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Viaggio ad Auschwitz – Parte Seconda

24 venerdì Feb 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria

La guida di cui non ricordo il nome, di cui forse non ho mai saputo il nome, ci fornisce una serie di informazioni generiche in merito al nostro “piano di volo”. Il campo di concentramento era così suddiviso: il campo di prigionia di Auschwitz era il reparto principale, e fungeva anche da sede amministrativa dell’intero complesso; Birkenau era il campo di sterminio in senso proprio; chiudevano il folle cerchio il campo di lavoro di Monowitz e altri 45 sottocampi costruiti durante l’occupazione tedesca in Polonia.

Indi saliamo su un bus navetta. I soliti viaggiatori italiani, che all’estero amano armarsi di banalità, sghignazzano dicendo: “ma dove ci staranno deportando?Ah ah!”. Non so perché, ma in tutta onestà, forse per una forma di idiozia patriottica e solidale, accenno un sorriso. E’ un sorriso muto, che non si sente e si vede appena, ma c’è, e non posso negarlo adesso, limitandomi a catechizzare un comportamento ingenuo che con quel tenue gesto del viso ho –in un certo senso- appoggiato e condiviso. Comunque, mentre vi parlo di tal fatterello in questione siamo arrivati.

Scendiamo. Birkenau, campo di sterminio. Una scala stretta e consunta ci conduce alla torretta d’ingresso: dall’alto della postazione di vedetta prendiamo visione della vastità della struttura: non si può evitare di pensare che quello è lo stesso punto di vista da cui alcuni vili e cinici nazisti osservarono compiersi “la soluzione finale del problema ebraico”; non si può fare a meno di pensare di essere nello stesso luogo in cui, decine di  anni prima, uomini come me, uomini come tutti noi, controllarono in tempo reale, coi propri occhi e la propria coscienza, che lo sterminio di milioni di persone inermi avvenisse senza intoppi di sorta.

 

Furibonde recinzioni in filo spinato corrono e s’intersecano sotto di noi per centinaia di metri e in ogni direzione. In mezzo alla neve compatta s’intravede la corsa di alcuni binari più o meno paralleli: quelle rotaie terminano nello stesso punto in cui cessarono per sempre le speranze e i sogni di una moltitudine di persone. Lo spettrale panorama propone poi una serie di edifici rossastri in successione, più o meno conservati, più o meno fatiscenti, a costellare come macchie scure la distesa bianca di Birkenau.

 

 

Entriamo nel campo, e la guida assume un contegno rispettoso e un tono sommesso, nonostante la rilevante distanza fra noi e le numerose comitive che si muovono in quello spazio sconfinato. Una serie di pannelli e fotografie interrompe di tanto in tanto un tragitto silenzioso. Più ci si inoltra nel campo, e più si avverte il peso imponderabile dell’orrore: soltanto i respiri affannati delle persone e la voce appena accennata della guida scandiscono un cammino doloroso.

 

 

La gentile signorina ci mostra un vagone originale dell’epoca, ed è subito chiaro il motivo dei decessi che avvenivano durante la deportazione: quei vagoni  non erano che gigantesche stie prive di spiragli, adibite al trasporto di carne da macello. Per assurdo, ho immaginato che fosse quasi un sollievo morire lungo il tragitto, così da scampare all’orrore che attendeva i deportati.

 

 

Ma ecco, mi distraggo un attimo e non mi accorgo che siamo sul punto esatto in cui i prigionieri toccarono uno dietro l’altro il suolo di Birkenau. Proprio qui, la gente, gente vera, scendeva, subendo dopo pochi passi le prime drammatiche cernite. Anziani e malati erano inconsapevolmente in possesso di biglietti di sola andata per la gassificazione. I nazisti usavano separare immediatamente le madri dai figli, per terrorizzare i nuovi arrivati. “A quale madre piacerebbe separarsi dai propri figli, soprattutto in un posto così? Io penzo…nessuna”- sottolinea la nostra guida, e la parola “nessuna” , che chiude la sua frase, risuona come se avesse chiuso a tripla mandata una porta blindata, quasi fosse il portone di una certezza così massiccia da attraversare il tempo dagli anni 40 alla sua coscienza, e dalla sua coscienza alla mia, come sedimenti trasportati dal corso fluttuante della memoria.

 

Ma torniamo a noi. Le camere a gas furono la prima e l’ultima tappa polacca per molti deportati. Vecchi e malati –dicevamo- ma anche donne e bambini, a seconda dell’umore delle isteriche SS naziste. E sembra persino che quanti sopravvivevano a questo “passaggio” preliminare finissero poi col rimpiangere di non aver subito la stessa sorte istantanea, così da evitare le disumane atrocità che rivivranno nel prossimo passo di questa triste cronaca.

