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Namibia Family Adventure – Day 3 – Southward Day

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Cronache e Storie d'Osteria

Ecco domani. Sono passate da poco le 7 quando ci svegliamo. Dormire bene dopo i due giorni appena trascorsi è stato come morire e poi rinascere. Ogni volta che mi ricapita una situazione simile mi torna in mente un viaggio in Andalusia di tanti anni fa, con Franci e basta.

GRANADA

Correva l’anno 2007. Eravamo a Granada e ci svegliammo che ancora era notte per andare a far la fila all’Alhambra. Non mi ricordo i motivi di quella dinamica, forse gli ingressi erano contingentati e noi non avevamo prenotato.

Fatto sta che entrammo all’alba dopo una bella camminata, salendo e scendendo ogni angolo della fortezza rossa, sotto il sole e poi sotto la pioggia e poi sotto il sole e sotto la pioggia, per poi tornare in stato catatonico nella stanza affittata da una coppia di anziani e gentili signori. In quella stanza c’era un odore stantio, l’odore delle case dei vecchi, l’odore del tempo, eppure noi precipitammo in un sonno profondo e senza sogni, come quello dei veri avventurieri, risvegliandoci insieme con cautela nell’ennesima notte. Girammo poi storditi alla ricerca di un pasto, e il pensiero di noi due in quella serata andalusa sembra collocabile più nelle dimensioni del sogno che in quelle della veglia. “Andalucia with fields full of grain. I have to see you again and again”.

RURAL BREAKFAST

Ma torniamo in Namibia: usciamo dal guscio, e andiamo a vedere il sole che sorge pigro sul deserto. L’aria è fresca e pulita, camminare fino all’area breakfast è un piacere, mangiare le uova che ci propongono un po’ meno, perchè siamo praticamente all’aperto e si percepisce il freddo pungente del Kalahari all’alba.

Notiamo alcuni viaggiatori in piumino. Noi non siamo attrezzati fino a quel punto, ma contiamo di cavarcela con gli indumenti tecnici che utilizziamo d’inverno in montagna (giacca esclusa ovviamente). Io avrò quasi sempre freddo al mattino, ma ormai è una mia prerogativa. Facciamo la solita abbondante colazione, io faccio overdose di caffè americano, ci rinfreschiamo e poco prima delle 10 partiamo. Inutile nascondere ai ragazzi che anche oggi ne avremo di strada da fare. Ma sono allegri e riposati, e ciò è di buon auspicio.

TILT A KEETMANSHOOP

La prima tappa prevede di percorrere la B1 verso sud fino a Keetmanshoop. Circa tre ore di strada che per poco non subiscono la deviazione di turno verso il Brukkaros, un vulcano estinto che da ovest ci chiama a sé in modo suadente, ma non abbastanza da convincerci a sterzare. Ci fermiamo a nell’anonima Keetmanshop, perchè è lo snodo per la prossima tappa e perchè i bambini hanno voglia di uno spuntino. Concediamo loro l’unica risorsa disponibile, un fast food inserito in un centro commerciale.

Mentre i bambini mangiano le porcate del caso, mi aggiro in questo agglomerato di botteghe. Due cose mi colpiscono: una è il rotolo di carta igienica posizionato fuori dai bagni pubblici, per cui ognuno se ne deve rifornire (con parsimonia) prima di entrare a far le proprie cose; la seconda è un’orda di bambini malmessi e affamati che si aggirano in zona. Gli diamo un po’ del nostro cibo, poi ci avviamo verso la macchina, e notiamo i vigilantes del luogo che li inseguono e picchiano senza troppi complimenti. Uno dei bimbi viene colpito e cade a terra, batte la testa sul marciapiede e piange. Restiamo allibiti ma immobili. Nessuno reagisce in alcun modo, come se questa scena facesse parte della quotidianità. Giamma assiste da due passi e non riesce a crederci. Lo vedo in tilt, lo sono anche io, impossibile accettare che un bambino così piccolo subisca un trattamento simile, per quanto noi non sappiamo nulla delle dinamiche di quel luogo. Non possiamo fare granchè e allora facciamo il poco possibile: con una manovra mi avvicino a quel gruppo di bimbi ormai in fuga, mentre Franci passa loro il cibo che abbiamo. Lo afferrano in modo famelico, ci chiedono soldi, ma non ne abbiamo. Poi ci salutano e noi facciamo altrettanto. Il bimbo malmenato si tocca il capo ma sembra a posto. Ci allontaniamo e Giamma e Iri non li mollano con lo sguardo. Ne parliamo: la loro vita è senz’altro dura, ma per lo meno formano un piccolo branco, come magari ce ne sono tanti altri. Ma insomma è difficile girare intorno a situazioni tanto palesi. Mio figlio è un ragazzino sveglio, sento che continua a pensarci e mi chiedo se quell’immagine si tramuterà in un ricordo difficile da gestire. Io ho più problemi con il suono vivido della voce di quel bambino in lacrime. Tutte cose che tocca tenersi, come certi dubbi.

IL PARCO GIOCHI DEI GIGANTI

Ora però andiamo verso est, la via è il destino del viaggiatore. Ci attendono il Giant’s Playground e la Quiver Forest. Il primo è il parco giochi del gigante, un luogo suggestivo e luminoso, dove enormi massi di dolerite sembrano essere stati ammucchiati per gioco da leggendari giganti. Queste formazioni rocciose ricordano un pochino la Goblin Valley dello Utah del mio cuor, per quanto le rocce americane fossero molto più levigate e tondeggianti.

