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19th nervous breakdown – The Rolling Stones
15 mercoledì Feb 2012
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15 mercoledì Feb 2012
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15 mercoledì Feb 2012
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A Francesco, l’amico di sempre
O Divina Clio,
Musa della storia.
Camaleontica Clio multicolore.
Indizio di tresche materne
e protettrice della Poesia Epica.
Interminabili notti dissestate iniziavano
a cavallo di tenebre cave e inoltrate.
Notti dentro le notti.
E terze fasi a percorrere chilometri di pensieri e astrazioni alienanti
fra i saliscendi di un’improvvisazione acuminata.
E parole profuse senza intervalli
nell’ennesima potenza comunicativa.
E si e no sul precipizio intermittente dell’ ”è finita!”.
E il barcamenante zigzagare di un’auto in fiamme.
E “dove andiamo noi non esistono strade”.
E la terza fase trabocca riversandosi nella quarta.
E cervelli indipendenti a far da passeggeri improvvisati.
E si e no per stabilire chi gioca e chi il gioco subisce.
E quel lampione perennemente rotto e singhiozzante
a illuminare a stento strati su strati di parole in regalo.
E l’illuminazione ultima,
prima d’essere riversi ai margini di una strada immaginaria.
Il fatidico e adombrante Jolly Bar.
Sotterraneo estremo di quinta fase al limitare d’alba.
Luogo di rivoluzioni ipotizzate e di fantasmi che ribaltano l’abisso.
Bunker infernale anti cinico anti ritorno anti tuttobeneacasa.
Dimensione che la luce offusca.
Fonte di amnesie e perdita di sé.
Eterno Finale e Meta Inconsapevole
di due amici che mai cessano d’essere tali.
15 mercoledì Feb 2012
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15 mercoledì Feb 2012
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Lars von Trier non si toglie nemmeno il gusto della commedia. E lo fa a modo suo, naturalmente, realizzando un’opera grottesca, spietata, che analizza senza filtro e con amara ironia i rapporti interpersonali: ne “Il grande capo”, l’indagine è ambientata nel mondo del lavoro, dove gli interessi economici schiacciano inesorabilmente ogni altro tipo di valutazione. Una ditta di informatica danese sta per essere ceduta a un magnate islandese. Ravn è il proprietario occulto dell’azienda, ma non ha mai rivelato la sua identità, fingendosi mero portavoce del capo; gli islandesi esigono però di trattare con il proprietario in persona per la vendita in oggetto, e Ravn è costretto a ingaggiare un attore per sostenere la parte di Grande Capo.
14 martedì Feb 2012
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A Luca, Marco, Paolo, Roberto e me.
Il rosso sfumato dal tempo diviene flebile arancio.
Rivestimenti in tela beige e un motore d’acciaio.
Il Visa si piega e i Cinque con lei,
scimmiottando fra le anse d’asfalto.
I Cinque trasudano vita ed ebbrezza,
e stendono al sole sogni freschi d’aurora.
Una birra ghiacciata disegna un tragitto incerto e malmesso.
Suoni d’antica partitura e grida di giubilo e idiozia
si espandono fuori dall’auditorium a quattro ruote.
Eroiche e definitive sterzate al limitare di un tempo distratto.
Il tempo dolce e rarefatto del Visa.
Fra le sue cosce strette e sicure
trovarono posto

un prigioniero politico francese
un terrorista irlandese beone e cazzuto
un borgataro romano biondo e imparruccato
un folle spedizioniere dai riccioli neri
un Cristo dai tratti indocinesi.
Varcarono insieme i confini dello stato pontificio,
inseguendo fantasie danzanti, sgangherate compagini e tamburi battenti.
E libri e indumenti e storie gettati in strada
all’incrocio tra spazi intermittenti e indicazioni da decrittare.
E notti di viola e d’argento doppiate in pilota automatico.
E il rumore del Visa in fondo alla via,
una carovana spagnola e furoreggiante da prendere al volo.
E quei momenti che ancora vivono nelle parole e nei ricordi intensi dei Cinque.
Mezz’uomini che forse non sono cresciuti realmente
e vagano tutt’oggi per mete da definire,
in cerca di una locanda trasandata e di un appoggio sicuro
in cui parcheggiare se stessi e una compagna purosangue di nome Visa.
14 martedì Feb 2012
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14 martedì Feb 2012
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Il film è ambientato a Dublino nel diciannovesimo secolo. Albert Nobbs lavora come cameriere presso il Morrison’s Hotel di Dublino. Egli svolge le proprie mansioni in modo impeccabile e ineccepibile, e la forma meccanica, incessante, disumanizzata dei suoi movimenti accompagna ogni suo minimo gesto, ogni recondita palpitazione, anche nell’immobile e statuaria supervisione della sala da pranzo in cui il corpo rigido e le espressioni ingessate assumono rilievi ossessivi e inquietanti.
