VENTO IN POPPA
Ci svegliamo poco prima delle 8. La giornata promette bene. La luce namibiana è un vento in poppa, una forza che infonde ottimismo e trascina i viaggiatori. Ho recuperato le energie, sto bene, e, ogni volta che capita dopo una giornata travagliata, la sensazione è quella di uno stato di grazia. Stare bene è qualcosa che tendiamo a sottovalutare, a considerare normale. Ma non sempre è così.
COLLINE DI STAGNO
Siamo nel Damaraland, fra le collinette di Uis, un villaggio nato intorno alle miniere di stagno che poi furono abbandonate all’inizio degli anni 90 del secolo scorso. Le colline candide e biancheggianti che si alternano a quelle naturali sono in effetti i cumuli dei resti della lavorazione dello stagno. Pensavamo fosse sale, invece era un calesse. Uis è sopravvissuta grazie al turismo, dato che è un punto strategico per visitare alcuni siti interessanti.


CACTUS CAFE’
Camminiamo verso il Cactus Cafè del Daureb Isib nella pace del mattino. Molti viaggiatori lavorano in silenzio, sistemando l’attrezzatura e richiudendo con cura le tende sopra i pick up. Fra questi, noto la famiglia milanese della sera prima. Sono tutti operativi, mentre noi camminiamo con passo rilassato. Ammiro la loro praticità e la loro capacità di adattarsi. Onestamente non avrei mai pensato che viaggiassero in questa modalità. I loro ragazzi hanno qualche anno in più dei nostri. Chissà se il futuro renderà possibili avventure più audaci di quelle che ci possiamo permettere adesso.


SOTTO LA SUPERFICIE
Facciamo colazione, torniamo alla capanna e prepariamo i bagagli. Alle 9e30 partiamo e ci fermiamo subito in paese. Lascio Franci e i ragazzi a fare spesa in un piccolo market e faccio benzina. Poi li vado a riprendere. Nel frattempo Franci nota due bimbe molto graziose che camminano a bordo strada. Mi chiede di fermarmi. Scende e si avvia di corsa verso di loro, regalandogli dei dolcetti. Le bimbe sorridono e l’abbracciano d’istinto, con trasporto. Francesca torna in auto commossa, perché nasconde un cuore tenero sotto un velo d’austerità. Anni prima consegnammo dei gadget ad uso scolastico a un gruppo di bambini dello Swaziland, e la sua reazione emotiva fu la stessa.


VERSO IL BRANDBERG
Adesso si parte davvero, in direzione del massiccio del Brandberg. Abbiamo un’oretta di sterrato prima di arrivare a destinazione, il dipinto rupestre denominato White Lady. Lungo il tragitto, gli unici episodi da rilevare riguardano tre dame variopinte che invocano un’offerta in modo teatrale e una famiglia che ci corre incontro in modo scomposto nei pressi di una baracca. Siamo in ritardo e un tantino diffidenti, e non ci fermiamo.


NATHAN
Arriviamo al parcheggio verso le 11, dove ci accoglie un addetto del parco. In biglietteria ci assegnano una guida, che è indispensabile per attraversare l’arida gola che conduce fra le braccia della Dama Bianca. La nostra guida è un ragazzo poco più che ventenne di nome Nathan. Ha un viso pulito ed è piccolo di statura. Il gruppo è composto dalla nostra e da altre due famiglie (sudafricane), con parecchi bambini al seguito. Nathan ci spiega che abbiamo davanti un’oretta scarsa di cammino e che dobbiamo portare con noi una scorta d’acqua. Fa caldo ma la passeggiata è veramente piacevole sia sotto il profilo paesaggistico che della compagnia, che si rivela incline alle chiacchiere e alla condivisione.


Nathan ha il padre a Swakopmund e la madre lontana. Trascorre l’estate in queste zone a lavorare. Ci racconta alcuni avvenimenti, gli incontri coi leoni e con gli elefanti, la pioggia intensa che quattro anni prima rigenerò il fiume che un tempo scorreva proprio dove adesso passeggiamo; la vegetazione che poi esplose nelle settimane a seguire restituendo alla valle l’aspetto rigoglioso del passato. Mi piacciono la tranquillità, la purezza, l’assenza d’ansia che lo caratterizzano.


