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NAMIBIA Family Adventure – Day 2

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Posted by osteriacinematografo in immagini, Pensieri, Storie, Viaggi

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

Kalahari Day

NOTTE INTERCONTINENTALE

La notte in aereo si conferma piuttosto tormentata. Il freddo glaciale e la scarsa possibilità di muovermi diventano presto un problema. Spazio ce ne sarebbe anche, ma il mio e quello di Franci risultano limitati dalla priorità di far riposare i bambini in vista del primo giorno in Namibia, in cui dovranno essere freschi e riposati, onde evitare crisi di sorta. In effetti il primo giorno in terra straniera per il viaggiatore rappresenta sempre un test importante. Ci si deve ambientare in una nuova terra, si deve prendere confidenza con strade e macchina nuove nel modo più rapido e funzionale possibile. I bambini in questa fase devono essere a posto. Avremo modo poi di torturarli a dovere. Magari persino prima del previsto.

L’APPRENDISTA ESPLORATORE

Ulteriori elementi di insonnia aerea mi vengono forniti da un tedesco alto due metri, con un viso grande e squadrato e uno sguardo indagatorio: indossa pesanti scarpe da trekking, dei pantaloni cachi da esploratore e una maglia rosa, come parecchi ragazzi a bordo; è probabilmente a capo di una comitiva, o forse di una setta, e per gran parte del viaggio se ne starà in piedi davanti a me, rivolto verso i ragazzi che siedono alle mie spalle, perlustrando con gli occhi tutta la superficie disponibile, così da poter dissipare i sospetti di cui la sua natura si nutre. La sua posa è curiosa, dato che è costretto a inclinare leggermente il capo per posizionarsi in uno spigolo incastonato fra il bagno e le cappelliere. Non apre mai bocca, non cambia espressione, scruta il perimetro in modo rigoroso e persistente alla ricerca di chissà che cosa, ma a lungo andare s’intravede un che di stolido e inanimato nella sua espressività, tanto da farmi pensare che sia un ripetente trentennale alla disperata ricerca di quel diploma da esploratore che gli sfugge sul campo da una vita. Forse stavolta ce la farà.

HOSEA KUTAKO

Verso le 7 del mattino del 21 giugno atterriamo all’aeroporto Hosea Kutako di Windhoek, che è poco più di una pista in mezzo al deserto. Scesi dall’aereo, il percorso per entrare nel minuto aeroporto ci viene indicato da una decina di operatori dislocati fra l’aereo e l’ingresso. Questa segnaletica umana -non particolarmente sorridente peraltro- sostituisce i bus di collegamento aeroportuale, le insegne luminose, e i percorsi obbligati cui siamo abituati. Nel frattempo un gruppetto di circa 30 uomini vestiti in tuta da lavoro blu e gilet giallo catarifrangente corre accanto a noi intonando un motivetto in stile Full metal Jacket. Credo faccia più o meno così: “Crepi Ho Chi Minh, Viva il corpo dei Marines!!” Che sia un’esercitazione? Troppo causale per avvenire in concomitanza dall’unico atterraggio previsto per qualche ora. Più probabile che i ragazzi si dirigano in modo folkloristico a ritirare i bagagli dei passeggeri. Ma questo lo capirò soltanto poi, quando mi renderò conto di quanto sia scarso il traffico aereo da queste parti.

IL BIGLIETTO D’ORO WONKA

Non appena entrati, ci accolgono il suono delle percussioni e il canto e le grida di un gruppo di donne del luogo. Poi la musica prende forma e si mostra nel trambusto danzante e nel colore fucsia dello sparuto drappello che intrattiene i nuovi arrivati in Namibia. Effettuiamo i controlli piuttosto rapidamente, e anche qui ci chiedono il famigerato certificato di nascita, che però non è in lingua inglese. Indichiamo loro i nomi nostri e dei nostri figli sul magico lasciapassare, un pezzo di carta che per noi vale quanto un biglietto d’oro Wonka. Passiamo oltre e i bagagli stivati tornano rapidamente nella nostra disponibilità. Un altro vantaggio del dover liberare le viscere di un solo aeroplano alla volta.

