Ecco domani. Sono passate da poco le 7 quando ci svegliamo. Dormire bene dopo i due giorni appena trascorsi è stato come morire e poi rinascere. Ogni volta che mi ricapita una situazione simile mi torna in mente un viaggio in Andalusia di tanti anni fa, con Franci e basta.
GRANADA
Correva l’anno 2007. Eravamo a Granada e ci svegliammo che ancora era notte per andare a far la fila all’Alhambra. Non mi ricordo i motivi di quella dinamica, forse gli ingressi erano contingentati e noi non avevamo prenotato.


Fatto sta che entrammo all’alba dopo una bella camminata, salendo e scendendo ogni angolo della fortezza rossa, sotto il sole e poi sotto la pioggia e poi sotto il sole e sotto la pioggia, per poi tornare in stato catatonico nella stanza affittata da una coppia di anziani e gentili signori. In quella stanza c’era un odore stantio, l’odore delle case dei vecchi, l’odore del tempo, eppure noi precipitammo in un sonno profondo e senza sogni, come quello dei veri avventurieri, risvegliandoci insieme con cautela nell’ennesima notte. Girammo poi storditi alla ricerca di un pasto, e il pensiero di noi due in quella serata andalusa sembra collocabile più nelle dimensioni del sogno che in quelle della veglia. “Andalucia with fields full of grain. I have to see you again and again”.
RURAL BREAKFAST






Ma torniamo in Namibia: usciamo dal guscio, e andiamo a vedere il sole che sorge pigro sul deserto. L’aria è fresca e pulita, camminare fino all’area breakfast è un piacere, mangiare le uova che ci propongono un po’ meno, perchè siamo praticamente all’aperto e si percepisce il freddo pungente del Kalahari all’alba.

Notiamo alcuni viaggiatori in piumino. Noi non siamo attrezzati fino a quel punto, ma contiamo di cavarcela con gli indumenti tecnici che utilizziamo d’inverno in montagna (giacca esclusa ovviamente). Io avrò quasi sempre freddo al mattino, ma ormai è una mia prerogativa. Facciamo la solita abbondante colazione, io faccio overdose di caffè americano, ci rinfreschiamo e poco prima delle 10 partiamo. Inutile nascondere ai ragazzi che anche oggi ne avremo di strada da fare. Ma sono allegri e riposati, e ciò è di buon auspicio.


TILT A KEETMANSHOOP
La prima tappa prevede di percorrere la B1 verso sud fino a Keetmanshoop. Circa tre ore di strada che per poco non subiscono la deviazione di turno verso il Brukkaros, un vulcano estinto che da ovest ci chiama a sé in modo suadente, ma non abbastanza da convincerci a sterzare. Ci fermiamo a nell’anonima Keetmanshop, perchè è lo snodo per la prossima tappa e perchè i bambini hanno voglia di uno spuntino. Concediamo loro l’unica risorsa disponibile, un fast food inserito in un centro commerciale.


Mentre i bambini mangiano le porcate del caso, mi aggiro in questo agglomerato di botteghe. Due cose mi colpiscono: una è il rotolo di carta igienica posizionato fuori dai bagni pubblici, per cui ognuno se ne deve rifornire (con parsimonia) prima di entrare a far le proprie cose; la seconda è un’orda di bambini malmessi e affamati che si aggirano in zona. Gli diamo un po’ del nostro cibo, poi ci avviamo verso la macchina, e notiamo i vigilantes del luogo che li inseguono e picchiano senza troppi complimenti. Uno dei bimbi viene colpito e cade a terra, batte la testa sul marciapiede e piange. Restiamo allibiti ma immobili. Nessuno reagisce in alcun modo, come se questa scena facesse parte della quotidianità. Giamma assiste da due passi e non riesce a crederci. Lo vedo in tilt, lo sono anche io, impossibile accettare che un bambino così piccolo subisca un trattamento simile, per quanto noi non sappiamo nulla delle dinamiche di quel luogo. Non possiamo fare granchè e allora facciamo il poco possibile: con una manovra mi avvicino a quel gruppo di bimbi ormai in fuga, mentre Franci passa loro il cibo che abbiamo. Lo afferrano in modo famelico, ci chiedono soldi, ma non ne abbiamo. Poi ci salutano e noi facciamo altrettanto. Il bimbo malmenato si tocca il capo ma sembra a posto. Ci allontaniamo e Giamma e Iri non li mollano con lo sguardo. Ne parliamo: la loro vita è senz’altro dura, ma per lo meno formano un piccolo branco, come magari ce ne sono tanti altri. Ma insomma è difficile girare intorno a situazioni tanto palesi. Mio figlio è un ragazzino sveglio, sento che continua a pensarci e mi chiedo se quell’immagine si tramuterà in un ricordo difficile da gestire. Io ho più problemi con il suono vivido della voce di quel bambino in lacrime. Tutte cose che tocca tenersi, come certi dubbi.
IL PARCO GIOCHI DEI GIGANTI
Ora però andiamo verso est, la via è il destino del viaggiatore. Ci attendono il Giant’s Playground e la Quiver Forest. Il primo è il parco giochi del gigante, un luogo suggestivo e luminoso, dove enormi massi di dolerite sembrano essere stati ammucchiati per gioco da leggendari giganti. Queste formazioni rocciose ricordano un pochino la Goblin Valley dello Utah del mio cuor, per quanto le rocce americane fossero molto più levigate e tondeggianti.





