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La notte è stata eccellente. Ogni giorno riprendiamo gradualmente smalto e freschezza. Mi alzo verso le 7e30, poco prima dell’alba. Esco senza far rumore per non rovinare l’idillio di respiri tenui e candide lenzuola che regna nelle nostre stanze. Ora che la notte si è dissolta vedo finalmente dove siamo davvero. Il nostro bungalow è il penultimo prima del deserto sconfinato.

E’ fresco, ma non freddo, il vento è tagliente e scorbutico ma impercettibile alla vista, se non fosse per la sabbia che di tanto in tanto gorgoglia in leggeri mulinelli. Micro ballerine evanescenti danzano sulla superficie brulla per poi dissolversi nell’etere. La vegetazione è composta da coriacei e taciturni arbusti, da qualche solitario albero faretra e da altre specie ad esso riconducibili.

LESOTHO

La solitudine del momento mi ricorda un’alba in Lesotho di qualche anno fa: io e Franci all’epoca trovammo alloggio in uno sgangherato e caleidoscopico Backpapers, dopo un’escursione di un giorno fra pitture rupestri e villaggi nelle splendide vallate del minuto Paese africano.

I fiori rosa dei ciliegi punteggiavano un territorio prevalentemente arido, e il panorama complessivo offriva una visione diversificata del mondo conosciuto, quasi ci trovassimo a galleggiare fra le pennellate di un maestro impressionista. Anche allora mi ero allontanato per andare incontro all’alba, e ricordo il disco rosso fuoco davanti a me e l’illusione di essere solo, quando invece alle mie spalle un bus in disuso ospitava parecchi giovani in cuccette simili ad arnie.

LUNA LIBERA TUTTI

Qui in Namibia l’alba è più luminosa ma algida, di un azzurro freddo e surreale. La luna – attonita- sembra immobile, quasi si fosse persa, e si guardasse intorno per ritrovare il sentiero di casa. O forse è amareggiata, vorrebbe giocare l’ultima volta a nascondino, ma gli amici si sono ritirati dopo l’ultimo giro. Tana libera tutti, e una volta divincolati, i corpi celesti hanno riconquistato le proprie orbite con un guizzo cosmico. Robusti dorsi d’aragosta contrastano col blu cobalto del cielo ed esaltano il pallore estatico del nostro desolato satellite.

THE PROGRAM

E’ un altro luogo magnifico e penso sia un peccato non potervi ammirare il tramonto, dato che il programma di viaggio è serrato e non prevede notti supplementari nel profondo sud.

Il programma di stasera è un ripasso, l’avete visto e rivisto passo per passo. E’ la vostra nascita, vita e morte, ricorderete ogni parte. Avete avuto un buon mondo morendo? Abbastanza da farci un film?”.

Continuo ad aggirarmi nei dintorni di me stesso. Cerco qualcosa fuori, o forse dentro di me. Il viaggio è incessante ricerca, come la vita stessa. Si cerca per aggiungere, o per sottrarre, ma anche per ricordare e ritrovare la memoria condivisa della specie e del pianeta, e riscoprirsi come individui diversi in seno alla Madre Terra. L’unico rumore è quello dei miei passi, qui regna una quiete che non nasconde o prepara tempeste. E’ pace reale, percepibile, ben salda sul dominio della nuda pietra. Il sole inizia a fare capolino, e regala regali sfumature di rosa e d’arancio. Abbiamo dormito nel vecchio west, la nostra baracca è una casa nella prateria, e fra i cespugli e le rocce iniziano a spuntare le animelle ancora mezze addormentate.

ANIMELLE ISTRIANE

Nel 2011, io e Franci girammo la Croazia a zig zag, da sud a nord, dalla costa all’entroterra, dall’entroterra alla costa. Risalendo, facemmo sosta in Istria per l’ultima tappa balcanica. Il gestore della struttura immersa nel verde era un ragazzo parecchio loquace e simpatico. I suoi bambini erano liberi e selvaggi, correvano da un non so dove all’altro senza sosta: li vedevamo spuntare da un cespuglio, o salire e scendere dagli alberi come baroni rampanti.