Queste curiose formazioni sono state causate dall’erosione della roccia sedimentaria sottostante circa 170 milioni di anni fa. I sedimenti magmatici erosi dall’acqua, dal vento e dal tempo, si sono dissolti portando alla luce la coriacea dolerite, i cui massi formano un labirinto in cui ci siamo divertiti a giocare per almeno un’ora. La luce è magnifica in questo luogo, inoltre siamo praticamente soli ed è più semplice comprendere quanto sia effettivamente facile perdersi di vista o disorientarsi. Per tornare ci aiutiamo con un furgone che vediamo arrivare in lontananza.

KOKERBOOM

La Quiver forest invece è una foresta naturale di alberi faretra o “Kokerboom”, come la chiamano i Boscimani, che usano i suoi rami per creare faretre. La caratteristica principale di questa maestosa aloe è la dicotomia: le sue chiome infatti si biforcano reiteratamente. Ne abbiamo ammirati alcuni esemplari da vicino ed altri soltanto dalla strada, perchè, come spesso capita, ci siamo resi conto di essere in ritardo. Anche tenendo un buon ritmo rischiamo di arrivare tardi nel parco naturale del Gondwana, e in Namibia non è mai una buona idea guidare di notte.

IL PROFONDO SUD

Siamo diretti nel profondo sud namibiano, vicino al confine col Sudafrica, e il motivo è presto detto: laggiù si snoda il Fish River Canyon, il secondo canyon più grande al mondo dopo sua maestà il Grand Canyon. Per arrivarci dobbiamo proseguire lungo la B1, ma poi ci attendono una C e una D, di cui ignoriamo le potenziali difficoltà.

Tiriamo fuori dal cilindro il portatile e concediamo un film ai ragazzi, che sono visibilmente stanchi. Il paesaggio è lunare, la strada è polverosa ma si mantiene piatta e piacevole: guidare qui è una vera goduria. Improvvisamente tutto intorno diventa verde, verdissimo. Sfilano colture di ogni tipo, persino delle sensuali e rigogliose vigne. D’un tratto ci troviamo di fronte a un piccolo guado, e mi scatta un’allerta perchè è uno dei punti su cui hanno fatto leva i tizi dell’autonoleggio: occhio ai piccoli ponti pieni d’acqua, è facile sottovalutarli e rimanere bloccati!! Prima che scatti una paranoia di gruppo, arriva con perfetto tempismo dal senso opposto di marcia un pickup che si butta dentro senza alcuna riverenza.

Abbiamo sovrastimato il problema, il guado è divertente e saremmo tentati di ripeterlo se non fossimo sempre dannatamente a pelo coi tempi. Dopo qualche curva, ad uno dei tanti incroci coi binari, che meriteranno un discorso a parte, spunta fuori dal nulla una serie di baracche colorate, forse un luogo di sosta, di quelli che piacciono a noi.

CANYON FARM YARD

E’ il Canyon Farm Yard di Wallie e Maisie, un campeggio e ristoro immerso nel deserto, costruito in modo geniale con oggetti o pezzi di oggetti assemblati in modo tale da comporre un’opera d’arte, una mostra permanente a cielo aperto, una raccolta di ricordi o di frammenti di storie che sono capitati lì chissà come. Mi chiedo da dove venga quella montagna di roba che andrebbe perduta nelle mani di gente priva di estro e fantasia. Siamo in mezzo al nulla, chi può averla portata lì?

Targhe, furgoni, biciclette, bidoni di varia grandezza, macchine, cisterne, rottami, motociclette attaccate a un carro gommato. Ovunque ci sono tracce di viaggiatori di ogni parte del mondo, e si capisce al volo che questa strana coppia ha creato un luogo irresistibile, un’oasi nel deserto, un miraggio a lungo termine, un posto in cui diventa obbligatorio fermarsi, anche senza motivo. Questi sono i luoghi imprevedibili che un viaggiatore ama incontrare, luoghi che capitano, che ti finiscono addosso come se fossero elementi mobili. Se poi all’interno ci sono un bar con gelati e birra fresca e una piccola selezione di oggetti e opere d’arte in vendita, allora siamo proprio fregati.

WALLIE, MAISIE E LA MODERNITA’

E poi è d’obbligo fermarsi a parlare con Wallie e Maisie, due tipi simpatici che rifiutano la modernità, ogni forma di connessione col mondo che non sia naturale e tangibile, insomma tutto ciò che impone la globalizzazione. Li capisco, ma ribatto loro che senza gli strumenti che la tecnologia offre non avrei potuto nemmeno organizzare questo viaggio ardito coi bambini al seguito. Alla fine dei conti, tutto dipende dalle esigenze di ciascuno.