Queste curiose formazioni sono state causate dall’erosione della roccia sedimentaria sottostante circa 170 milioni di anni fa. I sedimenti magmatici erosi dall’acqua, dal vento e dal tempo, si sono dissolti portando alla luce la coriacea dolerite, i cui massi formano un labirinto in cui ci siamo divertiti a giocare per almeno un’ora. La luce è magnifica in questo luogo, inoltre siamo praticamente soli ed è più semplice comprendere quanto sia effettivamente facile perdersi di vista o disorientarsi. Per tornare ci aiutiamo con un furgone che vediamo arrivare in lontananza.







KOKERBOOM
La Quiver forest invece è una foresta naturale di alberi faretra o “Kokerboom”, come la chiamano i Boscimani, che usano i suoi rami per creare faretre. La caratteristica principale di questa maestosa aloe è la dicotomia: le sue chiome infatti si biforcano reiteratamente. Ne abbiamo ammirati alcuni esemplari da vicino ed altri soltanto dalla strada, perchè, come spesso capita, ci siamo resi conto di essere in ritardo. Anche tenendo un buon ritmo rischiamo di arrivare tardi nel parco naturale del Gondwana, e in Namibia non è mai una buona idea guidare di notte.






IL PROFONDO SUD
Siamo diretti nel profondo sud namibiano, vicino al confine col Sudafrica, e il motivo è presto detto: laggiù si snoda il Fish River Canyon, il secondo canyon più grande al mondo dopo sua maestà il Grand Canyon. Per arrivarci dobbiamo proseguire lungo la B1, ma poi ci attendono una C e una D, di cui ignoriamo le potenziali difficoltà.





Tiriamo fuori dal cilindro il portatile e concediamo un film ai ragazzi, che sono visibilmente stanchi. Il paesaggio è lunare, la strada è polverosa ma si mantiene piatta e piacevole: guidare qui è una vera goduria. Improvvisamente tutto intorno diventa verde, verdissimo. Sfilano colture di ogni tipo, persino delle sensuali e rigogliose vigne. D’un tratto ci troviamo di fronte a un piccolo guado, e mi scatta un’allerta perchè è uno dei punti su cui hanno fatto leva i tizi dell’autonoleggio: occhio ai piccoli ponti pieni d’acqua, è facile sottovalutarli e rimanere bloccati!! Prima che scatti una paranoia di gruppo, arriva con perfetto tempismo dal senso opposto di marcia un pickup che si butta dentro senza alcuna riverenza.



Abbiamo sovrastimato il problema, il guado è divertente e saremmo tentati di ripeterlo se non fossimo sempre dannatamente a pelo coi tempi. Dopo qualche curva, ad uno dei tanti incroci coi binari, che meriteranno un discorso a parte, spunta fuori dal nulla una serie di baracche colorate, forse un luogo di sosta, di quelli che piacciono a noi.

CANYON FARM YARD
E’ il Canyon Farm Yard di Wallie e Maisie, un campeggio e ristoro immerso nel deserto, costruito in modo geniale con oggetti o pezzi di oggetti assemblati in modo tale da comporre un’opera d’arte, una mostra permanente a cielo aperto, una raccolta di ricordi o di frammenti di storie che sono capitati lì chissà come. Mi chiedo da dove venga quella montagna di roba che andrebbe perduta nelle mani di gente priva di estro e fantasia. Siamo in mezzo al nulla, chi può averla portata lì?





Targhe, furgoni, biciclette, bidoni di varia grandezza, macchine, cisterne, rottami, motociclette attaccate a un carro gommato. Ovunque ci sono tracce di viaggiatori di ogni parte del mondo, e si capisce al volo che questa strana coppia ha creato un luogo irresistibile, un’oasi nel deserto, un miraggio a lungo termine, un posto in cui diventa obbligatorio fermarsi, anche senza motivo. Questi sono i luoghi imprevedibili che un viaggiatore ama incontrare, luoghi che capitano, che ti finiscono addosso come se fossero elementi mobili. Se poi all’interno ci sono un bar con gelati e birra fresca e una piccola selezione di oggetti e opere d’arte in vendita, allora siamo proprio fregati.
WALLIE, MAISIE E LA MODERNITA’
E poi è d’obbligo fermarsi a parlare con Wallie e Maisie, due tipi simpatici che rifiutano la modernità, ogni forma di connessione col mondo che non sia naturale e tangibile, insomma tutto ciò che impone la globalizzazione. Li capisco, ma ribatto loro che senza gli strumenti che la tecnologia offre non avrei potuto nemmeno organizzare questo viaggio ardito coi bambini al seguito. Alla fine dei conti, tutto dipende dalle esigenze di ciascuno.



