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Namibia Family Adventure – Day 5 – Martian Day

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Cronache e Storie d'Osteria

Avremmo dovuto svegliarci prima, dato che oggi abbiamo parecchia strada davanti, ma non riusciamo a presentarci a colazione prima delle 7e30. Siamo lenti e rilassati, troppo rilassati! Io sono persino accartocciato, dentro, nel groviglio disorganico dei pensieri del mattino, che non sono mai elaborazioni fluide o sensate, e fuori, sul viso segnato da una notte probabilmente tormentata e sulla scia dei monosillabi gutturali che la mia natura primordiale impone prima che il caffè mi faccia tornare -per così dire- normale.

AUS – KOLMANSKOP – SESRIEM

Chiacchieriamo tranquillamente, ripassiamo le tappe e il percorso del giorno, e confermiamo la scelta di andare a vedere la città fantasma di Kolmanskop, che comporterà una deviazione importante, non per la distanza che implica in sè, ma perché si somma alla strada che verrà dopo. Quindi da Aus andremo verso Luderitz, a ovest, percorrendo la B4 prima in un senso e poi nell’altro. Sono circa 250 km di ottima strada che però anticipano la deviazione successiva: anziché proseguire sulla strada canonica per Sesriem, tappa finale di giornata, noi imboccheremo la meno frequentata D707, una pista di sabbia e pietra che attraversa un altopiano incastonato fra il deserto del Namib a ovest e la catena dei Monti Tiras a est. Dopo di che la C27 ci condurrà fino a destinazione. Oltre le due ore e mezzo iniziali, avremo altre 5 ore abbondanti di strada davanti, sperando che tutto proceda regolarmente e senza intoppi.

SOPRAELEVATE DEL MATINEE

La giornata è bellissima, la prospettiva emozionante, partiamo. La strada verso Luderitz sembra un quadro di zio Gino, chi l’ha disegnata aveva mano leggera e tocco d’artista. Anse sinuose si susseguono armonicamente seguendo il saliscendi delle alture che ci accompagnano su entrambi i lati, sopraelevate inventate sprofondano nei falsopiani per poi riemergere altrove. Lo spettacolo del matinèe lascia progressivamente intuire l’oceano. Avvertiamo la presenza del mare, la sentiamo negli occhi, puntando l’orizzonte. Queste strade scivolano via per terminare la propria corsa in mezzo all’Atlantico. Oggi dobbiamo accontentarci dell’idea dell’acqua. Avremo modo di assaggiare l’oceano nei prossimi giorni.

Arriviamo al box per le registrazioni di Kolmanskop alle 9e30 circa. Fra le cose fatte la sera prima, avevo anticipato il pagamento, così mostro la mia prenotazione agli addetti, che scannerizzano il ticket e ci fanno entrare al volo. Giamma ha qualche problemino intestinale, potrebbe aver preso freddo il giorno prima nell’entra ed esci dalla piscina. Lo monitoriamo ma, conoscendo bene il nostro polletto, notiamo i sintomi di un generale affaticamento.

LONTANI DAL PASTORE E DAL GREGGE

Un nutrito gruppo di turisti si accoda a una guida. Comprendiamo nell’arco di pochi secondi che non possiamo in alcun modo stargli dietro: tempi troppo compassati per una platea estremamente comoda, che cozzano sia con la nostra pazienza che con il programma serrato del giorno. A me e Franci ormai basta uno sguardo in circostanze simili, l’intesa è istantanea e non c’è nemmeno bisogno di dire “Andiamo”. No, le nostre gambe ci hanno già condotti altrove. E la scelta è azzeccata, perché avremo modo di visitare la maggior parte delle costruzioni in totale solitudine, lontani dal pastore e soprattutto dal gregge.

BEVERLY HILLS

Ci dirigiamo prima verso le dune più alte, le Beverly Hills di Kolmanskop, dove vivevano il direttore, il contabile, l’architetto Herr Ziegler, l’insegnante (l’inflessibile signorina Hussmann), il Quartiermastro, un sottufficiale incaricato degli approvvigionamenti, e l’ingegnere minerario Kolle. Sembra impossibile che qui, all’inizio del 1900, vivessero a un certo punto fra le 2000 e le 3000 persone, eppure è così.

Da quando -nel 1908- un operaio di nome Zacharias Lewala trovò un diamante mentre lavorava in questa zona e lo mostrò al suo supervisore, l’irreprensibile ispettore ferroviario August Stauch, molti minatori tedeschi si stabilirono qui a caccia di diamanti. E’ una storia comune a tante città minerarie di tutto il mondo. I campi di diamanti di Kolmanskop crearono una ricchezza tale che il villaggio ben presto divenne una città in perfetto stile architettonico tedesco, dotata di ogni comfort e servizi, tra cui un ospedale da ben 250 posti, una sala da ballo, una centrale elettrica, una scuola, un teatro, un casinò, un impianto di produzione di ghiaccio. Qui vide la luce anche il primo tram africano. Una linea ferroviaria di circa 10 km collegava Kolmanskop alla città portuale di Luderitz.

ARRAKIS

Nella parte più alta della città fantasma il clima è distopico, sembriamo naufraghi alla fine del tempo, siamo su un pianeta alieno, unici sopravvissuti a un disastro di proporzioni bibliche. Entriamo e usciamo dalle case vuote, siamo noi i fantasmi forse. Ci aggiriamo fra le rovine in silenzio, immaginare la vita del passato è un esercizio complesso.