Albert Nobbs in realtà è una donna soffocata da un atroce corpetto e da lineamenti del viso rudi e profondamente segnati; quella donna che vive protetta dietro una maschera da uomo osserva con attenzione e impassibile freddezza i dissoluti benestanti che si avvicendano nei locali dell’hotel; sembra un elemento estraneo persino a se stessa, tale è il distacco che crea prima fra la donna che è e l’uomo che interpreta, e poi fra l’irreprensibile cameriere e l’alta società che gli sfila innanzi; ad Albert interessa soltanto risparmiare avidamente i propri guadagni, nella speranza di accumulare la somma necessaria per aprire una piccola rivendita di tabacchi e dolciumi.
L’elemento sismico del film ha il volto di Hubert Page, l’imbianchino che deve occuparsi di ridipingere alcuni ambienti dell’hotel della Duchessa Baker; Hubert è costretto a dormire nello stesso letto di Nobbs per una notte, e ne carpisce il segreto: ciò che sembra inizialmente un dramma per Albert muta ben presto in una sorta di riscatto sociale, di rito liberatorio, nella nuova prospettiva di una vita che non aveva ipotizzato e di interrogativi che non si era mai posta, e persino nella possibilità di dedicare una giornata ad esplodere quella femminilità sopita e repressa nel dolore.
Il film –che pare ambientato in un romanzo di Dickens- narra la storia di una ragazza costretta a diventare uomo per non subire la violenza di un’epoca che considerava le donne sole una preda di cui poter abusare senza restrizioni fisiche o pregiudizi morali di sorta.
Tratto dal racconto omonimo di George Moore, il film di Rodrigo Garcia si avvale di un gruppo di attori eccezionali: Glenn Close fornisce una performance d’alto livello, perfezionando un personaggio già interpretato a teatro e sfruttando ogni piega espressiva del viso, ogni movenza corporea per immedesimarsi nell’intima e ambigua essenza di Nobbs; Janet McTeer non le è da meno, grazie ad uno sguardo liquido e penetrante che riempie ogni singolo fotogramma in cui muove la sua imponente figura. Il film si sviluppa e cresce d’intensità seguendo uno stile narrativo misurato e preciso, e la vita di Nobbs e dell’hotel col passare dei minuti si arricchiscono di dettagli accurati; ma la storia si smarrisce nella seconda parte, come se al regista sfuggisse di mano progressivamente: le varie relazioni sentimentali in atto e l’amore confuso e mal direzionato di Nobbs vengono enfatizzati in modo eccessivo, ammutinando così il fascino di un film che seduce e infine tradisce lo spettatore. Peccato.
13 lunedì Feb 2012
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13 lunedì Feb 2012
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13 lunedì Feb 2012
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A Gabriele, caro e fraterno amico
Accade sovente di scartare un film a priori, per via del genere sotto la cui egida viene collocato. E’ –questa- una scelta discutibile, perché il cinema dovrebbe essere una forma di comunicazione che utilizza un linguaggio universale, a prescindere dalla catalogazione delle sue singole, mutevoli estrinsecazioni. La qualità è un dato che percorre trasversalmente i generi, ed è pacifico che ci si possa imbattere in un buon thriller o in una pessima commedia. Ogni film è potenzialmente in grado di trasportare un concetto, di rendersi foriero di messaggi diretti o simbolici che trascendono la famiglia d’origine dell’opera.
Il genere non è una parola come può esserlo Alphonse o Barnaby, non è un movimento o una corrente artistica, non è una tendenza culturale o ideologica, ma si riduce a semplice aggettivo ornamentale, a fregio che parla dello stile ma non denota i contenuti intrinseci di un’opera.
13 lunedì Feb 2012
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13 lunedì Feb 2012
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Il film inizia con una dolce immersione nel caos, nel calore e nel colore indiani. Segue l’abbraccio toccante e perfettamente aderente fra un uomo europeo e un bimbo del luogo. L’uomo è Jacob, un danese costretto, suo malgrado, a rientrare nella terra natia per reperire fondi utili alla sopravvivenza dell’orfanotrofio in cui quel bimbo e tanti altri hanno trovato una casa.
E così lo stacco fra la miseria d’India e il verdeggiante sfarzo danese è prepotente. Susanne Bier trasferisce la scena e l’azione attraverso l’ottica spaesata del protagonista, che immediatamente viene calato in un alloggio modernissimo, zeppo di accessori inutili, simboli istantanei del contrasto con la semplicità della sua vita quotidiana in Asia.