Per chi vuole viaggiare e conoscere, senza essere omologato e chiuso dentro un villaggio turistico, è impossibile ad esempio non sfruttare tutti gli strumenti di condivisione che la rete ci offre. Leggere le miriadi di esperienze di viaggio dei viaggiatori autentici è per me una fonte continua di ispirazione e tentazioni. Tutto ciò non sarebbe stato possibile fino a pochi anni fa, e dal mio punto di vista è una scoperta preziosa. Credo anche che, senza certe finestre virtuali sul mondo, Wallie e Maisie avrebbero molti meno clienti, anche se è palese che stiano lì per passione e per una naturale inclinazione all’ospitalità. Praticano prezzi veramente onesti, e così compriamo qualche oggetto nella loro bottega, incluso un grazioso e coloratissimo quadro dipinto da Maisie.

ZEBRE MAGICHE

Chiacchierando non ci rendiamo conto che la luce sta cambiando e che sono le 17e45. Abbiamo più di un’ora di strada da fare e le probabilità che arriveremo di notte sono aumentate sensibilmente. Salutiamo i nostri nuovi amici e ci avviamo. Il sole scende inesorabile davanti a noi, ma siamo sereni. E’ una terra magnifica quella che abbiamo negli occhi. Splendidi massicci e frammenti di canyon si alternano in lontananza. Riflessi rossi e arancioni accarezzano il crepuscolo africano incuneandosi fra le mutevoli linee d’ombra.

Aumento un pochino il ritmo fino a quando incontriamo un piccolo gruppo di zebre che attraversa la strada. Mi fermo, le zebre fanno altrettanto. Ci osservano curiose e tranquille, e sembrano volerci riportare alla calma. Sembrano dire che non c’è alcun bisogno di correre, che va tutto bene. Le osserviamo per qualche istante e poi ripartiamo. Incontriamo altri animali, per lo più orici e struzzi. Scende la notte su di noi, ma la nostra nuova casa è vicinissima. Intravediamo delle luci soffuse dentro la notte nera, siamo arrivati a destinazione.

GONDWANA CANYON VILLAGE

Il Gondwana Canyon Village è un altro luogo strabiliante, incastonato com’è all’interno di un semicerchio di rocce rossastre, e con l’infinita pianura davanti, oltre la quale sprofonda e dilaga impercettibilmente il Fish River Canyon. Di notte non comprendiamo la geografia esatta del villaggio, e i bambini fanno fatica a individuare la capanna in cui dormiremo. La nostra è posizionata al confine non tracciato col mondo fuori, a ridosso di rocce strabilianti che incombono su di noi come guardiani notturni.

JOHN E IL MOJITO BAR

Con mia sorpresa scovo un Mojito bar, dove ordino da bere per me e Francy mentre i bambini esplorano il perimetro. Siamo sereni, stiamo bene, è stata una giornata positiva e preziosa, che ci riscatta delle fatiche patite. A bancone conosco un simpatico ragazzone sudafricano, che mi regala qualche dritta per poter camminare coi bambini a ridosso del canyon, l’indomani. John tornerà da noi per mostrare ai bambini un bel geco, e poi lo rivedremo qualche minuto dopo cadere rovinosamente a terra dentro il ristorante, prima di scomparire per sempre dietro le quinte del Gondwana. Ma dove sono i Doors?

LO SHOW

E’ ora di cena, e prima di accedere al buffet, che i bambini adorano come fosse il più divertente dei giochi, lo staff si e ci concede balli tribali e canti toccanti. E’ una grande emozione, le loro voci sono calde e avvolgenti, i loro occhi limpidi e sinceri. Balliamo anche noi, poi passano in serpentina fra i tavoli: Franci è commossa e da il cinque a ciascuno di loro.

La sala è calda, gremita di legno possente e lumi di candela. L’atmosfera è rilassata, il cibo buonissimo. Ci godiamo la serata finchè la stanchezza non prende il sopravvento. Seguiamo le luci fioche fino alla nostra capanna, come i viandanti nel mondo antico.

LEGIONE PORPORA

Arriva la notte con la sua legione porpora, ritiratevi ora nelle tende e nei sogni. Domani entriamo nella città della mia nascita. Voglio essere pronto.

NAMIBIA Family Adventure – Day 2

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Kalahari Day

NOTTE INTERCONTINENTALE

La notte in aereo si conferma piuttosto tormentata. Il freddo glaciale e la scarsa possibilità di muovermi diventano presto un problema. Spazio ce ne sarebbe anche, ma il mio e quello di Franci risultano limitati dalla priorità di far riposare i bambini in vista del primo giorno in Namibia, in cui dovranno essere freschi e riposati, onde evitare crisi di sorta. In effetti il primo giorno in terra straniera per il viaggiatore rappresenta sempre un test importante. Ci si deve ambientare in una nuova terra, si deve prendere confidenza con strade e macchina nuove nel modo più rapido e funzionale possibile. I bambini in questa fase devono essere a posto. Avremo modo poi di torturarli a dovere. Magari persino prima del previsto.

L’APPRENDISTA ESPLORATORE

Ulteriori elementi di insonnia aerea mi vengono forniti da un tedesco alto due metri, con un viso grande e squadrato e uno sguardo indagatorio: indossa pesanti scarpe da trekking, dei pantaloni cachi da esploratore e una maglia rosa, come parecchi ragazzi a bordo; è probabilmente a capo di una comitiva, o forse di una setta, e per gran parte del viaggio se ne starà in piedi davanti a me, rivolto verso i ragazzi che siedono alle mie spalle, perlustrando con gli occhi tutta la superficie disponibile, così da poter dissipare i sospetti di cui la sua natura si nutre. La sua posa è curiosa, dato che è costretto a inclinare leggermente il capo per posizionarsi in uno spigolo incastonato fra il bagno e le cappelliere. Non apre mai bocca, non cambia espressione, scruta il perimetro in modo rigoroso e persistente alla ricerca di chissà che cosa, ma a lungo andare s’intravede un che di stolido e inanimato nella sua espressività, tanto da farmi pensare che sia un ripetente trentennale alla disperata ricerca di quel diploma da esploratore che gli sfugge sul campo da una vita. Forse stavolta ce la farà.

