THE DAY AFTER
Mi risveglio lentamente. Apro gli occhi, o credo di farlo. Franci mi sta dicendo qualcosa. I bambini ancora dormono. Lei sta andando in farmacia, a piedi, a cercare un rimedio per me. Sono uno straccio. Ho dormito un’ora al massimo. L’idea che Franci si sposti a piedi in un luogo che conosce appena mi avvelena ulteriormente, ma non ho il controllo della situazione. Non so più se sia notte o giorno. A un certo punto non so più nemmeno se sia vero che lei sia venuta da me. Provo ad alzarmi per verificare, ma sono disidratato e tremo come se avessi la febbre. Sono esausto. Provo a bere un po’ d’acqua. Stille di paura e sudore freddo colano dalle mie tempie al minimo contatto con l’acqua. Assaggio un boccone di banana per testare la reazione della mia carcassa. Ma non è piacevole mangiare, e non mi reggo in piedi. Torno a letto insieme ai miei tormenti. Non so dove siano gli altri, o cosa stiano facendo.
ONE DRIVER
Perdo di nuovo i sensi, poi d’un tratto riapro gli occhi e vedo Franci e i bambini che armeggiano intorno al mio letto. Gim e Iri sono preoccupati per il mio stato. Franci ha svaligiato la farmacia. Prendo tutto quello che mi offre senza fare domande. Mi aggiro per casa senza costrutto, mentre i miei si danno un gran da fare. Sistemano i bagagli, trasportano gli zaini in garage. Provo a mangiare un altro pezzo di banana. Contano su di me, e devo riprendermi in qualche modo. Mi butto sotto la doccia, sento freddo nonostante il clima gradevole. Cerco di lavarmi via di dosso la patina di quella notte horror. Mi rivesto a fatica. Mi siedo un attimo, ma so cosa succederà a breve. Dobbiamo partire, e io devo guidare. Il nostro contratto di noleggio non prevede il secondo driver. E’ una scelta mia e di Franci, da sempre. A me piace guidare, soprattutto all’estero, a Franci meno, e lei si è sempre fidata di me, in tanti anni e in decine di migliaia di chilometri percorsi nei luoghi che abbiamo visitato. La guida è mia responsabilità, e non posso sottrarmi, soprattutto dopo che si sono impegnati tanto per me.
IL ROVER PIU’ PAZZO DEL MONDO
Entro in macchina, all’ombra del garage. I miei sono già a bordo. Mentre la serranda elettrica si solleva, la luce invade lentamente lo spazio, ammazzandomi. Cascate di sudore freddo mi inzuppano la schiena. Sono nel panico. Cerco di muovermi il meno possibile e di non parlare. I miei movimenti sono compassati, impercettibili. La reattività ai minimi storici. Franci mi guida passo per passo fino alla stazione di servizio, dove facciamo il pieno. La considero una prima, pesantissima tappa messa in archivio. Ma poi partiamo davvero.
UIS OR SKELETON? THIS IS THE QUESTION

L’idea del giorno precedente era semplice: procedere lungo la costa verso nord per andare a vedere un’enorme colonia di foche a Cape Cross, una località situata all’estremo sud della Skeleton Coast; per poi tornare indietro e virare verso Uis, un villaggio dell’entroterra nei pressi dei monti Brandberg. Ma le mie condizioni implicano la possibilità di scelte dolorose. Andare direttamente ad Uis rappresenterebbe scelta saggia, perché mi risparmierei una deviazione di quasi due ore. Ma perdere le foche e quella costa spettrale mi dispiacerebbe. Ho 90 minuti per capire se posso farcela. A Hentie’s bay dovrò decidere se arrendermi e svoltare verso est o tirare dritto fino a Cape Cross.
IL FAUST DI SOKUROV
La giornata è carica di nebbia e umidità oceaniche. Una proiezione beffarda del mio malessere interiore. Mi sembra di essere dentro il Faust di Sokurov. I colori tetri e le tinte fosche mi trascinano in un abisso. La mia visuale è distorta, non riesco a mettere a fuoco il mondo fuori. Il microorganismo è il demone di turno. Un filtro giallo e quasi sulfureo riempie il mio campo visivo, calando su di me un abbraccio mortifero.