STORIE INTERCONTINENTALI
Mi colpisce la storia di una delle due famiglie con cui condividiamo il cammino. Sono due medici, lui scozzese e lei sudafricana. Si sono conosciuti in Australia, dove entrambi lavoravano in un ospedale di Adelaide. Si sono sposati lì, hanno avuto dei figli, e a un certo punto hanno deciso di trasferirsi in Sudafrica, dove lei aveva voglia di tornare per stare vicina alla sua famiglia. Hanno tre settimane di vacanze e ne hanno approfittato per venire in macchina da Cape Town. L’altra coppia di loro amici ha una storia meno curiosa da raccontare e anche meno giorni di vacanza a disposizione, tanto che questo è l’ultimo step che vivranno insieme prima di separarsi. Si ritroveranno a casa.
La passeggiata è bella e rilassante. I figli dei nostri amici temporanei sono sparpagliati lungo il percorso. Corrono a destra e a manca, scompaiono dietro massi e piccole alture, non hanno i timori o le barriere dei nostri, che invece restano sempre nelle vicinanze. Mi piace la loro attitudine selvaggia, ed è chiaro che sono educati a questo e che vivono in una certa armonia col mondo naturale. Io e Franci abbiamo sempre cercato di fissare nei nostri figli l’idea che la natura sia la nostra casa, ma siamo comunque condizionati da un retaggio culturale che ci rende fin troppo attenti e assistenziali nei confronti dei figli rispetto a buona parte del mondo. Se Gim e Iri si allontanano meno dei bambini sudafricani dipende da noi, non da loro. Poi uno dei ragazzini stranieri si farà male, ma nessuno inscenerà psicodrammi di sorta.

LIBERTA’
Nell’estate 2012, un anno prima che nascesse Gian Marco, io e Franci ci trovavamo in Sudafrica. Ricordo un’escursione bellissima al confine col Lesotho, sempre in cerca di dipinti rupestri. Salimmo e scendemmo per ore fra valli e montagne, il vento soffiava forte. Persi il foulard turco di Franci, ma fu un giorno bellissimo, pieno di luce e prospettiva. Visitammo terre primordiali, e poi un villaggio locale, incastonato ai confini del nulla. Assaggiammo gli intrugli delle anziane del posto. Dovevamo badare soltanto a noi stessi. La sensazione di libertà di quei giorni è ancora potente in me a distanza di anni. Ma mi sento altrettanto libero adesso, mentre osservo Franci e i nostri figli avventurarsi in una valle africana alla ricerca delle opere d’arte degli antenati.
LA DAMA BIANCA


Dopo un’ora di cammino arriviamo al complesso pittorico della Dama Bianca: per fortuna è riparato dal sole, che inizia a farsi cocente. L’opera è attribuita ai Boscimani San, e risale a qualche migliaio di anni fa. Nathan ci spiega che la Dama in realtà è una sorta di sciamano immortalato in una danza rituale. In effetti la Dama Bianca tiene per mano un individuo, come per avviarlo ad un rito iniziatico. I bambini osservano interessati. Oggi Gim e Iri sono più sereni e rilassati del solito. Gli ultimi giorni hanno concesso loro più possibilità di muoversi e di giocare, e anche la passeggiata che ci ha condotto a questo bel dipinto rupestre ha contribuito al loro benessere.


REPTILIA VERSUS MAMMALIA
Quando Nathan termina il suo racconto è ora di tornare. Continuiamo a familiarizzare con i membri di questo gruppetto inventato. Non nascondo che mi sarebbe piaciuto affrontare un altro pezzo di strada insieme. Ripercorriamo la valle a ritroso, avvistiamo delle lucertole multicolore immobili sotto il sole e dei curiosi roditori all’ombra delle rocce.





LA MANCIA
All’arrivo, pretendo le foto di rito con i ragazzi del gruppo. Acquistiamo una bella collana di frammenti di denti e ossa e poi cerco di lasciare il resto di mancia a Nathan. Non sono sicuro che il nostro pensiero sia arrivato poi nelle tasche giuste, perché ho annusato una certa sottomissione alla corpulenta signora che gestisce la baracca. Non saprò mai come sono andate le cose.