La sabbia che invade ogni superficie disponibile rende comunque l’idea della lotta impari e incessante dell’uomo col deserto, che avanza senza sosta e senza poterlo arginare. Questo luogo lascia intuire anche quanto il deserto potrebbe contenere, quanto possa aver fagocitato e poi nascosto nel corso del tempo. Quanta vita è sepolta laggiù? Possiamo provare a immaginare le vicende quotidiane della gente che un tempo viveva qui, ma non possiamo sapere quante storie e vite e oggetti abbia inghiottito il deserto nei secoli. Sabbia ovunque, sabbia sulle scale e nelle scarpe, sabbia nel vento e fra le idee, sabbia che pervade ogni spazio, che corrode materiali e ricordi, che racchiude in sé e poi annulla il passato nelle sue profondità, digerendolo come i vermi di Arrakis.

FALLOUT

E’ il 2046, è un film di fantascienza, in cui noi siamo comparse che si muovono sul set per la prima volta, senza un copione o indicazioni di sorta. Gli interni dalle tinte pastello sono fermi immagine temporali, finestre affacciate su un mondo estinto, in cui immagino aggirarsi le bambole urbane di Francesca Tilio, un’amica ed eccellente fotografa delle mie parti. Bambole di una città spettrale fra il deserto e l’oceano, bambole coloniali di un ovest immaginario.

E’ un luogo evocativo: il passato è un fantasma che si aggira fra le tavole dissestate e il legno che scricchiola e resiste e mugola sotto i passi di coloro che si muovono dall’altro lato. E’ un mondo franato, che continua a sprofondare dolcemente ma in modo inesorabile. Eh si, questa sabbia somiglia al tempo, è la polvere di una clessidra cosmica, è il futuro che si affaccia e sgretola il presente.

VASCA DA BAGNO A VELA

Proseguiamo il nostro giro, scivoliamo a valle a bordo di una vasca da bagno a vela, mentre Giamma continua a manifestare sintomi di malessere che ci costringono ad alcune peripezie. Visitiamo le case dei dottori Kraenzle e von Lossow: il primo fissato con il vino anche come strumento terapeutico (la casa aveva una cantina ben fornita in effetti) e l’altro che aveva una vera passione per aglio e cipolla, fattore che pare utilizzasse per tenere lontani i pazienti.

Buttiamo un occhio alla stazione, ai vecchi negozi, alla piccola fabbrica di ghiaccioli Wonka, e poi lasciamo Kolmanshop, come fecero gli ultimi residenti nel 1956, dopo che la città aveva subito un graduale e costante spopolamento a partire dalla fine della prima guerra mondiale, a causa dell’esaurirsi delle miniere locali e della scoperta di altri giacimenti più redditizi.

Sono le 10e30 quando riprendiamo la macchina. Il viaggio è lungo e insidioso e il serbatoio va rimboccato. Tocca fare un’altra sosta ad Aus, ultimo avamposto prima del dilagante nulla diretto a Sesriem. Stavolta troviamo un tizio più sveglio del cacciatore di foche canadese del giorno prima. Facciamo il pieno, ci facciamo sgonfiare gli penumatici il tanto che basta per attutire l’impatto con la roccia che ci farà compagnia per le prossime ore, e ripartiamo.

D707 – CRONACHE MARZIANE

Nei pressi di Aus lasciamo la B4, imbocchiamo la C12 verso nord est, proseguiamo per qualche chilometro e poi, poco prima del Tirasberg Conservancy, viriamo a sinistra di 90 gradi per imbucare finalmente la D707, la pista che sogno da alcuni mesi, quella che mi ha regalato stravaganti fantasticherie ad occhi aperti mentre percorrevo le sterminate vallate della creazione. In strada si alternano roccia e sabbia rossa. Il paesaggio è una visione allucinante, sembra il pianeta Marte dipinto da Bradbury nelle sue Cronache marziane, o quello che poi ci hanno mostrato i rover Curiosity e Opportunity. I colori mutano in sequenza, il fondo stradale si trasforma rapidamente, passando dalla roccia alla sabbia e viceversa.

Oscillo alla guida, procedo in un moto ondoso e confuso da una riva all’altra della strada in piena, senza mai tenere una traiettoria precisa. Non dobbiamo forare, sia perché è meglio evitarlo a prescindere sia perché il nostro tempo è risicato, e non dobbiamo arenarci nei tratti in cui la sabbia si accumula, perché non c’è nessuno a parte noi, da queste parti, per provare – nella tragica eventualità- a trarci d’impiccio. Questa strada è assai poco frequentata in genere, tanto meno a giugno. Il “grosso” dei viaggiatori più arditi arriverà a luglio. Quindi cerco di evitare i massi più acuminati e i cumuli di sabbia e terriccio, ma questo esercizio richiede un livello di attenzione massima. Il sole picchia forte, e ho la sensazione che i miei occhi stiano per sanguinare a causa dello sforzo profuso. A tratti la prendiamo a ridere, a tratti la concentrazione è tale per cui Franci diventa un navigatore a tutti gli effetti, aiutandomi a scegliere il lato giusto della carrettiera e ad evitare le insidie maggiori. Di tanto in tanto avvistiamo gazzelle, struzzi, gnu, orici, kudu e altre antilopi. Non sembrano reali, tanto sono immerse in questo paesaggio ai limiti della credibilità: gli animali sembrano ombre sghembe di se stesse o figure proiettate da un proiezionista in vena di scherzi, disegni neri stilizzati che acquisiscono forma reale solo nel momento in cui la prospettiva si accorcia.