HOSEA KUTAKO

Verso le 7 del mattino del 21 giugno atterriamo all’aeroporto Hosea Kutako di Windhoek, che è poco più di una pista in mezzo al deserto. Scesi dall’aereo, il percorso per entrare nel minuto aeroporto ci viene indicato da una decina di operatori dislocati fra l’aereo e l’ingresso. Questa segnaletica umana -non particolarmente sorridente peraltro- sostituisce i bus di collegamento aeroportuale, le insegne luminose, e i percorsi obbligati cui siamo abituati. Nel frattempo un gruppetto di circa 30 uomini vestiti in tuta da lavoro blu e gilet giallo catarifrangente corre accanto a noi intonando un motivetto in stile Full metal Jacket. Credo faccia più o meno così: “Crepi Ho Chi Minh, Viva il corpo dei Marines!!” Che sia un’esercitazione? Troppo causale per avvenire in concomitanza dall’unico atterraggio previsto per qualche ora. Più probabile che i ragazzi si dirigano in modo folkloristico a ritirare i bagagli dei passeggeri. Ma questo lo capirò soltanto poi, quando mi renderò conto di quanto sia scarso il traffico aereo da queste parti.

IL BIGLIETTO D’ORO WONKA

Non appena entrati, ci accolgono il suono delle percussioni e il canto e le grida di un gruppo di donne del luogo. Poi la musica prende forma e si mostra nel trambusto danzante e nel colore fucsia dello sparuto drappello che intrattiene i nuovi arrivati in Namibia. Effettuiamo i controlli piuttosto rapidamente, e anche qui ci chiedono il famigerato certificato di nascita, che però non è in lingua inglese. Indichiamo loro i nomi nostri e dei nostri figli sul magico lasciapassare, un pezzo di carta che per noi vale quanto un biglietto d’oro Wonka. Passiamo oltre e i bagagli stivati tornano rapidamente nella nostra disponibilità. Un altro vantaggio del dover liberare le viscere di un solo aeroplano alla volta.

KEEP CALM

Cerchiamo poi il banco dell’Avis, la compagnia di noleggio scelta in base al solito e unico criterio, il rapporto qualità/prezzo. Il ragazzo con cui effettuiamo le pratiche di ritiro è gentile e sorridente, e non esercita il consueto pressing per rifilarci un upgrade non appena gli spiego che siamo già assicurati oltre misura. Andiamo fuori, dove ci mostrano la macchina, una splendente Toyota Fortuner bianca.

Prima di andare, ci chiedono 15 minuti per mostrarci delle slide in ufficio: ci spiegano che l’85% delle strade è dissestato, che gli incidenti (anche mortali) sono enne volte più frequenti che in Europa, che le strade sono classificate da A a D a seconda dello stato in cui versano, che le probabilità di bucare qui sono tra le più alte al mondo, che non avremo mai rete né possibilità di comunicare se non abbiamo un satellitare (e non abbiamo un satellitare), che ci sono 5 strade dannatamente insidiose (a una rapida occhiata, dovremo farne necessariamente 3, ma me lo tengo per me), che dobbiamo andare piano (ma non troppo), che dovrò fare molta attenzione ai tir che arrivano sparati da dietro.

Insomma ci forniscono solo belle notizie e ci tranquillizzano prima di salire a bordo del nostro nuovo mezzo.

La Fortuner è molto più grande del mezzo con cui mi muovo di norma nella dorata campagna marchigiana. Prendo un attimo mano con la guida a destra (è la mia terza volta), e nell’arco di due rotatorie il rodaggio è completo. Oggi dobbiamo precorrere una strada molto buona, una B, per circa 3 ore e 30. Ho studiato un percorso facile per ammortizzare le fatiche del viaggio. Andremo verso ovest fino a Windhoek, dove potremmo fare un giro a piedi, e poi proseguiremo verso sud, fino a una fattoria nel deserto del Kalahari, dove ho riservato un breve tour esplorativo sulle dune.

LA SVOLTA

Questo approccio soft alla Namibia, studiato per evitare traumi il primo giorno, subisce una battuta d’arresto imprevista dopo pochi km. Premetto che utilizziamo Google map con le mappe off line, scaricate giorni prima sul mio smartphone. In questa declinazione, la app funziona bene comunque, ma è prudente evitare deviazioni consistenti. Ebbene, Francesca nota che il navigatore ci suggerisce un percorso alternativo: si tratta di svoltare prima di Windhoek, per la C23, con un risparmio netto di oltre un’ora sul tempo di percorrenza previsto. Non sono d’accordo, e lo ribadisco con forza due volte, per i motivi già espressi. Ma Franci si impunta, non vuole sentire ragioni, siamo stanchi e un’ora in meno di strada è un vantaggio da sfruttare. Così, quando arriviamo alla svolta e vediamo che la strada è asfaltata, cedo ma con preoccupazione, perché una C può essere insidiosa al battesimo. La strada procede regolare per circa 45 minuti, finchè non deviamo brevemente su una strada di terra per fare rifornimento d’acqua.