KEEP CALM

Cerchiamo poi il banco dell’Avis, la compagnia di noleggio scelta in base al solito e unico criterio, il rapporto qualità/prezzo. Il ragazzo con cui effettuiamo le pratiche di ritiro è gentile e sorridente, e non esercita il consueto pressing per rifilarci un upgrade non appena gli spiego che siamo già assicurati oltre misura. Andiamo fuori, dove ci mostrano la macchina, una splendente Toyota Fortuner bianca.

Prima di andare, ci chiedono 15 minuti per mostrarci delle slide in ufficio: ci spiegano che l’85% delle strade è dissestato, che gli incidenti (anche mortali) sono enne volte più frequenti che in Europa, che le strade sono classificate da A a D a seconda dello stato in cui versano, che le probabilità di bucare qui sono tra le più alte al mondo, che non avremo mai rete né possibilità di comunicare se non abbiamo un satellitare (e non abbiamo un satellitare), che ci sono 5 strade dannatamente insidiose (a una rapida occhiata, dovremo farne necessariamente 3, ma me lo tengo per me), che dobbiamo andare piano (ma non troppo), che dovrò fare molta attenzione ai tir che arrivano sparati da dietro.

Insomma ci forniscono solo belle notizie e ci tranquillizzano prima di salire a bordo del nostro nuovo mezzo.

La Fortuner è molto più grande del mezzo con cui mi muovo di norma nella dorata campagna marchigiana. Prendo un attimo mano con la guida a destra (è la mia terza volta), e nell’arco di due rotatorie il rodaggio è completo. Oggi dobbiamo precorrere una strada molto buona, una B, per circa 3 ore e 30. Ho studiato un percorso facile per ammortizzare le fatiche del viaggio. Andremo verso ovest fino a Windhoek, dove potremmo fare un giro a piedi, e poi proseguiremo verso sud, fino a una fattoria nel deserto del Kalahari, dove ho riservato un breve tour esplorativo sulle dune.

LA SVOLTA

Questo approccio soft alla Namibia, studiato per evitare traumi il primo giorno, subisce una battuta d’arresto imprevista dopo pochi km. Premetto che utilizziamo Google map con le mappe off line, scaricate giorni prima sul mio smartphone. In questa declinazione, la app funziona bene comunque, ma è prudente evitare deviazioni consistenti. Ebbene, Francesca nota che il navigatore ci suggerisce un percorso alternativo: si tratta di svoltare prima di Windhoek, per la C23, con un risparmio netto di oltre un’ora sul tempo di percorrenza previsto. Non sono d’accordo, e lo ribadisco con forza due volte, per i motivi già espressi. Ma Franci si impunta, non vuole sentire ragioni, siamo stanchi e un’ora in meno di strada è un vantaggio da sfruttare. Così, quando arriviamo alla svolta e vediamo che la strada è asfaltata, cedo ma con preoccupazione, perché una C può essere insidiosa al battesimo. La strada procede regolare per circa 45 minuti, finchè non deviamo brevemente su una strada di terra per fare rifornimento d’acqua.

Riprendiamo la via principale e d’un tratto la strada diventa di rocciosa. Dapprima è una roccia abbastanza levigata e piatta, poi frastagliata da solchi orizzontali via via più profondi; infine la strada si trasforma in un dilaniante percorso a ostacoli per evitare buche e massi d’ogni tipo. A quel punto il navigatore impazzisce, e di colpo il tempo di percorrenza aumenta fin quasi a raddoppiare. Mi fermo accanto all’unica jeep che incrociamo per km e un uomo mi spiega che ho imboccato una parallela della strada principale (ma questo lo sapevo già), una via più immersa nel Kalahari, che la strada è tutta così, e che ormai è troppo tardi per tornare indietro: devo proseguire il mio calvario fino a destinazione.