FURY ROAD

A un certo punto la strada non è più una strada ma una semplice pista dai margini sempre più blandi e incerti, non ha quasi più confini e disorienta ulteriormente chi l’attraversa. Incontriamo un gruppo di orici in prossimità di una roccia, e ci fermiamo ad osservarli. Uno di essi si staglia elegantemente su questo grosso masso piatto. La sua posa è regale, altezzosa, e si rivolge ai suoi simili dall’alto in basso, come se avesse qualcosa di importante da comunicare in nome della sua nobile stirpe. Forse è il loro re, o forse chissà. Alle sue spalle, la regina osserva ogni dettaglio con attenzione, come se avesse scritto lei stessa il discorso e ne stesse testando l’efficacia.

Riprendo a guidare sul suolo marziano, fatichiamo a parlare per le vibrazioni del fantastico mezzo a nostra disposizione, un rover Fortuner in buone condizioni fornitoci da coloni marziani di seconda generazione, un gruppo di mercanti e cacciatori di taglie pronti a tutto in cambio di qualche credito interplanetario. I bambini non hanno la nostra stessa soglia di attenzione e la nostra curiosità, e gli accordiamo un film, nonostante il frastuono e la febbricola di Gim. La varietà dei colori è indescrivibile, i contorni di ogni oggetto sono linee confuse e incerte che mutano forma e direzione lungo il cammino. Di punto in bianco avverto una stanchezza che va oltre la stanchezza: se la causa non è la rarefatta atmosfera marziana, lo è senz’altro la tensione nervosa, dovuta al senso di responsabilità nei confronti della mia famiglia, cui volevo regalare l’ebrezza della libertà nell’assoluto nulla che stiamo attraversando, ma che pure vorrei sapere al sicuro, in salvo dalle incognite dell’indeterminatezza e dell’ignoto.

Non posso mollare, allentare la tensione, e guidare qui è faticoso anche fisicamente, perché tocca tenere una velocità di crociera non inferiore agli 80 km orari per annullare almeno parzialmente l’attrito con il fondo disconnesso, e bisogna stringere e mollare continuamente il volante per contrastare la resistenza da un lato ed evitare ostacoli improvvisi dall’altro. Per lunghi tratti mi lascio scivolare via, proprio come se il rover venisse giù dal Piccolo Cervino. Le esse che disegno sul terreno mi divertono ma diventano estenuanti dopo oltre due ore di rally. Sono le 15 quando usciamo dalla D707. Esulto per aver superato una prova simile, e finalmente mi rilasso. Adesso avverto dolore alle braccia, alle spalle e sul collo, ma ho portato a termine la missione. Non trattengo una punta di orgoglio, che si sprigiona in un sorriso idiota a fine corsa.

SPES BONA

Facciamo un attimo fatica a capire dove andare perché le mappe off line non ci sostengono più nel Namib. Ma poi l’intuito di Franci prevale e ci riporta sulla retta via, ma con una sorpresa. Inizia una brutta C, il terreno intorno si fa più brullo e scuro, molto simile ad alcuni territori dell’entroterra islandese, ma la strada sembra persino peggiorare, perché i solchi si fanno via via più profondi e la strada più dura, tanto che le gomme andrebbero sgonfiate ancora un po’, se Spes Bona non fosse soltanto il nome di un crocevia, un non luogo a cavallo di altri non luoghi.

HAN SOLO

Così andiamo avanti, finchè facciamo il callo ai solchi. Ora ho superato la stanchezza, vago in quei territori che si stagliano al di là di essa, dove regna la bestialità. Monto il grugno del montanaro del Tiras, mi imbruttisco alla rassegnata ricerca della meta, guidare è il mio destino e non posso fare altro. Non solo, poche cose mi riescono meglio, e questa è la mia missione: pilotare il mio mezzo attraverso queste lande desolate, condurre la mia famiglia al di là del guado, che è poi quello che cerca di fare un padre ogni giorno. Tengo duro e via via i solchi si ammorbidiscono. Le alture in lontananza sembrano sommità di iceberg meticci o isolotti neri che galleggiano in mezzo a una distesa d’acqua che è solo un miraggio. La posa drammatica assunta per interpretare Han Solo, un contrabbandiere prestato al trasporto di esseri umani, mi ha fornito la forza residua per andare avanti, quella che non sai di avere finchè non ti serve.

DESERT QUIVER CAMP

Sono le 17e30 quando saltiamo nell’iperspazio con il Millennium Falcon, arrivando a destinazione, il Desert Quiver Camp, un altro luogo difficile da ipotizzare, con una dozzina di bungalow disposti a mezzaluna alla periferia di Mos Eisley, noto porto spaziale del pianeta Tatooine. Questa sarà la nostra casa per ben due giorni. Al check in Rafa Leao ci consegna le chiavi, ci spiega che -se abbiamo bisogno di un ristorante- possono prenotarci quello del Sossusvlei Lodge, con cui sono convenzionati. Diciamo di si, ma senza rendercene perfettamente conto. In questo momento diremmo si a tutto, probabilmente.

SCENE DI VITA QUOTIDIANA

Portiamo il rover al lodge. Stavolta siamo nel primo, quello più vicino alla reception, al bar e alla piccola piscina della struttura. Svuotiamo la macchina, poi ci buttiamo sotto la doccia. Svengo per qualche istante mentre Franci e le animelle discutono di qualcosa e armeggiano fra dentro e fuori. Li sento dire che vorrebbero cenare nel tavolino che abbiamo in veranda: farci un piatto di pasta in tranquillità è un’ottima idea, sembra prepararsi un bel tramonto e accetto di buon grado di riprendere la macchina e andare in paese a fare una piccola spesa. Le quasi otto ore al volante sono soltanto un vago ricordo. Il paese è poco più di un incrocio, arriviamo al discount indicato, un tizio all’ingresso ci fa capire che il negozio di alimentari sta chiudendo. Accompagno i miei al market, e ne approfitto per fare il pieno e guadagnare tempo per l’indomani. Poi raggiungo Franci e i ragazzi. Hanno già trovato pasta, olio e pomodoro. Io mi occupo del vino. Paghiamo e torniamo al bungalow, molto soddisfatti.