The artist

23 giovedì Feb 2012

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Jean Dujardin e Bèrènice Bejo in una scena del film di Michel Hazanavicius

The artist

23 giovedì Feb 2012

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Titoli di testa

“The artist” narra la storia di George Valentin, divo assoluto del cinema muto degli anni venti americani.  Nel  1927 Valentin è al’apice del successo e della carriera, e i suoi film impazzano nelle sale cinematografiche.

 

L’attore, in mezzo alla folla che lo acclama, conosce casualmente Peppy Miller, una ragazza che poi, altrettanto casualmente, ritroverà come ballerina sul set di uno dei suoi film. Tra i due avviene una sorta di folgorazione: è un innamoramento di sguardi e piccoli gesti, che danza romanticamente sull’incertezza di un bacio ma non riesce a concretizzarsi.

 

A questo punto la scena si trasferisce nel 1929, l’anno della Grande Depressione e dell’introduzione del sonoro. E i destini di George Valentin e Peppy Miller s’incrociano ancora una volta: Valentin inizia una lenta parabola verso il basso, poiché i cineasti preferiscono affidarsi a volti nuovi con l’introduzione del sonoro; la Miller invece inizia il percorso inverso, che la condurrà a consacrarsi come diva cinematografica di punta a Hollywood.

Il viaggio nel magico mondo del muto prosegue in FilmOsteria

Il piacere del vino secondo Hesse

22 mercoledì Feb 2012

Posted by osteriacinematografo in Hesse Herman

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Herman Hesse

“I giovani soprattutto, con il loro ideale di “artista che pensa” ritengono che il tempo sottratto all’arte vada dedicato preferibilmente alla riflessione, e così si perdono facilmente in sofismi, osservazioni scettiche e in astrusità varie senza scopo e senza utilità.
Altri, che ancora non si sono votati alla guerra santa contro l’alcool – guerra che comincia a registrare vittorie anche fra gli artisti-, infilano la strada che porta ai locali dove si può bere un buon bicchiere”.

Il piacere dell’ozio si trascina stancamente in Singolar Tenzone

Millennium – Uomini che odiano le donne

22 mercoledì Feb 2012

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Daniel Craig e Rooney Mara nel film di David Fincher intitolato -in realtà- “The Girl with the Dragon Tattoo”

Millennium – Uomini che odiano le donne

22 mercoledì Feb 2012

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Titoli di testa

Quando un grande sceneggiatore come Steven Zaillian (Schindler’s List) scrive un film basandosi su un ottimo romanzo, e quando dietro la macchina da presa si trova un tale di nome David Fincher (Seven, Fight club, Zodiac), che maneggia alla perfezione un certo tipo di storie, ci sono ottimi presupposti perché ne venga fuori un buon film.

La splendida invenzione dello scrittore Stieg Larsson è piuttosto nota: Mikael Blomqvist -giornalista che si occupa di indagini economiche- perde un processo in cui è accusato di diffamazione dal magnate Wennerstrom.  La rovina finanziaria e le dimissioni lo spingono ad accettare un incarico particolare: dovrà infatti indagare sulla misteriosa e precoce scomparsa –avvenuta negli anni 60- di Harriet Vanger, nipote prediletta del vecchio e potente industriale Henrik Vanger, convinto che la giovane sia stata uccisa da un membro della sua famiglia.  Blomqvist si trasferisce così nella campagna sperduta e imbiancata del Gavleborg, per studiare da vicino la complessa storia di una famiglia dal passato glorioso ma oscuro, e da un presente caratterizzato da legami sfaldati e compromessi.

 

In parallelo Fincher segue Lisbeth Salander, un’eccellente investigatrice specializzata in spionaggio informatico. La Salander stila un profilo dettagliato e completo di Blomqvist per conto di Henrik Vanger, che vuol conoscerne ogni aspetto per valutarne l’integrità. Lisbeth è una punk ventiquattrenne solitaria e selvaggia, col gusto dei piercing e dei tatuaggi; conduce una vita appartata e silenziosa, e vive sotto tutela per aver tentato di uccidere il padre in tenera età.

Il viaggio oscuro di Fincher prosegue in FilmOsteria

Vento di primavera

21 martedì Feb 2012

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Jean Reno e Mèlanie Laurent in una scena del film di Rose Bosch, il cui titolo in realtà è “La rafle”, ovvero “Il rastrellamento”

Vento di primavera

21 martedì Feb 2012

Posted by osteriacinematografo in film

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Titoli di testa

Nel film si narra dei fatti realmente accaduti a Parigi, nel 1942, durante la seconda guerra mondiale. Nella Francia filonazista di Laval e Petain si organizza segretamente il rastrellamento di 24.000 ebrei parigini.

