John Smith, più noto semplicemente come Cheyenne, è una rock star in pensione, che raggiunse l’apice del successo negli anni ottanta come front man del gruppo “Cheyenne & The Fellows”.

Vive di rendita con la moglie in una ricca magione irlandese, curando le sue azioni in borsa e la vita sentimentale di una fanciulla. Il suo aspetto è rimasto quello degli anni 80, indossa abiti e occhiali neri, ha il volto truccato e una folta chioma scomposta; attraversa un tempo lento e compassato come i suoi stessi micromovimenti, che si producono al fianco di un carrello della spesa che lo accompagna come un’ombra meccanica.
Cheyenne riceve improvvisamente la notizia che il padre è malato di una malattia chiamata vecchiaia, e parte per gli Stati Uniti. Sceglie il percorso via mare, a causa della fobia degli aerei, e nel tempo prolungato del tragitto marittimo il padre muore. A New York l’uomo scopre che il padre effettuava delle ricerche su un tale di nome Aloise Lange, un ufficiale nazista che lo aveva umiliato durante la prigionia ad Auschwitz.
Ho dei ricordi abbastanza confusi e sconnessi, ma rammento le grandi e desolate autostrade tedesche in cui le Porsche di Stoccarda ci sorpassavano a velocità supersonica; lungo quelle highways fatiscenti mi divertii a contare le macchine che riuscivo a contare, segnandole su un block notes apposito: l’obiettivo era di annotare marca e colore; lo facevo sempre nei vari viaggi compiuti in Italia con mio padre, ma all’estero fu molto più difficile, a causa dei modelli diversi che mi capitò di vedere e che complicarono non poco le mie indagini statistiche. Comprendo bene che questa bizzarra attività possa ricondurre al Raymond Babbitt di “Rain man”, ma così era, e così mi piaceva trascorrere il tempo dei tragitti automobilistici più consistenti.