Riprendiamo la via principale e d’un tratto la strada diventa di rocciosa. Dapprima è una roccia abbastanza levigata e piatta, poi frastagliata da solchi orizzontali via via più profondi; infine la strada si trasforma in un dilaniante percorso a ostacoli per evitare buche e massi d’ogni tipo. A quel punto il navigatore impazzisce, e di colpo il tempo di percorrenza aumenta fin quasi a raddoppiare. Mi fermo accanto all’unica jeep che incrociamo per km e un uomo mi spiega che ho imboccato una parallela della strada principale (ma questo lo sapevo già), una via più immersa nel Kalahari, che la strada è tutta così, e che ormai è troppo tardi per tornare indietro: devo proseguire il mio calvario fino a destinazione.

FAR WEST

Ora, cari lettori, capirete bene che uno che si è fatto un volo transcontinentale dormendo poco e male, con le magagne patite in aeroporto a Bologna, la scarsa lucidità e gli oltre 30 gradi su una pista dissestata, al volante di un mezzo nuovo con guida a destra e le corsie che in quella strada sono solo un’idea, possa scoppiare improvvisamente come una bomba a orologeria. Ed è proprio ciò che capita, perché sono nervoso e provato e guidare senza preavviso su quella superficie immersa nel nulla mi crea ansia e difficoltà. E continuo a ripetere che l’avevo detto e che non bisogna mai andarsele a cercare.

E così per un’ora scatta una specie di Far west in macchina, un tutti contro tutti che non vede né vincitori né vinti, nè caduti o feriti sul campo di battaglia, finchè finalmente la strada diventa più dolce grazie a uno strato leggero di sabbia e alle buche in graduale diminuzione. Franci continua a scusarsi e a ripetere che ha rovinato la vacanza (non ci riprenderemo più! Il viaggio è rovinato!!), io sono stanchissimo, vedo doppio e non parlo più, i bambini sono frastornati, ma poi superiamo la soglia del dramma quando capiamo che il navigatore si è stabilizzato, e che la nostra fattoria non è più lontana. Il panorama ci regala scorci più colorati e scoscesi, i nodi si allentano per poi sciogliersi definitivamente in prossimità della meta.

IL RANCH

Arriviamo quando sono le 15e30, con un paio d’ore di ritardo, e in un istante tutto è calma e quiete, come al termine di una poderosa tormenta. Ci rassereniamo, facciamo pace (facciamo sempre pace), solleviamo una sbarra ed entriamo nella Janssen Kalahari Guest Farm come fosse il nostro ranch, nel modo che mi è spesso capitato di sognare a bordo di un libro che mi ha spinto a veleggiare al confine fra Montana e Wyoming, o più verosimilmente -in tal caso- fra Arizona e New Mexico. Come ogni struttura che ci ospiterà in terra selvaggia, anche questa è pressochè invisibile ad occhio nudo, tanto è immersa nel paesaggio. La intuiamo gradualmente, fra piccole dune e scalcagnate insegne di legno. Scesi dall’auto possiamo avvertire il silenzio, profondo come il deserto che digrada all’orizzonte. Qui il tempo sembra rallentare improvvisamente, o cambiare direzione e girarti intorno, una sensazione frequente in queste lande desolate. Qui il rapporto fra spazio e tempo è in certo senso tangibile.

IL DELIQUIO

Una solare namibiana ci accoglie alla reception, ci indica il lodge, ci rifornisce di acqua e birra. Sistemiamo le nostre cose, ci rinfreschiamo, e io affondo nelle cavità più profonde dell’incoscienza, fino a perdermi in un sonno che è morte pro tempore, in un modo e in un mondo che mi rammenta la scena in cui uno dei protagonisti di Trainspotting viene inghiottito nel pavimento dopo un brutto viaggio. Il risveglio è altrettanto cinematografico: mezz’ora dopo, ma sembrano due giorni, uno dei miei mi scuote e mi dice: dobbiamo andare! E io mi vedo come Jim a LA nel film di Stone, quando Ray o chi per lui lo scuote dal sonno dicendogli: Jim, così perderai l’aereo! Non c’è nessun aereo, ma una jeep che alle 17 ci condurrà nel Kalahari.

SUL PICK UP

Saliamo sul cassone di uno dei due pick up insieme a una coppia svizzera con cui avremo modo di condividere il nulla assoluto. La luce è calda e avvolgente, e il colore della sabbia attraversa tutte le tonalità del giallo, dell’arancio e del rosso, adeguandosi mutevolmente all’inclinazione dei raggi solari e ai nostri gusti calcistici.

Mister Janssen guida uno dei pick up, noi siamo sull’altro in coda. Facciamo un po’ di strada immersi in un vento piacevole e rigenerante, e di tanto in tanto ci fermiamo all’ombra di un albero per ascoltare i racconti del padrone di casa sulle origini della fattoria, sugli allevamenti e sulle coltivazioni possibili grazie a una fonte sotterranea di acqua dolce che rappresenta la fortuna degli Janssen, una delle tante famiglie tedesche che vive in Namibia da generazioni, in certi casi dagli inizi del 900.