FAR WEST

Ora, cari lettori, capirete bene che uno che si è fatto un volo transcontinentale dormendo poco e male, con le magagne patite in aeroporto a Bologna, la scarsa lucidità e gli oltre 30 gradi su una pista dissestata, al volante di un mezzo nuovo con guida a destra e le corsie che in quella strada sono solo un’idea, possa scoppiare improvvisamente come una bomba a orologeria. Ed è proprio ciò che capita, perché sono nervoso e provato e guidare senza preavviso su quella superficie immersa nel nulla mi crea ansia e difficoltà. E continuo a ripetere che l’avevo detto e che non bisogna mai andarsele a cercare.

E così per un’ora scatta una specie di Far west in macchina, un tutti contro tutti che non vede né vincitori né vinti, nè caduti o feriti sul campo di battaglia, finchè finalmente la strada diventa più dolce grazie a uno strato leggero di sabbia e alle buche in graduale diminuzione. Franci continua a scusarsi e a ripetere che ha rovinato la vacanza (non ci riprenderemo più! Il viaggio è rovinato!!), io sono stanchissimo, vedo doppio e non parlo più, i bambini sono frastornati, ma poi superiamo la soglia del dramma quando capiamo che il navigatore si è stabilizzato, e che la nostra fattoria non è più lontana. Il panorama ci regala scorci più colorati e scoscesi, i nodi si allentano per poi sciogliersi definitivamente in prossimità della meta.

IL RANCH

Arriviamo quando sono le 15e30, con un paio d’ore di ritardo, e in un istante tutto è calma e quiete, come al termine di una poderosa tormenta. Ci rassereniamo, facciamo pace (facciamo sempre pace), solleviamo una sbarra ed entriamo nella Janssen Kalahari Guest Farm come fosse il nostro ranch, nel modo che mi è spesso capitato di sognare a bordo di un libro che mi ha spinto a veleggiare al confine fra Montana e Wyoming, o più verosimilmente -in tal caso- fra Arizona e New Mexico. Come ogni struttura che ci ospiterà in terra selvaggia, anche questa è pressochè invisibile ad occhio nudo, tanto è immersa nel paesaggio. La intuiamo gradualmente, fra piccole dune e scalcagnate insegne di legno. Scesi dall’auto possiamo avvertire il silenzio, profondo come il deserto che digrada all’orizzonte. Qui il tempo sembra rallentare improvvisamente, o cambiare direzione e girarti intorno, una sensazione frequente in queste lande desolate. Qui il rapporto fra spazio e tempo è in certo senso tangibile.

IL DELIQUIO

Una solare namibiana ci accoglie alla reception, ci indica il lodge, ci rifornisce di acqua e birra. Sistemiamo le nostre cose, ci rinfreschiamo, e io affondo nelle cavità più profonde dell’incoscienza, fino a perdermi in un sonno che è morte pro tempore, in un modo e in un mondo che mi rammenta la scena in cui uno dei protagonisti di Trainspotting viene inghiottito nel pavimento dopo un brutto viaggio. Il risveglio è altrettanto cinematografico: mezz’ora dopo, ma sembrano due giorni, uno dei miei mi scuote e mi dice: dobbiamo andare! E io mi vedo come Jim a LA nel film di Stone, quando Ray o chi per lui lo scuote dal sonno dicendogli: Jim, così perderai l’aereo! Non c’è nessun aereo, ma una jeep che alle 17 ci condurrà nel Kalahari.

SUL PICK UP

Saliamo sul cassone di uno dei due pick up insieme a una coppia svizzera con cui avremo modo di condividere il nulla assoluto. La luce è calda e avvolgente, e il colore della sabbia attraversa tutte le tonalità del giallo, dell’arancio e del rosso, adeguandosi mutevolmente all’inclinazione dei raggi solari e ai nostri gusti calcistici.

Mister Janssen guida uno dei pick up, noi siamo sull’altro in coda. Facciamo un po’ di strada immersi in un vento piacevole e rigenerante, e di tanto in tanto ci fermiamo all’ombra di un albero per ascoltare i racconti del padrone di casa sulle origini della fattoria, sugli allevamenti e sulle coltivazioni possibili grazie a una fonte sotterranea di acqua dolce che rappresenta la fortuna degli Janssen, una delle tante famiglie tedesche che vive in Namibia da generazioni, in certi casi dagli inizi del 900.