Franci si reca in reception per annullare la prenotazione della cena, poi torna e iniziamo ad apparecchiare. Cerchiamo le vettovaglie vicino al frigo, poi di lato, e poi sotto, e sopra, scrutando ogni angolo del nostro curioso lodge, ma non c’è traccia di piatti, pentole e quant’altro serva per cucinare. Ci siamo ormai arresi al fatto di prendere la via del ristorante, e Franci torna in reception per l’ennesima volta. Ma anziché con l’orario della prenotazione, torna con un box nero bello grande, che contiene tutto il necessario per cucinare. Siamo felici di poter restare lì. Il tramonto è magnifico, la pasta è più che decente e a noi piace allestire una propaggine di casa durante i nostri vagabondaggi, e quando il luogo lo concede Franci ci supporta con la sua abilità in cucina. Anche stavolta ha fatto tutto il possibile con gli ingredienti a disposizione.

IL COYOTE E LA VIA LATTEA

Poi la notte ci abbraccia col suo mantello nero, le stelle mettono in scena uno spettacolo indescrivibile, la via lattea è luminosa e sembra indicarci la vita segreta degli astri. A un certo punto, mentre ci avvicendiamo ad osservare il cielo col binocolo, Franci ci chiama e dice: ragazzi, venite, c’è un cagnolino! Andiamo e vediamo un coyote a un metro di noi. Se ne sta lì, pacifico, silenzioso, immobile. Ci osserva, in attesa di qualcosa. Poi le animelle gridano per la sorpresa e lui caracolla via senza fretta, nelle profondità della notte. Ma sento che è lì nei paraggi, ne sono sicuro, magari in attesa dei piccoli resti della nostra cena, magari solo per fare conoscenza. Ma adesso mi aggiro con minor rilassatezza nei dintorni della nostra baracca, osservo le profondità vacue del cielo stellato ma con un occhio a terra, in cerca del coyote, che ho sempre considerato un animale magico, che tra l’altro non avvistavo dai tempi del Sudafrica. Mi piacerebbe ballare con lui, prima di ritirarmi. Ma non ce n’è più traccia, e decido che è ora di congedarmi dalla veglia. Inizia a montare un vento impetuoso, che avanza senza ostacoli sulla superficie piatta del deserto. Il vento scuote la nostra tenda indiana e rimescola i pensieri prima del sonno, che poi prevale sul resto, consegnandoci al silenzio delle tenebre.

CALEIDOSCOPIO

La città fantasma e i suoi spettri, la chimera dei diamanti, le sopraelevate fra le dune e l’oceano, la pista selvaggia e le sue sorelle, il rover marziano, la terra rossa, i regali orici, i neri altopiani e i miraggi delle ombre, le baracche a mezzaluna nel deserto, la via lattea, il coyote nella notte scura, il vento del deserto. E’ stata una giornata incredibile, forse soltanto sognata, che difficilmente potrò dimenticare. Spero sia lo stesso per i miei cari.

BEETLEJUICE BEETLEJUICE Tutti a bordo del Soul Train

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Il Consiglio dell'Oste

La famiglia Deetz torna a a Winter River per la morte del capofamiglia. Lydia vive ancora a cavallo fra il regno dei vivi e quello dei morti. Nelle sue visioni i componenti dei due mondi si sovrappongono in modo allucinato e distorto. Sua figlia Astrid (una Ortega che “odora” ancora di Mercoledì), che non crede alle storie assurde della madre, si imbatte in un giovane misterioso. La voglia di innamorarsi prevale sull’evidente stranezza delle dinamiche di quegli incontri, e il disincanto rischia di travolgerla. Lydia è costretta a chiedere l’aiuto di Beetlejuice per salvare sua figlia dal regno dei morti. Beetlejuice, che in fondo è il male minore in mezzo a un mondo guasto, chiede in cambio il suo vecchio desiderio: sposare Lydia per tornare fra i vivi.

Nel sottomondo tutto procede nel solito caos di sale d’attesa e procedure allucinanti. Una donna di nome Delores rimette insieme i propri pezzi con uno scopo ben preciso: divorare l’anima del suo amato marito, Beetlejuice in persona. Il demoniaco spiritello -uno stratosferico Michael Keaton- è l’istrione indiscusso del regno dei defunti, dove la sua attività di bio-esorcismo prosegue a gonfie vele.

Le varie vicende si intrecciano in una baraonda di fughe ed effetti speciali, e se Delores succhia anime riducendo i morti alla stregua di lattine schiacciate, il Soul train conduce le anime all’oblio al ritmo funky di una danza macabra che pare quella di Thriller, mentre madre e figlia si ritrovano a scappare da un verme della sabbia di Urano in slow motion.

Nell’universo cupo ma godereccio di Tim Burton tutto è possibile, e situazioni che potrebbero comportare conseguenze drammatiche si risolvono poi in modo farsesco, come fosse un gioco, o il frutto della fantasia di un bambino che si dissolve al clic di una luce. E in effetti Burton approccia come un bambino la realtà e la rilettura artistica di essa, gioca il suo gioco liberamente, se ne frega dei canoni cinematografici, e si lascia andare a un’opera che racchiude tutto il suo estro e la sua storia d’artista. Il secondo capitolo di Beetlejuice è un vero e proprio compendio del cinema di Tim Burton, che è un cinema lugubre ma ludico e mai volgare, inaspettatamente spassoso nei numerosi passaggi in cui prende in giro se stesso ma anche tanto cinema noto.