La loro corsa era rapida e leggera, e ogni tanto sentivamo il padre dire: “Dove sono le animelle?” o “Ecco le animelle!”. Io e Franci, senza sapere quale sarebbe stato il futuro, concludemmo che, se mai un giorno avessimo avuto figli, sarebbe stato carino chiamarli “animelle”, un modo leggero e volatile di definire un bambino che interpreta se stesso. La voce di quell’uomo di cui non ricordo il nome, insieme alla bellezza dell’Istria e al suo ottimo vino, è un ricordo tuttora vivido, una di quelle piccole cose che ti rimangono addosso oltre ogni previsione.

E proprio adesso, mentre scrivo, a casa nostra, a Jesi, mi chiedo cosa facciano le animelle: sento Irene ridere in giardino mentre gioca con le amichette e vedo Franci che aspetta Gim dalla finestra, di ritorno dalla casa dell’amico del cuore. Il tempo è un’illusione che la scrittura può raggirare. Il tempo è nel pensiero, e nell’acqua, e nello spazio tutto. Nella scrittura il tempo si perde e diventa ora e sempre. La comunicazione annulla il tempo e ciò che una mente legge e ciò che una mente scrive nella condivisione diviene pura eternità. Le parole rubano tempo al tempo.

LA GIOSTRA

Dalla Croazia e dalle curve paraboliche della memoria faccio ritorno in Gondwana. Le animelle escono silenziosamente. Si stropicciano gli occhi, si guardano intorno con sorpresa cercando di comprendere i trucchi che combina la luce quando si sostituisce al buio. Ogni particolare è diverso dalla sera prima, anche per loro. Giamma e Iri salgono e scendono dalle rocce: lo fanno sempre, come se lo dettasse l’istinto, o la memoria, come se non potessero resistere a quel moto indotto. La natura è una giostra per chi non l’ha dimenticata. Ma ecco arrivare Franci, facciamo qualche foto, ci riempiamo ancora un po’ gli occhi della bellezza che divampa tutto intorno, e poi andiamo a fare colazione con passo blando.

BIANCANEVE

La zona buffet, pervasa com’è dalla luce del sole e dal canto degli uccellini che, incredibile a dirsi, volano liberi fra dentro e fuori con grazia incontaminata, sembra qualcosa di assimilabile a una fiaba. Qui Biancaneve si sentirebbe a casa. Chi ha costruito questo luogo ha avuto l’accortezza di appoggiare il villaggio sulla roccia, al limitare di essa, quasi a lasciar intendere con l’evidenza dei fatti che siamo ospiti della terra e delle sue evoluzioni, che non possiamo fare finta di nulla o ignorarla, che il suo dominio è persino troppo evidente, che fuori e dentro non esistono realmente. O forse, oltre ogni concessione poetica, lo hanno fatto perchè quelle rocce sono indubbiamente magnifiche. Ma scelgo la prima ipotesi, anche a costo di prendermi in giro.

Mangiamo col solito appetito del mattino, pianifichiamo la giornata, facciamo gli zaini e sistemiamo l’automobile, per poi dirigerci al Fish River Canyon. L’ingresso è a soli venti minuti, il punto informazioni è spartano, le indicazioni dell’addetta scarne, ma il percorso è quasi obbligato e proseguiamo oltre senza indugio. Siamo patiti di mappe e cartine, ma in tal senso avremo poche soddisfazioni in Namibia.

IL FU POSSENTE FIUME FISH

Il canyon si estende per 160 km e sprofonda oltre i 500 metri in alcuni punti. Generato da sismi primordiali devastanti e dall’attività erosiva ed escavatrice del (fu) possente fiume Fish, oggi è un luogo prevalentemente arido. L’impatto visivo è potentissimo e lascia senza fiato: uno spettacolo dirompente, che racconta il passato e descrive il presente in modo inesorabile. Non sembra infinito come il Grand Canyon, ma la sensazione che ho avuto è di poterlo percepire meglio, più compiutamente, rispetto al gigante americano, che in alcuni tratti è talmente vasto da sembrare inconcepibile per i sensi umani.

