto che dentro la temperatura è prossima allo zero. Non vogliamo ammalarci e lasciamo perdere. Scoprirò solo in Italia che abbiamo perso la possibilità di ammirare la vista dal terrazzo che si affaccia sull’East river. Poco più in là c’è St. Anne Warehouse, un bel teatro dalle fogge simili a quelle del magazzino, ricavato da un antico deposito di tabacco.




Proseguiamo verso la promenade e ci fermiamo nel Brooklyn Bridge Park, da cui ammiriamo Manhattan in tutta la sua bellezza. Da qui i giganti sembrano veleggiare su un’enorme chiatta, che si direbbe alla deriva se non fosse ormeggiata al ponte di Brooklyn, che pare trattenerla senza alcuno sforzo, come il braccio di un padre col figlio. Non possiamo far altro che starcene seduti ad ammirare in silenzio un simile spettacolo.





Ormai sono le 5, non è abbastanza per godersi il tramonto, ma noi iniziamo a deambulare con fatica, io sto perdendo la posizione eretta che l’uomo ha conquistato con tenacia e determinazione, e prendiamo l’ardua decisione di salire le scale verso il primo ingresso disponibile, in anticipo rispetto ai tempi previsti.







Il ponte di Brooklyn mi trasmette subito un’idea di immensa solidità, è il ponte di un transatlantico che solca l’East river in modo poderoso, e i tiranti si intersecano fino in cielo, dove è impossibile intravederne la sommità. Oltre le lanterne utili alla visione notturna e a rendere più amena la vita della ciurma a bordo, spiccano degli strani dischi in posizione verticale.






Le teorie a supporto sono le più disparate. Sono Wagasa, gli antichi ombrelli giapponesi, costruiti con maestria, bambù, corda e washi per proteggere il bastimento dall’ira divina? Sono 78 giri su cui scorre imperterrita la travagliata storia della costruzione del ponte? O rappresentano i ventagli che Daitarn III utilizza come scudo solare? Non lo sappiamo, ma di certo il cielo è di nuovo terso, il vento ha spazzato via parte dell’umidità corrosiva di oggi, e noi ci divertiamo a osservare il sole che cala fra i ciclopi di Lower Manhattan.






Scattiamo foto in tutte le direzioni, alla ricerca della giusta angolazione, dello scivolo migliore per le correnti luminose che soffiano fra gli spogli alberi di questa nave possente, mentre i veicoli viaggiano quasi impercettibilmente sotto coperta. La barra del timone è dritta, guadiamo il fiume senza tentennamenti con l’illusione di camminare.







Il ponte di Brooklyn è un nastro trasportatore azionato dalla forza di mille uomini, e noi scivoliamo senza attrito sulla sua superficie. Attracchiamo dall’altra parte sorridenti ma sorpresi dalla rapidità della traversata, che vorremmo ripetere avanti e indietro finchè non sarà notte e poi giorno e poi notte ancora. Mentre scendiamo, Francy trova un cappello adatto a me che ho un cranio inadatto ai cappelli. Lo provo, è perfetto, che non significa che mi stia bene, ma per 5 dollari possiamo procedere.








Siamo a terra adesso, passeggiamo ancora un pochino prima di riprendere la metro, di cui non abbiamo più alcuna paura. Puntiamo dritti al Grey Dog, un caffè di quartiere non lontano dal nostro albergo, famoso per le colazioni e per gli hamburger. Divoriamo con gesti famelici due panini squisiti. Io concludo la serata con un margarita, che è un cocktail molto diffuso nella letteratura newyorkese e uno sfizio che volevo togliermi.







Non ci resta che l’ultimo miglio prima di arrivare nella nostra casa temporanea. La sera avvolge la città della solita elettricità, è un peccato andare a dormire, ma abbiamo dato tutto. Il gps segna altri 20 chilometri e siamo piegati dai crampi. Arrivare in hotel è un sollievo. Lavarsi, stendersi al chiaro di luna ad asciugare, e poi stirarsi e fare le fusa come gatti prima di sprofondare senza gravità fra le nuvole e le profondità del firmamento. Ora siamo soltanto punti indistinti nella notte, frammenti di umanità sospesi fra la terra e il cielo di New York, storie sommate ad altre storie in questo mezzosogno di finestate.