Per chi vuole viaggiare e conoscere, senza essere omologato e chiuso dentro un villaggio turistico, è impossibile ad esempio non sfruttare tutti gli strumenti di condivisione che la rete ci offre. Leggere le miriadi di esperienze di viaggio dei viaggiatori autentici è per me una fonte continua di ispirazione e tentazioni. Tutto ciò non sarebbe stato possibile fino a pochi anni fa, e dal mio punto di vista è una scoperta preziosa. Credo anche che, senza certe finestre virtuali sul mondo, Wallie e Maisie avrebbero molti meno clienti, anche se è palese che stiano lì per passione e per una naturale inclinazione all’ospitalità. Praticano prezzi veramente onesti, e così compriamo qualche oggetto nella loro bottega, incluso un grazioso e coloratissimo quadro dipinto da Maisie.
ZEBRE MAGICHE
Chiacchierando non ci rendiamo conto che la luce sta cambiando e che sono le 17e45. Abbiamo più di un’ora di strada da fare e le probabilità che arriveremo di notte sono aumentate sensibilmente. Salutiamo i nostri nuovi amici e ci avviamo. Il sole scende inesorabile davanti a noi, ma siamo sereni. E’ una terra magnifica quella che abbiamo negli occhi. Splendidi massicci e frammenti di canyon si alternano in lontananza. Riflessi rossi e arancioni accarezzano il crepuscolo africano incuneandosi fra le mutevoli linee d’ombra.






Aumento un pochino il ritmo fino a quando incontriamo un piccolo gruppo di zebre che attraversa la strada. Mi fermo, le zebre fanno altrettanto. Ci osservano curiose e tranquille, e sembrano volerci riportare alla calma. Sembrano dire che non c’è alcun bisogno di correre, che va tutto bene. Le osserviamo per qualche istante e poi ripartiamo. Incontriamo altri animali, per lo più orici e struzzi. Scende la notte su di noi, ma la nostra nuova casa è vicinissima. Intravediamo delle luci soffuse dentro la notte nera, siamo arrivati a destinazione.
GONDWANA CANYON VILLAGE
Il Gondwana Canyon Village è un altro luogo strabiliante, incastonato com’è all’interno di un semicerchio di rocce rossastre, e con l’infinita pianura davanti, oltre la quale sprofonda e dilaga impercettibilmente il Fish River Canyon. Di notte non comprendiamo la geografia esatta del villaggio, e i bambini fanno fatica a individuare la capanna in cui dormiremo. La nostra è posizionata al confine non tracciato col mondo fuori, a ridosso di rocce strabilianti che incombono su di noi come guardiani notturni.




JOHN E IL MOJITO BAR
Con mia sorpresa scovo un Mojito bar, dove ordino da bere per me e Francy mentre i bambini esplorano il perimetro. Siamo sereni, stiamo bene, è stata una giornata positiva e preziosa, che ci riscatta delle fatiche patite. A bancone conosco un simpatico ragazzone sudafricano, che mi regala qualche dritta per poter camminare coi bambini a ridosso del canyon, l’indomani. John tornerà da noi per mostrare ai bambini un bel geco, e poi lo rivedremo qualche minuto dopo cadere rovinosamente a terra dentro il ristorante, prima di scomparire per sempre dietro le quinte del Gondwana. Ma dove sono i Doors?





LO SHOW
E’ ora di cena, e prima di accedere al buffet, che i bambini adorano come fosse il più divertente dei giochi, lo staff si e ci concede balli tribali e canti toccanti. E’ una grande emozione, le loro voci sono calde e avvolgenti, i loro occhi limpidi e sinceri. Balliamo anche noi, poi passano in serpentina fra i tavoli: Franci è commossa e da il cinque a ciascuno di loro.

La sala è calda, gremita di legno possente e lumi di candela. L’atmosfera è rilassata, il cibo buonissimo. Ci godiamo la serata finchè la stanchezza non prende il sopravvento. Seguiamo le luci fioche fino alla nostra capanna, come i viandanti nel mondo antico.
LEGIONE PORPORA
Arriva la notte con la sua legione porpora, ritiratevi ora nelle tende e nei sogni. Domani entriamo nella città della mia nascita. Voglio essere pronto.