Avvistiamo gazzelle, zebre e una giraffa, e poi ci fermiamo sotto un nido di uccelli enorme, abbarbicato come altri a un grosso ramo. Questi nidi contengono uccelli a centinaia, e i piccoli passaggi posizionati nella parte sottostante somigliano al ventre gravido di una specie aliena. I volatili producono un concerto celestiale, composto di suoni e motivetti che inducono all’allegria e alla spensieratezza. Ce li godiamo per qualche istante, prima che il motore venga riavviato. Ci hanno raccontato che questi nidi durano finchè il ramo non cede sotto il peso eccessivo. Capiterà poi di vederne tanti accasciati qua e là nei giorni a venire.

IL TRAMONTO DELLA SCIALBA RAGIONE

La gita è rilassante, per una volta è stupendo lasciar guidare altri e andare a passo d’uomo senza pensieri. Quando il tramonto si avvicina ci fermiamo sul crinale di alcune dune dorate, da cui la vista del deserto sconfina oltre l’impercettibile. Mentre Mr Janssen e il suo collaboratore allestiscono un piccolo banchetto, noi contempliamo e perlustriamo a piedi quel luogo magico. I bambini corrono su e giù nella sabbia soffice: è bello vederli sorridenti e leggeri dopo una giornata complessa. Ma ormai lo sappiamo, il viaggiatore è incline alle turbolenze, alle frequenti oscillazioni che rendono il cammino imprevedibile. Senza quella imprevedibilità saremmo semplici turisti, indaffarati soltanto a riempire uno spazio recintato da altri.

Il viaggiatore ha giornate buone e altre meno, ma quando sbuca dall’ennesimo banco di nebbia, la sensazione di libertà è impagabile: poter sbagliare è un privilegio enorme, soprattutto in terra straniera, a maggior ragione quando i punti di riferimento si diradano, quando le certezze sono poche. A quel punto, rientrare la sera in una zona di comfort assume i contorni di una conquista, di qualcosa che si è guadagnato sul campo, a furia di scelte indipendenti e improvvisate. Penso quindi, mentre brindiamo con un vino un po’ dolciastro per i nostri palati avvezzi al Verdicchio dei Castelli di Jesi, che la scelta forse poco lucida di Franci alla fine abbia avuto senso, regalandoci l’ennesimo brivido. Ci confermiamo viaggiatori poco convenzionali, che privilegiano (quasi sempre) l’istinto al calcolo. La scialba ragione separa l’infinito da noi.

OMBRE DEL PASSATO

Torniamo nella notte e i fari delle jeep disegnano figure allungate e spaventose sulle dune circostanti, utili ad alimentare i misteri ancestrali della terra che ha dato i natali alla specie umana. L’Africa sembra nascondere qualcosa, come se tante delle risposte che cerchiamo siano scritte qui, da qualche parte, fra gli elementi. L’aria adesso è fresca, il cielo terso. Arriviamo direttamente per cena.

Osserviamo la famiglia Janssen al completo, con figli e nipoti giunti dai 4 angoli nella Namibia per le ferie estive. Sembrano persone semplici e ben amalgamate a questa terra. Il personale namibiano si occupa di noi con rara gentilezza, forse perché anche qui i nostri sono gli unici bambini, come spesso capita. Ma chissà cosa nasconde la storia, chissà cosa c’è alle origini di questo coacervo di culture ed etnie?

Ci penso mentre osservo un cielo stellato che illumina a giorno le mie elaborazioni. Penso al tempo, a come si costruiscano e si sviluppino le storie e le vicende fra le sue maglie, a come il presente sembri spazzare via tutto, a come invece tutto in realtà sia ben visibile nei segni della terra e nei comportamenti e negli usi delle persone e dei popoli che la abitano. Arrivo in camera senza accorgermene. Cediamo al sonno immediatamente, con l’Africa a dilagare tutto intorno e dentro ognuno di noi. Siamo ansiosi e fiduciosi per domani. Chissà come sarà.

NAMIBIA family adventure – Day 1

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Posted by osteriacinematografo in immagini, Incipit, Storie, Viaggi

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Cronache e Storie d'Osteria

Formazione classica: Papa, Mamma, Giamma, Iri

Giorno 1

INTRO

Sono un viaggiatore un po’ matto, ma meticoloso, almeno di norma. Leggo molto, studio la storia e le usanze di un Paese prima di visitarlo, mi leggo qualche libro, cerco diari di viaggio di viaggiatori a me assimilabili, mi informo sulla documentazione necessaria, su eventuali vaccini, mi occupo di modulare la giusta copertura assicurativa. Non avendo mai utilizzato agenzie di viaggio, organizzo ogni cosa personalmente, curo i dettagli, cerco di essere pronto ad eventuali imprevisti, e di avere le informazioni utili a mantenere freddezza sul campo di gioco. Ho una compagna in gamba e due figli piccoli: li abbiamo cresciuti senza mai pensare che potessero limitare le nostre possibilità. E in effetti, da quando ci sono Giamma e Iri, probabilmente viaggiamo persino più che in passato. Ogni anno cerco di avere uno sguardo vigile su ogni aspetto del viaggio.