 

Rose Bosch ci mostra il graduale e progressivo affievolirsi delle libertà giudaiche a Parigi: appaiono le stelle gialle sugli abiti di tutti gli israeliti, come forma embrionale di razzismo e ghettizzazione; emergono i primi sintomi di intransigenza dei parigini nei confronti della “razza inferiore”, cui non sfuggono neppure i bambini; gli ebrei vengono banditi da impieghi e cariche pubbliche, non possono frequentare i luoghi pubblici, e vengono sottoposti a un rigido coprifuoco così da limitarne la visibilità e i movimenti.

 

In questo contesto la lente della Bosch si sofferma in particolare sulla famiglia dell’undicenne Joseph Weissmann e sui numerosi nuclei ebrei presenti a Montmatre, nel cuore di Parigi. Le loro vite semplici, la paura del domani, le umiliazioni subite e le domande prive di risposte consentono di dare un volto comune alle vittime dell’olocausto.

L’analisi di “Vento di primavera” prosegue in Filmosteria

In time

21 martedì Feb 2012

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Cillian Murphy interpreta uno dei “Timekeeper” nel deludente film di Andrew Niccol

In time

21 martedì Feb 2012

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L'Oste deluso

L’Oste deluso

“In time” ipotizza un futuro in cui, per via del sovrappopolamento, il tempo viene monetizzato: a ciascuno è concessa una vita di venticinque anni più un anno extra, dopodiché ognuno deve cavarsela come può, rubando, scambiando, contrabbandando tempo.

Il gene dell’invecchiamento è stato sconfitto, e si rimane giovani per sempre; naturalmente il tempo è la merce più preziosa: ogni cosa si paga in moneta/tempo tramite un dispositivo apposto sul braccio di ciascuno, che indica anche un ossessivo e fluorescente countdown esistenziale.

Il mondo è diviso in due blocchi ben delineati:  non c’è una classe media, ci sono i poveri, che allo scadere dei propri giorni corrono e si affannano con ogni mezzo per accattare pochi minuti di vita, e i ricchi, che vivono in un mondo plastificato e si muovono con la lentezza tipica di chi ha tutto il tempo che desidera. Il gioco infatti consiste in ciò: i poveri hanno un tempo limitato proprio perché i ricchi possano vivere praticamente in eterno. Will, il protagonista, vuole spezzare questo equilibrio, annullare l’ingiustizia sociale che concede vite diverse a seconda del budget a disposizione.

L’idea è accattivante, estrema e logorante a livello concettuale, dato che assegna al tempo il valore che per la nostra società ha il denaro:  la quantità di tempo richiesto per ogni servizio oscilla come il costo della vita, e così può accadere di non poter salire su un bus vitale per la sopravivenza; gli apparecchi con cui si scala il tempo dagli uomini sembrano i dispositivo per le carte di credito; sul tempo si specula, e c’è una vera e propria borsa del tempo, coi suoi indici e i suoi titoli; ai tavoli da gioco si scommette il proprio tempo fino ad esaurimento; nei posti di lavoro si viene pagati (miseramente) in tempo; guardiani appositi controllano che il tempo non subisca flussi irregolari o repentini e voluminosi scambi di persona, proteggendo così i veri usurpatori  dai ladruncoli dei bassifondi.

Andrew Niccol sviluppa un’idea magnifica (si parla peraltro di una denuncia per plagio ad opera dello scrittore Harlan Ellison, che avrebbe persino ritardato l’uscita del film) nel modo sbagliato, “sprecando tempo” in dialoghi poveri di densità e in una serie di inseguimenti fini a se stessi; i protagonisti maschili se la cavano, ma il film non ha la giusta struttura per reggersi sulle proprie gambe: inizia ben presto a scricchiolare, fino a collassare inesorabilmente su se stesso e sulle aspettative di chi gli ha concesso tempo e fiducia.

Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se una storia simile fosse capitata fra le mani di un regista più valido, di un Cristopher Nolan ad esempio:  ne sarebbe scaturito un prodotto intenso e affascinante, oscuro e claustrofobico, una sorta di scala a chiocciola verso il basso, anziché un film inutile che richiede tempo senza accordare alcunché allo spettatore.

Pacita Abad

20 lunedì Feb 2012

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Are you in bad mood (1990)

Angèle e Tony

20 lunedì Feb 2012

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Antoine Couleau, Clotilde Hesme e Grégory Gadebois in una scena del film di Alix Delaporte
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