Da sottolineare la prova di Willem Defoe, la cui natura oscilla fra quella in vita di attore di b-movies e quella trapassata di audace detective. La commistione dei due aspetti in un unico personaggio è leggendaria.

Ci sono presunte carenze di sceneggiatura, ma concedo il beneficio del dubbio al Mago Tim, perchè quello che può sembrare una crepa potrebbe essere una scorciatoia canzonatoria, uno svolazzo senza posa, persino una provocazione mirata a irritare chi proprio non riesce a scrollarsi di dosso i soliti canovacci narrativi. Nessuno -nel mondo del cinema, a parte Wes Anderson- ha la capacità di creare mondi e immagini che ha Tim Burton, e per quanto questo film non sia affatto perfetto, mi va bene tutto quanto scaturisca dalla sua mente, che mi ha insegnato a non smarrire mai la voglia di giocare e sognare. Viva Beetlejuice, viva Tim Burton.

NAMIBIA Family Adventure – Day 4 – Fish River Canyon Day

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Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie, Viaggi

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Cronache e Storie d'Osteria

La notte è stata eccellente. Ogni giorno riprendiamo gradualmente smalto e freschezza. Mi alzo verso le 7e30, poco prima dell’alba. Esco senza far rumore per non rovinare l’idillio di respiri tenui e candide lenzuola che regna nelle nostre stanze. Ora che la notte si è dissolta vedo finalmente dove siamo davvero. Il nostro bungalow è il penultimo prima del deserto sconfinato.

E’ fresco, ma non freddo, il vento è tagliente e scorbutico ma impercettibile alla vista, se non fosse per la sabbia che di tanto in tanto gorgoglia in leggeri mulinelli. Micro ballerine evanescenti danzano sulla superficie brulla per poi dissolversi nell’etere. La vegetazione è composta da coriacei e taciturni arbusti, da qualche solitario albero faretra e da altre specie ad esso riconducibili.

LESOTHO

La solitudine del momento mi ricorda un’alba in Lesotho di qualche anno fa: io e Franci all’epoca trovammo alloggio in uno sgangherato e caleidoscopico Backpapers, dopo un’escursione di un giorno fra pitture rupestri e villaggi nelle splendide vallate del minuto Paese africano.

I fiori rosa dei ciliegi punteggiavano un territorio prevalentemente arido, e il panorama complessivo offriva una visione diversificata del mondo conosciuto, quasi ci trovassimo a galleggiare fra le pennellate di un maestro impressionista. Anche allora mi ero allontanato per andare incontro all’alba, e ricordo il disco rosso fuoco davanti a me e l’illusione di essere solo, quando invece alle mie spalle un bus in disuso ospitava parecchi giovani in cuccette simili ad arnie.

LUNA LIBERA TUTTI

Qui in Namibia l’alba è più luminosa ma algida, di un azzurro freddo e surreale. La luna – attonita- sembra immobile, quasi si fosse persa, e si guardasse intorno per ritrovare il sentiero di casa. O forse è amareggiata, vorrebbe giocare l’ultima volta a nascondino, ma gli amici si sono ritirati dopo l’ultimo giro. Tana libera tutti, e una volta divincolati, i corpi celesti hanno riconquistato le proprie orbite con un guizzo cosmico. Robusti dorsi d’aragosta contrastano col blu cobalto del cielo ed esaltano il pallore estatico del nostro desolato satellite.

THE PROGRAM

E’ un altro luogo magnifico e penso sia un peccato non potervi ammirare il tramonto, dato che il programma di viaggio è serrato e non prevede notti supplementari nel profondo sud.

“Il programma di stasera è un ripasso, l’avete visto e rivisto passo per passo. E’ la vostra nascita, vita e morte, ricorderete ogni parte. Avete avuto un buon mondo morendo? Abbastanza da farci un film?”.

Continuo ad aggirarmi nei dintorni di me stesso. Cerco qualcosa fuori, o forse dentro di me. Il viaggio è incessante ricerca, come la vita stessa. Si cerca per aggiungere, o per sottrarre, ma anche per ricordare e ritrovare la memoria condivisa della specie e del pianeta, e riscoprirsi come individui diversi in seno alla Madre Terra. L’unico rumore è quello dei miei passi, qui regna una quiete che non nasconde o prepara tempeste. E’ pace reale, percepibile, ben salda sul dominio della nuda pietra. Il sole inizia a fare capolino, e regala regali sfumature di rosa e d’arancio. Abbiamo dormito nel vecchio west, la nostra baracca è una casa nella prateria, e fra i cespugli e le rocce iniziano a spuntare le animelle ancora mezze addormentate.

ANIMELLE ISTRIANE

Nel 2011, io e Franci girammo la Croazia a zig zag, da sud a nord, dalla costa all’entroterra, dall’entroterra alla costa. Risalendo, facemmo sosta in Istria per l’ultima tappa balcanica. Il gestore della struttura immersa nel verde era un ragazzo parecchio loquace e simpatico. I suoi bambini erano liberi e selvaggi, correvano da un non so dove all’altro senza sosta: li vedevamo spuntare da un cespuglio, o salire e scendere dagli alberi come baroni rampanti.