L’ILLUSIONE MAGNETICA DELL’ATTRAZIONE

Ci fermiamo in un paio di view point, osserviamo i dettagli del canyon con i cannocchiali, restiamo a bocca aperta a destra e a manca. E’ un luogo eccitante, che trasmette grande energia. Le dimensioni delle spaccature sono maestose, è un mondo collassato per strati successivi che si mostra prima per gradi e poi tutto insieme. I consigli di John (a proposito, chissà dove sarà finito?) si sono rivelati azzeccati. A un certo punto lascio la macchina in uno dei punti panoramici e scorgo il sentiero che mi aveva indicato. Decidiamo così di raggiungere i vari punti di avvistamento a piedi, così da sgranchirci le gambe e respirare l’aria fresca del mattino. Camminare sul ciglio di quei precipizi è divertente e spaventoso, e le vertigini creano l’allucinazione magnetica dell’attrazione.

Mentre cammino mi torna ancora in mente il South Rim, il versante sud del Grand Canyon, quello a cui si accede nei pressi di Flagstaff, in Arizona. Nel 2010 io e Franci eravamo scesi fra le sue fauci per un bel tratto, e non mi era mai capitata la sensazione provata allora: testai un senso di vertigine al contrario, dal basso verso l’alto. Più scendevamo e più quelle pareti levigate mi davano l’illusione di essere sottosopra, di camminare sul ciglio rovesciato di un lago di roccia, forse anche a causa del riverbero del sole che picchiava fortissimo su di noi. Qui al Fish River invece non possiamo scendere, non perchè non vorremmo, ma perchè le regole parlano chiaro. Si può scendere in determinati orari e solo con una guida ufficiale. Si tratta di discese impegnative che prevedono di stare fuori uno o più giorni, così ci accontentiamo di osservare da fuori le viscere del mostro.

JUST MY IMMAGINATION

La mia immaginazione corre a ritroso verso le enormi masse d’acqua che qui – in un tempo tanto remoto da non riuscire a capirlo – coprivano ogni cosa come un tappeto fluido e foriero di vita. Penso all’acqua che inesorabilmente e nei secoli si è insinuata e ha scavato laddove ha scovato friabilità, laddove avvertì che il terreno avrebbe ceduto, laddove capì di potersi gettare a capofitto e andarsi a nascondere, disegnando ogni volta le traiettorie più strane, imprimendo sul mastodontico negativo della superficie residua le tracce indelebili del suo violentissimo passaggio.

Chissà dov’è adesso quell’acqua pensante, dove è andata a infilarsi, a scorrere, a generare nuova vita. Sembra il resoconto di una fuga leggendaria: l’acqua è scappata chissà dove, inafferrabile, impossibile da arginare, e si è rimescolata nelle profondità terrestri ad altri elementi, ad altri corsi sotterranei, contribuendo a produrre nuovo caos e infinita vita, che del caos e del caso è diretta conseguenza.

WILD HORSES

Ma lasciamo la mente dello scrittore vagare nel brodo primordiale del pensiero primigenio e torniamo a noi. Ci concediamo una foto nel punto che segna l’inizio del sentiero verso il fondo del canyon, come per immortalare l’inizio di un percorso mai percorso, e poi torniamo indietro. Sono le 12e30, è ora di andare. Abbiamo tre ore scarse di macchina e oggi vogliamo rilassarci ancora un po’, anche perché l’indomani prevede con ogni probabilità la tappa più pesante del viaggio. Siamo diretti ad Aus, dato che alloggeremo nei paraggi, al Klein Aus Vista Desert Horse Inn, così chiamato perché nei paraggi ci sono pianure popolate da cavalli selvaggi, pronipoti dei cavalli che arrivarono insieme ai coloni tedeschi e che hanno saputo adattarsi e riprodursi in queste terre.

Il viaggio è piacevole, guidare è divertente, e il tempo scorre leggero. Poco prima di arrivare, ci fermiamo a fare rifornimento di benzina ad Aus. Manco a dirlo, anche in tal caso trattasi di un centro abitato appena accennato. Una bozza da rivedere coi soliti binari a correre a bordo pista.

GHOST STATIONS & JAMIE FOXX , THE CANADIAN HUNTER

Ci fermiamo presso l’unica stazione funzionante della zona. Si, perché ci siamo resi conto fin dal primo giorno che la Namibia è piena di Ghost Stations, un modo di dire da me coniato che, per l’assonanza con Gas Station, faceva parecchio ridere le persone a cui ne parlavo. Avremo mille difetti, ma noi italiani abbiamo un talento formidabile per le amenità e i giochi di parole. La pompa presso cui ci fermiamo funziona, ma a modo suo. Fuori fa caldo, ma l’addetto indossa un pesante cappello rosso, con tanto di para orecchi. Vai a capire perché.