SEMPLICEMENTE SETE
Mentre torniamo al rover, una delle guide ci chiede un passaggio fino a un crocevia distante qualche km, e lo accompagniamo volentieri. Facciamo due chiacchiere, ci racconta qualcosa sui figli, e poi lo lasciamo in prossimità della baracca che avevamo intravisto all’andata. Ci racconta che quella famiglia vive lì, a bordo pista, anche grazie al supporto e agli aiuti di chi transita da quelle parti. La loro prima necessità è l’acqua. Quella che a noi era parsa una forma di aggressività in realtà era sete. Semplicemente sete.

OZOHERE
Abbiamo un’ora e mezzo di strada da percorrere fino a Khorixas, dove ho prenotato un bel lodge. Lungo il cammino faremo una sosta presso il villaggio Himba di Ozohere. Conosco bene i pro e i contro della situazione, ma credo che valga la pena correre il rischio e provare l’esperienza sulla propria pelle per saggiarne l’autenticità. Mentre guido, mi rendo conto di essere totalmente a mio agio qui in Namibia. Terra, pietra, sabbia, buche, dossi, avvallamenti non sono più un problema. Anzi. Nel frattempo, Franci sforna panini con maestria e rapidità, sfamandoci come solo lei in tutto il mondo sa fare. Senza di lei saremmo perduti.


HIMBA
Arriviamo al villaggio verso le 14e30 e la prima stranezza è una sorta di reception in cui ci accoglie una bella ragazza dagli occhi scuri e sfuggenti. Ci fa accomodare in un patio ombreggiato e ci illustra le dinamiche del villaggio che visiteremo a breve. Daremo una certa cifra ai membri del villaggio, la cui sussistenza è affidata ai viaggiatori e a parte degli uomini, che lavorano nei dintorni. Ci mostreranno le loro usanze, ci proporranno i loro manufatti e balleranno per noi.





L’ACQUA DI BUMBA
Siamo solo noi e gli Himba, e tutto è estremamente tranquillo. Ci avviamo a piedi, il villaggio è su una collinetta a 2-300 metri da lì. Da lontano il villaggio sembra vuoto, disabitato, ma -avvicinandoci- gradualmente iniziamo a scorgere le prime ombre in movimento. Questa immagine mi riporta alla mente Bumba, il protagonista di un bellissimo racconto di Roberto Piumini che ho letto per anni ai miei figli: vi si narrano le vicende degli Ihuallà, il popolo di un villaggio in cui donne e bambini affrontavano ogni giorno un lungo viaggio a piedi per rifornirsi d’acqua e combattere la perenne siccità.

“Non proprio all’equatore, un po’ più su, nell’Africa che cuoce al solleone, c’era un villaggio, con una tribù di trentasette o trentasei persone: il numero preciso non si sa, ma il nome sì, ed era Ihuallà. In quelle terre, come tutti sanno, l’acqua è davvero scarsa, quasi assente, e gli Ihuallà, per tutto quanto l’anno, mandavano le donne alla sorgente: ciascuna nella testa aveva un vaso, e lo portava indietro, pieno raso. C’era un bambino, fra gli Ihuallà, che si chiamava Bumba, piccolino, più piccolo degli altri alla sua età, allegro e svelto, col cervello fino, che insieme alla madre e all’altra gente, andava avanti e indietro alla sorgente”.…





OTJIZE
Qui a Ozohere ci sono per lo più donne e bambini, quasi tutti piccoli. A margine, vediamo anche tre giovani uomini. Ci presentiamo utilizzando le tre parole Himba che ci ha insegnato la guida: moro, perivi, nawa, vale a dire ciao, come stai, bene. Gli Himba ci mostrano i dettagli delle capigliature, i loro abiti e i fregi da cui sono decorati. Ci fanno fare un giro e poi ci invitano all’interno di una capanna dove ci mostrano come producono la pasta composta di burro, ocra rossa ed erbe che spalmano sulla pelle per vezzo e protezione.
ONDJONGO






Torniamo fuori, dove quasi tutti i componenti del villaggio si stanno disponendo in semicerchio. Ognuno di loro balla a turno, mentre gli altri battono le mani e lanciano grida e suoni di vario tipo. Ogni singolo passo rappresenta il tentativo di connettersi al suolo polveroso della Namibia. E’ uno spettacolo, a cui prendono parte anche i nostri bambini. Ridiamo, ci osserviamo reciprocamente senza comprenderci. Proviamo a guardarci dentro. Mi colpiscono in particolar modo gli occhi limpidi e puliti dei bambini.