La loro corsa era rapida e leggera, e ogni tanto sentivamo il padre dire: “Dove sono le animelle?” o “Ecco le animelle!”. Io e Franci, senza sapere quale sarebbe stato il futuro, concludemmo che, se mai un giorno avessimo avuto figli, sarebbe stato carino chiamarli “animelle”, un modo leggero e volatile di definire un bambino che interpreta se stesso. La voce di quell’uomo di cui non ricordo il nome, insieme alla bellezza dell’Istria e al suo ottimo vino, è un ricordo tuttora vivido, una di quelle piccole cose che ti rimangono addosso oltre ogni previsione.

E proprio adesso, mentre scrivo, a casa nostra, a Jesi, mi chiedo cosa facciano le animelle: sento Irene ridere in giardino mentre gioca con le amichette e vedo Franci che aspetta Gim dalla finestra, di ritorno dalla casa dell’amico del cuore. Il tempo è un’illusione che la scrittura può raggirare. Il tempo è nel pensiero, e nell’acqua, e nello spazio tutto. Nella scrittura il tempo si perde e diventa ora e sempre. La comunicazione annulla il tempo e ciò che una mente legge e ciò che una mente scrive nella condivisione diviene pura eternità. Le parole rubano tempo al tempo.

LA GIOSTRA

Dalla Croazia e dalle curve paraboliche della memoria faccio ritorno in Gondwana. Le animelle escono silenziosamente. Si stropicciano gli occhi, si guardano intorno con sorpresa cercando di comprendere i trucchi che combina la luce quando si sostituisce al buio. Ogni particolare è diverso dalla sera prima, anche per loro. Giamma e Iri salgono e scendono dalle rocce: lo fanno sempre, come se lo dettasse l’istinto, o la memoria, come se non potessero resistere a quel moto indotto. La natura è una giostra per chi non l’ha dimenticata. Ma ecco arrivare Franci, facciamo qualche foto, ci riempiamo ancora un po’ gli occhi della bellezza che divampa tutto intorno, e poi andiamo a fare colazione con passo blando.

BIANCANEVE

La zona buffet, pervasa com’è dalla luce del sole e dal canto degli uccellini che, incredibile a dirsi, volano liberi fra dentro e fuori con grazia incontaminata, sembra qualcosa di assimilabile a una fiaba. Qui Biancaneve si sentirebbe a casa. Chi ha costruito questo luogo ha avuto l’accortezza di appoggiare il villaggio sulla roccia, al limitare di essa, quasi a lasciar intendere con l’evidenza dei fatti che siamo ospiti della terra e delle sue evoluzioni, che non possiamo fare finta di nulla o ignorarla, che il suo dominio è persino troppo evidente, che fuori e dentro non esistono realmente. O forse, oltre ogni concessione poetica, lo hanno fatto perchè quelle rocce sono indubbiamente magnifiche. Ma scelgo la prima ipotesi, anche a costo di prendermi in giro.

Mangiamo col solito appetito del mattino, pianifichiamo la giornata, facciamo gli zaini e sistemiamo l’automobile, per poi dirigerci al Fish River Canyon. L’ingresso è a soli venti minuti, il punto informazioni è spartano, le indicazioni dell’addetta scarne, ma il percorso è quasi obbligato e proseguiamo oltre senza indugio. Siamo patiti di mappe e cartine, ma in tal senso avremo poche soddisfazioni in Namibia.

IL FU POSSENTE FIUME FISH

Il canyon si estende per 160 km e sprofonda oltre i 500 metri in alcuni punti. Generato da sismi primordiali devastanti e dall’attività erosiva ed escavatrice del (fu) possente fiume Fish, oggi è un luogo prevalentemente arido. L’impatto visivo è potentissimo e lascia senza fiato: uno spettacolo dirompente, che racconta il passato e descrive il presente in modo inesorabile. Non sembra infinito come il Grand Canyon, ma la sensazione che ho avuto è di poterlo percepire meglio, più compiutamente, rispetto al gigante americano, che in alcuni tratti è talmente vasto da sembrare inconcepibile per i sensi umani.

L’ILLUSIONE MAGNETICA DELL’ATTRAZIONE

Ci fermiamo in un paio di view point, osserviamo i dettagli del canyon con i cannocchiali, restiamo a bocca aperta a destra e a manca. E’ un luogo eccitante, che trasmette grande energia. Le dimensioni delle spaccature sono maestose, è un mondo collassato per strati successivi che si mostra prima per gradi e poi tutto insieme. I consigli di John (a proposito, chissà dove sarà finito?) si sono rivelati azzeccati. A un certo punto lascio la macchina in uno dei punti panoramici e scorgo il sentiero che mi aveva indicato. Decidiamo così di raggiungere i vari punti di avvistamento a piedi, così da sgranchirci le gambe e respirare l’aria fresca del mattino. Camminare sul ciglio di quei precipizi è divertente e spaventoso, e le vertigini creano l’allucinazione magnetica dell’attrazione.

Mentre cammino mi torna ancora in mente il South Rim, il versante sud del Grand Canyon, quello a cui si accede nei pressi di Flagstaff, in Arizona. Nel 2010 io e Franci eravamo scesi fra le sue fauci per un bel tratto, e non mi era mai capitata la sensazione provata allora: testai un senso di vertigine al contrario, dal basso verso l’alto. Più scendevamo e più quelle pareti levigate mi davano l’illusione di essere sottosopra, di camminare sul ciglio rovesciato di un lago di roccia, forse anche a causa del riverbero del sole che picchiava fortissimo su di noi. Qui al Fish River invece non possiamo scendere, non perchè non vorremmo, ma perchè le regole parlano chiaro. Si può scendere in determinati orari e solo con una guida ufficiale. Si tratta di discese impegnative che prevedono di stare fuori uno o più giorni, così ci accontentiamo di osservare da fuori le viscere del mostro.