La pompa carica lentamente, e devo attendere il mio turno, perché lui è persino più lento della pompa, e fa una cosa alla volta, tanto che quando il mio turno arriva, più di dieci minuti dopo esserci poszionati, mi sono mezzo appisolato. Non solo, lui non mi fa alcun cenno di avanzare. Mi guarda con un sorriso quieto, e aspetta. Se non mi fossi riavuto, avrebbe aspettato ore, forse giorni, col suo berretto rosso da cacciatore di foche canadese. Che tipi strani popolano il mondo. Franci e i bambini ne hanno approfittato per andare in bagno e fare un po’ di spesa, e si stupiscono quando tornano e mi trovano ancora lì, con Jamie Foxx che continua a fissarmi. Già, perché il tizio -fra le altre cose- è anche il sosia sputato dell’attore texano, e la sua performance compassata, che invece ricorda Servillo ne Il divo, è da oscar, a mio modo di vedere.

La sosta ci fa perdere mezzora: Jamie mi ha mostrato ancora una volta quanto il tempo sia relativo. L’ennesima lezione di cui far tesoro.

LA FORTEZZA

Il Vista Desert Horse sembra un fortino, carico com’è di legno possente e di presunti bastioni difensivi. Lo cingiamo volentieri d’assedio. Il gestore ha un viso da pazzo, alla Malcolm McDowell, ma sembra simpatico. Ci indica un bungalow, dove ci andiamo a rimettere in sesto. I bambini vanno di fretta, e anche noi. Gim e Iri vogliono farsi un tuffo in piscina, mentre io e Franci vogliamo goderci il pomeriggio bevendoci qualcosa di fresco.

L’acqua è gelida, ma i ragazzi se ne fregano, e si tuffano in sequenza. Entrano ed escono rapidamente, non sono abituati a quelle temperature. Noi ci piazziamo in un angolo in cui sole e ombra si alternano in scena senza bisticciare. Si sta bene, sono felice che la mia famiglia si possa rilassare, ancora una volta. Queste mie concessioni per due giorni consecutivi andrebbero messe agli atti! Leggo qualche appunto di viaggio, segno alcune note sulle guide e sulla cartina stradale. Passa un po’ di tempo, e Franci e i ragazzi si ritirano per stendersi un attimo e rimettersi in sesto.

LA MORBIDEZZA

Io mi concedo un altro cocktail, una specie di mojito, e provo la lieve ebrezza del viaggiatore alticcio all’estero. Sono distante da ogni preoccupazione, il clima è godibile, la dimora con i miei affetti è proprio davanti a me; con la macchina oggi ho chiuso, nessuno mi conosce qui in Messico, ci sono tutti gli ingredienti per starmene tranquillo a fare le mie cose con discreta flemma. Poi su questa bella torta farcita arriva la ciliegina: un gruppetto di artisti locali si posiziona a pochi passi da me, e inizia a produrre il solito incanto sonoro, che infonde al quadro ulteriore pace e rilassatezza. Le loro voci, calde e suadenti, conducono lontano, a un livello successivo e più intenso del viaggio. Il tramonto si avvicina e decido di alzarmi. Mi siedo sulle scalette a godermi le effusioni dei due bei cani che vivono lì, e poi raggiungo i miei, fotografando i tanti angoli interessanti della casamatta, che cambiano forma e colore in base alle diverse inclinazioni dei raggi solari.

Ci rinfreschiamo e andiamo a cena verso le 18e45. Il sole scappa lasciando dietro di sè scie dalle tinte sublimi.

Il ristorante è proprio sopra al bar. Il personale è come sempre attento e disponibile, soprattutto nei confronti dei piccoli. Annaffiamo con del buon rosso il nostro pasto, che, come spesso accadrà, è composto da soup of the day (suona meglio di zuppa del giorno) e un po’ di carne. Ce la ridiamo, sia tra noi che con le gentilissime ragazze che si occupano di noi, con cui poi tentiamo di farci una foto.