PROVE D’EMPATIA
Come mi è già capitato in casi simili, ogni tanto ho la sensazione che gli Himba ridano di noi. Lo penso perché mi metto nei loro panni: a me verrebbe da ridere se qualcuno venisse a casa mia per vedermi ballare. Ma accetterei di buon grado, soprattutto se mi pagassero. Al di là delle mie sensazioni, è una bella esperienza di scambio.


IL TEMPO NON ESISTE
Osservo l’emozione e la sorpresa negli occhi di Gim e Iri, la loro interazione istintiva con gli altri bambini. E’ un piccolo documentario, che narra l’incontro di due realtà molto diverse fra loro: a tratti si ha l’effetto allucinatorio di osservare sè stessi nel passato o in una realtà parallela e concomitante in cui tutto sembra ribaltarsi. Cosa è davvero reale? Il tempo esiste davvero? E qual è il nostro?


GRAN CACIARA
Esco dalle grotte dei sogni dimenticati di Werner Herzog e mi ritrovo in una caciara improvvisa. Le donne del villaggio hanno tirato fuori i loro banchetti con gli oggetti in vendita e si è scatenata una certa isteria. Probabilmente questi incassi non vengono condivisi e fanno più gola degli altri. Franci e Iri acquistano un paio di monili in una selva di braccia, e poi lentamente ogni cosa torna al suo posto, e guadagniamo l’uscita.


MORO MORO
Due bambini ci seguono correndo fino al parcheggio, per poi salutarci col solito travolgente sorriso. Moro moro! Nonostante alcune piccole contraddizioni e il dubbio persistente se quel villaggio sia il luogo in cui queste persone effettivamente vivano, siamo felici di aver fatto questa esperienza. E se possiamo aver contribuito un minimo al benessere di questa gente, la felicità raddoppia.
LODGE DAMARALAND
Sono le 15e30, andiamo a Khorixas, dove ci attende forse la dimora più bella fra quelle in cui abbiamo alloggiato. E’ il Lodge Damaraland, l’ennesima struttura minimale immersa in modo armonico nell’architettura naturale di questa landa magnifica, a cavallo fra savana e deserto. Persino i colori dell’edificio richiamano l’arredo cromatico della terra dei Damara.



IL BALZO
I lodge sono molto accoglienti e hanno un affaccio privato sul mondo fuori. Una piccola piscina rappresenta il centro nevralgico della zona comune. E’ il classico luogo che induce al totale relax. I bambini si tuffano in acqua e curiosano in giro, Franci si concede un bicchiere di vino, io un margarita da urlo, che mi stordisce al punto da farmi smettere di pensare a quanto sia assurdo balzare, nell’arco di un’ora, da un villaggio polveroso a un alloggio sì confortevole.




VICKY
Vicky, una delle ragazze che lavorano al lodge, si prende cura di noi. Intuiamo subito che è una ragazza speciale. Entriamo presto in confidenza con lei. Ci facciamo qualche foto insieme e ci scambiamo i numeri di telefono. Anche adesso, a distanza di mesi, capita di scriverci o di vedere il suo cuore stampato sulle foto che pubblico sui famigerati stati di whatsapp. Galleggiamo leggeri fra dentro e fuori, leggiamo qualcosa, osserviamo il paesaggio e i colori che gradualmente cambiano forma e tonalità.

A FIOR DI PELLE
Arriva la sera, e con lei la solita brezza. Indossiamo una giacca e andiamo a cena. I tavoli sono illuminati appena. Il buffet è ricco e variegato, ci concediamo tanti piccoli assaggi. D’un tratto, lo staff del Damaraland si riunisce e inizia a cantare e danzare nella notte, mettendo in scena la consueta magia. Le loro voci sono caldi massaggi a fior di pelle.

L’oscurità ci culla e protegge, così prendo coraggio e ballo un po’ con la gente del posto. Perdiamo la cognizione dello spazio e del tempo. Non sappiamo più dove siamo esattamente, o che giorno sia. Non ha alcuna importanza. Non conservo altri ricordi di quella sera, che è una coperta calda e avvolgente sotto un oceano di stelle.