JUST MY IMMAGINATION

La mia immaginazione corre a ritroso verso le enormi masse d’acqua che qui – in un tempo tanto remoto da non riuscire a capirlo – coprivano ogni cosa come un tappeto fluido e foriero di vita. Penso all’acqua che inesorabilmente e nei secoli si è insinuata e ha scavato laddove ha scovato friabilità, laddove avvertì che il terreno avrebbe ceduto, laddove capì di potersi gettare a capofitto e andarsi a nascondere, disegnando ogni volta le traiettorie più strane, imprimendo sul mastodontico negativo della superficie residua le tracce indelebili del suo violentissimo passaggio.

Chissà dov’è adesso quell’acqua pensante, dove è andata a infilarsi, a scorrere, a generare nuova vita. Sembra il resoconto di una fuga leggendaria: l’acqua è scappata chissà dove, inafferrabile, impossibile da arginare, e si è rimescolata nelle profondità terrestri ad altri elementi, ad altri corsi sotterranei, contribuendo a produrre nuovo caos e infinita vita, che del caos e del caso è diretta conseguenza.

WILD HORSES

Ma lasciamo la mente dello scrittore vagare nel brodo primordiale del pensiero primigenio e torniamo a noi. Ci concediamo una foto nel punto che segna l’inizio del sentiero verso il fondo del canyon, come per immortalare l’inizio di un percorso mai percorso, e poi torniamo indietro. Sono le 12e30, è ora di andare. Abbiamo tre ore scarse di macchina e oggi vogliamo rilassarci ancora un po’, anche perché l’indomani prevede con ogni probabilità la tappa più pesante del viaggio. Siamo diretti ad Aus, dato che alloggeremo nei paraggi, al Klein Aus Vista Desert Horse Inn, così chiamato perché nei paraggi ci sono pianure popolate da cavalli selvaggi, pronipoti dei cavalli che arrivarono insieme ai coloni tedeschi e che hanno saputo adattarsi e riprodursi in queste terre.

Il viaggio è piacevole, guidare è divertente, e il tempo scorre leggero. Poco prima di arrivare, ci fermiamo a fare rifornimento di benzina ad Aus. Manco a dirlo, anche in tal caso trattasi di un centro abitato appena accennato. Una bozza da rivedere coi soliti binari a correre a bordo pista.

GHOST STATIONS & JAMIE FOXX , THE CANADIAN HUNTER

Ci fermiamo presso l’unica stazione funzionante della zona. Si, perché ci siamo resi conto fin dal primo giorno che la Namibia è piena di Ghost Stations, un modo di dire da me coniato che, per l’assonanza con Gas Station, faceva parecchio ridere le persone a cui ne parlavo. Avremo mille difetti, ma noi italiani abbiamo un talento formidabile per le amenità e i giochi di parole. La pompa presso cui ci fermiamo funziona, ma a modo suo. Fuori fa caldo, ma l’addetto indossa un pesante cappello rosso, con tanto di para orecchi. Vai a capire perché.

La pompa carica lentamente, e devo attendere il mio turno, perché lui è persino più lento della pompa, e fa una cosa alla volta, tanto che quando il mio turno arriva, più di dieci minuti dopo esserci poszionati, mi sono mezzo appisolato. Non solo, lui non mi fa alcun cenno di avanzare. Mi guarda con un sorriso quieto, e aspetta. Se non mi fossi riavuto, avrebbe aspettato ore, forse giorni, col suo berretto rosso da cacciatore di foche canadese. Che tipi strani popolano il mondo. Franci e i bambini ne hanno approfittato per andare in bagno e fare un po’ di spesa, e si stupiscono quando tornano e mi trovano ancora lì, con Jamie Foxx che continua a fissarmi. Già, perché il tizio -fra le altre cose- è anche il sosia sputato dell’attore texano, e la sua performance compassata, che invece ricorda Servillo ne Il divo, è da oscar, a mio modo di vedere.

La sosta ci fa perdere mezzora: Jamie mi ha mostrato ancora una volta quanto il tempo sia relativo. L’ennesima lezione di cui far tesoro.

LA FORTEZZA

Il Vista Desert Horse sembra un fortino, carico com’è di legno possente e di presunti bastioni difensivi. Lo cingiamo volentieri d’assedio. Il gestore ha un viso da pazzo, alla Malcolm McDowell, ma sembra simpatico. Ci indica un bungalow, dove ci andiamo a rimettere in sesto. I bambini vanno di fretta, e anche noi. Gim e Iri vogliono farsi un tuffo in piscina, mentre io e Franci vogliamo goderci il pomeriggio bevendoci qualcosa di fresco.

L’acqua è gelida, ma i ragazzi se ne fregano, e si tuffano in sequenza. Entrano ed escono rapidamente, non sono abituati a quelle temperature. Noi ci piazziamo in un angolo in cui sole e ombra si alternano in scena senza bisticciare. Si sta bene, sono felice che la mia famiglia si possa rilassare, ancora una volta. Queste mie concessioni per due giorni consecutivi andrebbero messe agli atti! Leggo qualche appunto di viaggio, segno alcune note sulle guide e sulla cartina stradale. Passa un po’ di tempo, e Franci e i ragazzi si ritirano per stendersi un attimo e rimettersi in sesto.