MALCOLM & FRIENDS

Dopo aver assaggiato l’Essenza della Namibia, Francesca, che si era un attimo allontanata, mi chiama, dicendo di raggiungerla di sotto. Malcolm McDowell (si vedeva che era simpatico) ci ha invitati ad assaggiare la carne che sta cuocendo a fuoco lento assieme a due suoi cari amici, una coppia sudafricana che passa a trovarlo ogni anno.

E’ fantastico poter stabilire una connessione intorno a un braciere con persone di cui non sai nulla ma che emanano un calore umano incontestabile. E’ una connessione immediata, spontanea, favorita di certo dal vino ma anche dalla nostra naturale predisposizione a condividere. Viaggiare non avrebbe senso se non potessimo vivere momenti simili, sarebbe un atto fine a se stesso. Fra l’altro ci offrono un vino eccezionale proveniente dalla regione sudafricana di Stellenbosch, una zona non troppo distante da Cape Town, che io e Franci visitammo anni addietro, proprio per degustare i prodotti locali.

SHARING

Parliamo di viaggi, dei figli, di ciò che cerchiamo di trasmettere loro mostrandogli quanto il mondo sia vario e diversificato, parliamo della fatica che comporta impostare viaggi in questa maniera, che impone la rinuncia a certe comodità ma include poi nel pacchetto la scoperta del volto più autentico delle terre e della gente che incontri lungo il cammino. I nostri amici hanno figli già grandi, ma ci raccontano che anch’essi hanno girato il mondo insieme a loro, e che sono ricordi indelebili ed esperienze uniche da rievocare e condividere, anche perché poi i figli a un certo punto ti mollano e si rifiutano di seguirti. Condividiamo anche il concetto che il viaggio sia il più grande investimento possibile, il regalo più prezioso da fare, quello che offre più crescita e felicità, perché su di esso costruisci ricordi e memoria che contribuiranno alla costruzione di una persona infinitamente più di qualsiasi bene materiale. Viaggiare ci insegna a capire chi siamo, fissa ogni volta nuovi paletti, aggiorna le nostre possibilità e i nostri limiti, induce alla condivisione continua di storie, informazioni, curiosità.

La curiosità è alla base della cultura di ciascuno di noi, senza curiosità non saremmo nulla, non faremmo nulla, se non percorrere lo stesso stradello per una vita intera. E quanto mi piace l’espressione “to share”. Sta bene su tutto, è adattabile a tantissime azioni della vita, muta e caratterizza la filosofia di vita di una persona, l’approccio che l’individuo ha nei confronti di quanto la vita gli propina. Leggo e ascolto informazioni di chi sa condividere, e poi viaggio e condivido lungo la via, per poi tornare e condividere ciò che il viaggio ha rappresentato per me, nella speranza che qualcuno ne resti incuriosito, e ammaliato, e non possa resistere, e decida quindi di partire a sua volta, con quello stesso spirito e lo stesso desiderio di scoprire. Questo è il giro circolare che compie una storia, è cultura in formazione. Nel momento in cui le mie parole inducono anche una sola persona a partire, o a pensare di farlo, il mio scopo è raggiunto. Non si racconta per raccontare, ma per dare un senso ulteriore e una continuità alle esperienze vissute, e alle ricchezze nascoste che si portano dietro.

DON’T WORRY

Ci abbracciamo, ci facciamo qualche foto, ringraziamo di cuore queste persone così gentili che hanno scelto noi per condividere un tempo di grande valore, ci congediamo e in pochi passi siamo a casa. Quando viaggio con la mia famiglia al completo, casa è ovunque siamo noi quattro. Tiriamo le tende sulla giornata sorprendente appena trascorsa.

Faccio un pochino fatica a dormire, avverto più di un brivido per il giorno che verrà, che impone un percorso piuttosto complesso. Dovremo attraversare una terra desolata e selvaggia, su un altopiano a cavallo fra i monti Tiras e il deserto del Namib, che mi preoccupa, perché ho letto su diversi diari di viaggio che quella strada comporta delle insidie. Poi ripenso ai nostri nuovi amici, che poco prima mi hanno rasserenato in proposito: “Don’t worry, it’s a great choice and a wonderful road, you will never forget!”. Mi fido di loro, e so che sarà così. Posso lasciarmi andare alla notte di Aus.