Il paesaggio assume contorni claustrofobici, mentre la nausea mi impedisce una respirazione regolare e mi toglie ogni equilibrio. La strada dritta, infinita come la nebbia che l’avvolge, le dune compatte da una parte e l’oceano plumbeo dall’altra costruiscono il mio personalissimo inferno. Ho l’impressione di vagabondare senza meta, di essere solo in un incubo senza fine.
PAURA E DELIRIO IN NAMIBIA
Sono in piena congestione farmacologica. E lungo questa linea retta africana d’un tratto avvisto qualcosa, una macchia scura. E’ il primo posto di blocco da quando siamo in Namibia, e mi capita nelle migliori condizioni. Vado in paranoia: arrivo a pensare che se mi facessero un test mi troverebbero in overdose da farmaci ignoti. Ci fermiamo. Fornisco loro la patente internazionale, la versione tradotta della mia. I due agenti la guardano con sospetto, come fosse un oggetto mai visto prima. Mi chiedono di mostrargli la licenza di guida originale. Glie la porgo, e questa gli piace. Il dubbio che la patente internazionale non serva a una mazza si dissipa in un attimo, tramutandosi in certezza. E questa riflessione è importante, perchè è il primo concetto che riesco a elaborare lucidamente in quella mattinata di paura e delirio in Namibia. Gli sbirri ci salutano, e io riparto con un pizzico di autostima in carniere. Metto il becco fuori dall’abisso. Gradualmente riprendo possesso delle mie facoltà. Mangio qualcosa, mi sento meglio. Decidiamo di proseguire verso Cape Cross.
CAPE CROSS
La strada è desolata e priva di curve. Siamo su un altopiano, la foschia non molla, non incrociamo nessuno. Dopo un certo peregrinare arriviamo a destinazione. C’è una baracca di legno. Ci sono due tizi seduti lì davanti. Una donna si alza pigramente per farci pagare. Il suo collega tira su la sbarra in un silenzio irreale. Ci siamo solo noi. La strada si avvicina alla costa e inizia a scendere e a farsi largo fra rocce che somigliano sempre più a scogli. Avvistiamo le colonie di foche. Fermiamo il rover a una decina di metri di distanza, per sicurezza. Ci hanno spiegato che le foche non sono propriamente amichevoli.
FOCHE DI PATTUGLIA
Scendiamo e la prima cosa che percepiamo è un odore fortissimo. Avevo letto qualcosa a riguardo ma pensavo di essere corazzato in tal senso dopo l’esperienza affascinante ma nauseabonda in mezzo ai pinguini della Boulders beach di Simon’s Town in Sudafrica. Il tanfo qui è pungente al punto da stordire, anche se sono tuttora convinto che sia stato uno shock utile per riavermi quasi definitivamente. Le foche sono tantissime, ammassate una sull’altra. Il nostro obiettivo è percorrere una passerella di legno per avere una visione più completa dell’enorme colonia che popola la spiaggia sottostante.



Tentiamo di accedere da entrambi i lati, ma ci rendiamo conto ben presto che gli ingressi sono pattugliati. Gli animali non gradiscono affatto la nostra presenza. Faccio qualche passo oltre la mia famiglia, ma il rumore e l’agitazione di alcuni esemplari cresce via via che mi avvicino a loro. Non sembra una buona idea proseguire, e ci accontentiamo di osservare da vicino le foche che abbiamo a portata di naso: sono chiassose, ciarliere e scorbutiche. Ogni individuo pare farsi i fatti propri ma sembra anche strettamente connesso agli altri: la comunicazione corre rapidamente nel branco.






Salutiamo le foche e risaliamo in macchina. Ci rendiamo conto che le nostre giacche sono impregnate dei miasmi pestilenziali delle foche di Cape Cross.
INTERCEPTOR
Si riparte in direzione di Uis, e c’è poco da segnalare nelle ultime due ore di strada, a parte il sole che torna a fare capolino man mano che ci addentriamo nell’entroterra e alcuni fatiscenti punti vendita a bordo pista: pile di vecchi pneumatici, ingegnose rappresentazioni di uomini e animali simili a spaventapasseri, e qualche legnetto intrecciato fungono da bancarelle in cui sono in mostra pietre e ninnoli vari.

Non c’è nessuno in realtà, e chi si ferma può prendere ciò che preferisce lasciando un’offerta. In uno di questi baracchini Franci trova uno splendido cubo di sale rosa. Lasciamo l’offerta e filiamo via da quell’ambiente un tantino spettrale. In effetti sembravano marchingegni, trappole per passanti ignari. Sembrano le scenografie di Waterworld o di Interceptor, due di quei film che restano impressi in memoria per sempre, a prescindere dalla loro qualità.
BUEN RETIRO


Stiamo entrando nelle terra dei Damara. Arriviamo al Daureb Isib Campsite verso le 17e30. Il luogo è scarico di vegetazione ma ha il suo fascino. E’ un buen retiro più che gradito dopo il travaglio patito. Anzi è il più bel luogo al mondo, sito alla fine di uno sforzo cosmico. Parcheggiamo, tiriamo fuori i bagagli. Sono fiero di aver portato la mia famiglia a destinazione in sicurezza e rispettando il piano di viaggio. E’ il momento di riposarmi. Stendermi sulle lenzuola candide e pulite è un piacere profondo, difficile da descrivere. E’ un brivido lieve che percorre il corpo da cima a fondo, un formicolio elettrizzante che mi rilassa solo in parte, concedendomi un sonno breve e leggero, ma significativo.
SOUP OF THE DAY



Franci e i ragazzi nel frattempo si aggirano alla scoperta del campo. Quando mi alzo, faccio una doccia e li trovo intorno al nostro bungalow. Il silenzio regna sovrano mentre il pianeta ruota di quel tanto necessario a congedare il sole. E’ un’oasi di pace.



Ci avviamo verso il ristorantino del campeggio. Mi sono ripreso ma il mio stomaco è appesantito dal mix di farmaci, così mangio una zuppa e poco più a cena. Notiamo una famiglia italiana, una vera rarità in questi giorni namibiani. Una coppia di lombardi con due figli più grandi dei nostri.
DI STELLE E D’INCHIOSTRO
Nessuno di noi fa un passo verso l’altro per tentare un approccio, per accampare una scusa utile a rompere il ghiaccio, così mi limito a un ciao di commiato a fine pasto, con un certo rammarico. Fossi stato in forma, non mi sarei lasciato sfuggire questa possibilità di condivisione. Camminiamo verso casa con la torcia in mano, e osservo con sorpresa i nostri connazionali entrare in una di quelle tende sistemate sul tettino del pick up, prima di svanire nell’ennesima notte di stelle e d’inchiostro.