LA MORBIDEZZA

Io mi concedo un altro cocktail, una specie di mojito, e provo la lieve ebrezza del viaggiatore alticcio all’estero. Sono distante da ogni preoccupazione, il clima è godibile, la dimora con i miei affetti è proprio davanti a me; con la macchina oggi ho chiuso, nessuno mi conosce qui in Messico, ci sono tutti gli ingredienti per starmene tranquillo a fare le mie cose con discreta flemma. Poi su questa bella torta farcita arriva la ciliegina: un gruppetto di artisti locali si posiziona a pochi passi da me, e inizia a produrre il solito incanto sonoro, che infonde al quadro ulteriore pace e rilassatezza. Le loro voci, calde e suadenti, conducono lontano, a un livello successivo e più intenso del viaggio. Il tramonto si avvicina e decido di alzarmi. Mi siedo sulle scalette a godermi le effusioni dei due bei cani che vivono lì, e poi raggiungo i miei, fotografando i tanti angoli interessanti della casamatta, che cambiano forma e colore in base alle diverse inclinazioni dei raggi solari.

Ci rinfreschiamo e andiamo a cena verso le 18e45. Il sole scappa lasciando dietro di sè scie dalle tinte sublimi.

Il ristorante è proprio sopra al bar. Il personale è come sempre attento e disponibile, soprattutto nei confronti dei piccoli. Annaffiamo con del buon rosso il nostro pasto, che, come spesso accadrà, è composto da soup of the day (suona meglio di zuppa del giorno) e un po’ di carne. Ce la ridiamo, sia tra noi che con le gentilissime ragazze che si occupano di noi, con cui poi tentiamo di farci una foto.

MALCOLM & FRIENDS

Dopo aver assaggiato l’Essenza della Namibia, Francesca, che si era un attimo allontanata, mi chiama, dicendo di raggiungerla di sotto. Malcolm McDowell (si vedeva che era simpatico) ci ha invitati ad assaggiare la carne che sta cuocendo a fuoco lento assieme a due suoi cari amici, una coppia sudafricana che passa a trovarlo ogni anno.

E’ fantastico poter stabilire una connessione intorno a un braciere con persone di cui non sai nulla ma che emanano un calore umano incontestabile. E’ una connessione immediata, spontanea, favorita di certo dal vino ma anche dalla nostra naturale predisposizione a condividere. Viaggiare non avrebbe senso se non potessimo vivere momenti simili, sarebbe un atto fine a se stesso. Fra l’altro ci offrono un vino eccezionale proveniente dalla regione sudafricana di Stellenbosch, una zona non troppo distante da Cape Town, che io e Franci visitammo anni addietro, proprio per degustare i prodotti locali.

SHARING

Parliamo di viaggi, dei figli, di ciò che cerchiamo di trasmettere loro mostrandogli quanto il mondo sia vario e diversificato, parliamo della fatica che comporta impostare viaggi in questa maniera, che impone la rinuncia a certe comodità ma include poi nel pacchetto la scoperta del volto più autentico delle terre e della gente che incontri lungo il cammino. I nostri amici hanno figli già grandi, ma ci raccontano che anch’essi hanno girato il mondo insieme a loro, e che sono ricordi indelebili ed esperienze uniche da rievocare e condividere, anche perché poi i figli a un certo punto ti mollano e si rifiutano di seguirti. Condividiamo anche il concetto che il viaggio sia il più grande investimento possibile, il regalo più prezioso da fare, quello che offre più crescita e felicità, perché su di esso costruisci ricordi e memoria che contribuiranno alla costruzione di una persona infinitamente più di qualsiasi bene materiale. Viaggiare ci insegna a capire chi siamo, fissa ogni volta nuovi paletti, aggiorna le nostre possibilità e i nostri limiti, induce alla condivisione continua di storie, informazioni, curiosità.

La curiosità è alla base della cultura di ciascuno di noi, senza curiosità non saremmo nulla, non faremmo nulla, se non percorrere lo stesso stradello per una vita intera. E quanto mi piace l’espressione “to share”. Sta bene su tutto, è adattabile a tantissime azioni della vita, muta e caratterizza la filosofia di vita di una persona, l’approccio che l’individuo ha nei confronti di quanto la vita gli propina. Leggo e ascolto informazioni di chi sa condividere, e poi viaggio e condivido lungo la via, per poi tornare e condividere ciò che il viaggio ha rappresentato per me, nella speranza che qualcuno ne resti incuriosito, e ammaliato, e non possa resistere, e decida quindi di partire a sua volta, con quello stesso spirito e lo stesso desiderio di scoprire. Questo è il giro circolare che compie una storia, è cultura in formazione. Nel momento in cui le mie parole inducono anche una sola persona a partire, o a pensare di farlo, il mio scopo è raggiunto. Non si racconta per raccontare, ma per dare un senso ulteriore e una continuità alle esperienze vissute, e alle ricchezze nascoste che si portano dietro.

DON’T WORRY

Ci abbracciamo, ci facciamo qualche foto, ringraziamo di cuore queste persone così gentili che hanno scelto noi per condividere un tempo di grande valore, ci congediamo e in pochi passi siamo a casa. Quando viaggio con la mia famiglia al completo, casa è ovunque siamo noi quattro. Tiriamo le tende sulla giornata sorprendente appena trascorsa.

Faccio un pochino fatica a dormire, avverto più di un brivido per il giorno che verrà, che impone un percorso piuttosto complesso. Dovremo attraversare una terra desolata e selvaggia, su un altopiano a cavallo fra i monti Tiras e il deserto del Namib, che mi preoccupa, perché ho letto su diversi diari di viaggio che quella strada comporta delle insidie. Poi ripenso ai nostri nuovi amici, che poco prima mi hanno rasserenato in proposito: “Don’t worry, it’s a great choice and a wonderful road, you will never forget!”. Mi fido di loro, e so che sarà così. Posso lasciarmi andare alla notte di Aus.

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