LA VIRATA IMPROVVISA

Questo però è stato un anno duro dal punto di vista lavorativo e della gestione degli impegni dei bambini, e per di più, dopo il solito consulto familiare di dicembre, che segue alle mie proposte di viaggio, avevamo praticamente deciso di andare in Sri Lanka, per iniziare finalmente ad esplorare l’Asia. Poi, dopo essermi informato e confrontato su alcuni canali social con viaggiatori esperti di quelle terre, è emersa un’indicazione che mi ha preso in contropiede: guidare in Sri Lanka è da pazzi, e conviene affidarsi a un driver locale. Questo fattore, la cui portata in divenire si è ridimensionata notevolmente, insieme a uno speciale di Alberto Angela sulla Namibia che ci è capitato di vedere una sera d’inverno a casa, ci ha convinti a virare verso l’Africa all’ultimo giro di boa. La Namibia era già in cima alla nostra lista mentale di viaggi possibili, e il timore di perdere autonomia (io amo guidare in terra straniera) in Sri Lanka e lo spettacolo profuso dal nostro divulgatore scientifico preferito ci ha spinti a rompere gli indugi e a cambiare radicalmente programma a un passo dalla prenotazione del volo. Quindi non ho potuto dedicare il tempo che avrei voluto alla programmazione, e qualche dettaglio mi potrebbe essere sfuggito (forse).

FOCUS SULLA NAMIBIA

Per la Namibia mi sono focalizzato su:

  • Volo comodo, e in tal senso Lufthansa è stata quasi una scelta obbligata. Partenza da Bologna con scalo a Francoforte;
  • Noleggio 4×4 più che affidabile: ho letto che l’85% delle strade namibiane sono gravel road, strade di roccia, terra e sabbia: meglio affrontarle con un mezzo idoneo;
  • Copertura vaccinale di base, evitando l’anti-malarico, dato che la nostra estate corrisponde all’inverno australe, e che attraverseremo territori per lo più desertici, tralasciando le parti più interne e umide del Kunene, le Epupa Falls e le Victoria Falls, che saranno oggetto di una futura missione con probabile base in Botswana;
  • Rinnovo passaporti dei bambini, che ha comportato alcuni incidenti di percorso per un palleggio di competenze territoriali che ci ha costretti a cancellare una prenotazione valida per un errore di valutazione, risolto poi grazie alla cortesia infinita del personale della Questura di Ancona, che ci ha consentito persino di anticipare l’appuntamento utile al rinnovo, per compensare il disservizio patito in altra sede;
  • Richiesta presso la Motorizzazione della patente internazionale di guida, che sembra sia indispensabile in Namibia, anche se poi l’esperienza mi ha fatto sorgere più di un dubbio.
  • Copertura assicurativa a 360 gradi, per garantire alla mia famiglia una certa tranquillità, almeno su carta.

LA PARTENZA

Quest’anno, dopo il trauma del 2023, causato da un eccesso di rilassatezza e da un incidente in autostrada che per poco non ci impediva di prendere il volo, partiamo presto da Jesi. Il volo è alle 14e30, e alle 9 siamo in macchina (sempre Zelda, sempre brillante, nonostante la tosse). Alle 11e30 siamo al parcheggio adiacente l’aeroporto per la consegna dell’auto. Pochi minuti dopo entriamo in aeroporto. Il check in per la consegna dei bagagli è ancora chiuso, a testimoniare che siamo stati fin troppo previdenti stavolta. Il desk apre, ci avviciniamo pigramente. Persino il peso della valigia è corretto per una volta. Da non crederci.

L’ATTESA

Attendiamo l’emissione dei biglietti. L’operatrice chiama qualcuno, resta al telefono, ci guarda di sottecchi dal suo lato della barricata, continua a parlare, poi dopo un po’ ci guarda e dice: avete i certificati di nascita dei bambini? E io: no, ma non credo siano necessari, i nostri nomi sono indicati anche sui loro passaporti. Lei richiama qualcuno al telefono, annuisce preoccupata, ci osserva sempre più cupa e dice: niente, non potete entrare in Namibia senza una copia autenticata di un certificato di nascita dei bambini, perché il Paese lo richiede espressamente per l’ingresso dei minori. Noi sbianchiamo letteralmente, mi appoggio al banco per non svenire, penso allo sforzo profuso per organizzare tutto, penso a dove dirottare la mia famiglia, a cosa fare adesso, nel momento. E’ venerdì, e forse è vero che di Venere e di Marte non si inizia e non si parte, anche se io non ho mai creduto a queste cagate.