Avvistiamo gazzelle, zebre e una giraffa, e poi ci fermiamo sotto un nido di uccelli enorme, abbarbicato come altri a un grosso ramo. Questi nidi contengono uccelli a centinaia, e i piccoli passaggi posizionati nella parte sottostante somigliano al ventre gravido di una specie aliena. I volatili producono un concerto celestiale, composto di suoni e motivetti che inducono all’allegria e alla spensieratezza. Ce li godiamo per qualche istante, prima che il motore venga riavviato. Ci hanno raccontato che questi nidi durano finchè il ramo non cede sotto il peso eccessivo. Capiterà poi di vederne tanti accasciati qua e là nei giorni a venire.

IL TRAMONTO DELLA SCIALBA RAGIONE

La gita è rilassante, per una volta è stupendo lasciar guidare altri e andare a passo d’uomo senza pensieri. Quando il tramonto si avvicina ci fermiamo sul crinale di alcune dune dorate, da cui la vista del deserto sconfina oltre l’impercettibile. Mentre Mr Janssen e il suo collaboratore allestiscono un piccolo banchetto, noi contempliamo e perlustriamo a piedi quel luogo magico. I bambini corrono su e giù nella sabbia soffice: è bello vederli sorridenti e leggeri dopo una giornata complessa. Ma ormai lo sappiamo, il viaggiatore è incline alle turbolenze, alle frequenti oscillazioni che rendono il cammino imprevedibile. Senza quella imprevedibilità saremmo semplici turisti, indaffarati soltanto a riempire uno spazio recintato da altri.

Il viaggiatore ha giornate buone e altre meno, ma quando sbuca dall’ennesimo banco di nebbia, la sensazione di libertà è impagabile: poter sbagliare è un privilegio enorme, soprattutto in terra straniera, a maggior ragione quando i punti di riferimento si diradano, quando le certezze sono poche. A quel punto, rientrare la sera in una zona di comfort assume i contorni di una conquista, di qualcosa che si è guadagnato sul campo, a furia di scelte indipendenti e improvvisate. Penso quindi, mentre brindiamo con un vino un po’ dolciastro per i nostri palati avvezzi al Verdicchio dei Castelli di Jesi, che la scelta forse poco lucida di Franci alla fine abbia avuto senso, regalandoci l’ennesimo brivido. Ci confermiamo viaggiatori poco convenzionali, che privilegiano (quasi sempre) l’istinto al calcolo. La scialba ragione separa l’infinito da noi.

OMBRE DEL PASSATO

Torniamo nella notte e i fari delle jeep disegnano figure allungate e spaventose sulle dune circostanti, utili ad alimentare i misteri ancestrali della terra che ha dato i natali alla specie umana. L’Africa sembra nascondere qualcosa, come se tante delle risposte che cerchiamo siano scritte qui, da qualche parte, fra gli elementi. L’aria adesso è fresca, il cielo terso. Arriviamo direttamente per cena.

Osserviamo la famiglia Janssen al completo, con figli e nipoti giunti dai 4 angoli nella Namibia per le ferie estive. Sembrano persone semplici e ben amalgamate a questa terra. Il personale namibiano si occupa di noi con rara gentilezza, forse perché anche qui i nostri sono gli unici bambini, come spesso capita. Ma chissà cosa nasconde la storia, chissà cosa c’è alle origini di questo coacervo di culture ed etnie?

Ci penso mentre osservo un cielo stellato che illumina a giorno le mie elaborazioni. Penso al tempo, a come si costruiscano e si sviluppino le storie e le vicende fra le sue maglie, a come il presente sembri spazzare via tutto, a come invece tutto in realtà sia ben visibile nei segni della terra e nei comportamenti e negli usi delle persone e dei popoli che la abitano. Arrivo in camera senza accorgermene. Cediamo al sonno immediatamente, con l’Africa a dilagare tutto intorno e dentro ognuno di noi. Siamo ansiosi e fiduciosi per domani. Chissà come sarà.

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