LA BARAONDA

Non l’accetto, non posso, e penso: NO, non è possibile, non l’ho letto da nessuna parte, non esiste, cerco sul web e subito mi appare la sentenza di condanna definitiva alla mia leggerezza. In Namibia senza quel certificato i minori non possono entrare. Francesca sembra sul punto di crollare, i bambini sono totalmente spaesati, non comprendono quale sia il problema. Mi scatta una baraonda in testa, penso di chiamare una delle nonne, di mandarla a casa nostra a cercare una copia di questo certificato chissà dove, ma so che sto farneticando e perdendo tempo. La baraonda aumenta, è una sfilata multicolore di musicisti che suonano e cantano e non mi consentono di sentire i miei stessi pensieri. Non so che pesci pigliare, vaneggio, chiedo alla tizia se intanto possiamo imbarcarci per Francoforte, così prendo tempo per cercare una soluzione, per mettere a fuoco, ritrovare la lucidità e capire il da farsi. Lei mi spiega che non è possibile, perché il mio biglietto è per la Namibia. Lo scalo è semplicemente un passaggio lungo la tratta diretta in Africa. Poi ripenso al fatto che è venerdì, non si inizia e non si parte, e invece no, in realtà non è affatto un male, ma un vantaggio da prendere al volo. E’ quasi l’una, chiamo un amico speciale per avere un consiglio. Me ne fornisce uno prezioso, provo a chiamare un ufficio, è aperto per un pelo, per un caso fortuito, magari un oggetto dimenticato, o un ripensamento che coincide con il mio blackout. Mi risponde una persona estremamente calma e gentile che mi spiega che si, vista l’emergenza può aiutarmi se soltanto mi calmo e ascolto. Non mi calmo, è impossibile farlo, ma cerco di capire. E così scrivo una pec dal telefono con la richiesta di questi certificati, allegando i dati miei e di Francesca e le foto dei nostri documenti. Chiedo alla signora del banco quanto tempo abbiamo e lei mi dice che ci resta circa un’oretta. Passano alcuni minuti e mi accorgo che la richiesta non è partita. Forse la connessione è scarsa per caricare i jpg delle foto dei documenti, che sono senz’altro pesanti. Riprovo e la mail parte. Inviata. Passa qualche minuto, aggiorno la pagina, la aggiorno ogni cinque secondi, poi ogni due, e infine -anche se stento ancora a crederci- nel mio telefono appare la copia dei documenti richiesti, come una chimera ripresa al volo dopo una rimonta onirica mirabolante. Bando alle ciance, ora serve il cartaceo. La gentilissima dipendente Lufthansa si propone di stamparli, ma devo girarle i documenti all’indirizzo che mi indica. Inviamo e lei parte, diretta verso un ufficio al piano di sopra. Con noi rimane un’altra persona, che a un certo punto risponde al telefono e ci informa che la mail non è arrivata. Controlliamo l’indirizzo, nella foga lo abbiamo sbagliato. Ricominciamo. R-i-c-o-m-i-n-c-i-a-m-o. Rimandiamo la mail, osserviamo la signora armeggiare con una stampante, qualcosa non va, poi la vedo andarsene e rientrare con una risma di carta nuova di zecca, per alimentare la vorace macchina clonatrice. Scende rapidamente verso di noi, richiama chi di dovere, comunica i nostri dati, ci guarda e ci dice: ci siamo, ora è tutto a posto, siete stati fortunati, buon viaggio. Io vorrei abbracciarla, perché lo impone la mia natura che mi spinge a toccare o sfiorare o riconoscere una gratifica a chi ha fatto qualcosa di importante per me, ma non sembra il tipo, è la classica buona ma burbera, di poche parole. Noi di casa invece ci guardiamo e s’abbracciamo.

GRAZIE

Siamo riusciti in un’impresa titanica, che non avremmo mai superato senza l’ottimo consiglio di un amico che c’è sempre e la buona volontà di alcune persone che ci sono venute incontro in un momento di enorme difficoltà. E’ grazie a loro se posso raccontare il nostro viaggio.

I miei vanno al bagno, io corro al bar a bermi una birra, che quasi mi strozzo in gola per decomprimere il terrore vissuto nell’ultima mezzora. Ci calmiamo, siamo felici, ma i bambini fanno più storie del solito. Irene non trova pace, probabilmente abbiamo un accumulo di stress e stanchezza sulle spalle da smaltire. Comunque, partiamo, l’imbarco è lento e comporta un ritardo: ritrovare uno slot utile per il decollo implica un’ora di attesa a bordo. Niente di grave per noi, mentre altri viaggiatori sono praticamente certi di aver perso la coincidenza a Francoforte.

FRANCOFORTE

Arrivati in Germania, ci godiamo un pochino l’aeroporto, che è uno dei più grandi e frequentati d’Europa. Bighelloniamo, perdiamo tempo, troppo tempo. Siamo convinti di essere all’interno di un’area di flight connection, ma non è così.

Mi accorgo che dobbiamo rifare tutti i controlli. Prima i documenti, poi di nuovo i controlli di sicurezza già sostenuti a Bologna. Vai a capire perché. La brutta sorpresa è che c’è un muro di gente in fila davanti a noi e solo due check point aperti. La fila non scorre e così forziamo, insieme ad altri ritardatari, l’ingresso di lato. Provo a spiegarmi con gentilezza, ma il nervosismo regna sovrano fra le persone in attesa. Alla fine riusciamo ad anticipare (di poco) i controlli, davanti a noi troviamo persone molto anziane e difficili da posizionare e controllare.

Arriviamo al gate, che apre pochi istanti dopo. Entriamo in aereo immediatamente grazie alla priorità che i figli minori rappresentano. Ci piazziamo tutti e 4 in una fila delle file centrali. Mangiamo qualcosa, mettiamo su un film per poi addormentarci uno sull’altro. Mi trasformo rapidamente nel cuscino di Iri e capisco subito che sarà dura dormire per me, ma provo a prendere con leggerezza il poco sonno che verrà, dato che quella sarà la notte che ci condurrà in Africa.

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