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PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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4- Las Dunas de Sao Jacinto – L’aereo -Porto – Caldelas – Peneda Geres National Park- La febbre

E’ mercoledì mattina e dopo una colazione trascurabile prendiamo il traghetto che in pochi minuti ci condurrà nei pressi della Reserva Natural das Dunas de Sao Jacinto, dove ci concediamo una passeggiata di qualche km e un pigro spuntino in spiaggia. Il meteo è strano, per lo più nuvoloso, il sole fa capolino di rado, fa fresco, anzi no.

Nulla di speciale, l’atmosfera induce alla sonnolenza, ma ciò che rompe la calma piatta delle 10 o giù di lì è un rumore in aumento costante dal cielo e un grosso aereo grigio che squarcia il cielo e vira proprio sopra le nostre teste, veramente troppo vicino per chi non sa che a pochi passi da lì ci sono un aerodromo e la pista d’atterraggio di questi giganti dell’aria. Sono preso dal panico, perchè l’aereo sembra fuori controllo, penso stia per finirci dritto in testa, cerco Irene che era vicina a me ma non la trovo, non vedo nulla in realtà. Ecco cosa dev’essere il panico, che probabilmente non avevo mai sperimentato prima in tale misura, se non forse quando anni fa io e Francesca ci trovammo in macchina – all’interno dell’Addo Elephant park- davanti a un grosso esemplare maschio di elefante africano, peraltro incattivito dal picco di testosterone.

All’epoca, seguendo le istruzioni che i rangers ci avevano fornito all’ingresso, dopo aver notato segnali assai poco rassicuranti che lasciavano dedurre che l’elefante fosse in pieno must, procedemmo in retromarcia in modo quasi impercettibile finchè il gigante trovò uno spiraglio per defilarsi fra gli arbusti e lasciarci passare. Se mi concentro, sento ancora il battito del mio cuore e il respiro bloccato dall’emozione e dalla paura di quegli istanti.

Ma torniamo al presente, fra le dune di Sao Jacinto. Al terzo passaggio aereo mi abituo ma non troppo, dato che non ho nemmeno la prontezza di filmare quella scena tanto cupa quanto profondamente Dunkirk. O meglio firmo un decollo di cui si percepisce soltanto il boato. Ho poi pensato a quanto dev’essere spaventoso subire un vero attacco aereo, agli uomini che bombardano altri uomini, a quanto siamo bravi a generare terrore, a quanto siamo infinitamente stupidi in certi casi. Potremmo dedicarci ad ammirare e riprodurre la bellezza del cosmo, ma il lato oscuro prevale, il più delle volte.

Riprendiamo la macchina e dopo un’ora siamo a Porto dove trascorriamo il pomeriggio: dopo qualche minuto di terrore in cui perdiamo la bussola e il controllo e ci ritroviamo incastrati in vicoli tanto angusti da sembrare inestricabili, siamo finalmente in giro per questa splendida città che si sviluppa sulle rive del fiume Douro.

Porto è bellissima, per quanto eccessivamente turistica, visto il proliferare incessante di locali di ogni tipo, che si susseguono l’un l’altro senza respiro. Per il resto, rimaniamo incantati dalla città, dai suoi colori sgargianti e dalla luce che la illumina in un modo unico. Posso ancora vedere e toccare quella luce tanto rara. Il clima è fresco e godibile e la gente distesa e apparentemente serena.

Dai colli dove riposa quieto il Jardim de Morro si può godere una vista magnifica sulla città, mentre il sole affonda dolcemente sul Douro al tramonto. Gian Marco trova un completo sportivo e una palla che gli piacciono. E’ la svolta. Non se ne separerà più fino alla fine del viaggio.

All’imbrunire ci dirigiamo verso Caldelas, un paesino sopra Braga, situato in posizione strategica per visitare i parchi a nord. In paese sembra stia per esordire una festa che però non avrà mai luogo. Sembrano in corso eterni preparativi e messe a punto, forse i paesani si preparano da anni e nel frattempo la popolazione è invecchiata tanto da aver perso la necessaria verve. Nulla accade, almeno per quanto ci è dato vedere. Ceniamo ottimamente presso la Churrasqueira, dove una squadra di camerieri gentilissimi si occupa di noi con cura. Anch’essi sembrano in attesa di qualcosa o sul punto di fare qualcosa, ma qui tutto rimane perfettamente identico a se stesso oggi, domani, e sempre. Forse Caldelas è la fortezza di Buzzati, e a valle dilaga il deserto dei Tartari.

Non mi rendo subito conto della fatica accumulata in giornata, Porto mi è probabilmente fatale e la mattina del giovedì mi risveglio malconcio, ho sintomi influenzali importanti ma non ci faccio caso perché non sono mai stato male in viaggio, eccetto forse quaranta anni fa dopo aver visitato la sommità della Torre Eiffel con la mia famiglia.

Me ne frego, ordino una spremuta d’ibuprofene e andiamo verso il Parco di Peneda Geres, dove scegliamo un bel trekking nel bosco, costeggiamo un lago e saliamo e scendiamo per sentieri non perfettamente segnalati. I parchi non sono ancora organizzati a dovere, in alcuni casi mancano info point che sappiano fornire indicazioni in inglese. Manca un po’ di precisione nelle indicazioni, che risultano spesso sommarie. Manca in particolare uniformità nella comunicazione per quanto riguarda la possibilità di avventurarsi coi bambini in determinati siti, tanto che ti viene voglia di scommettere, ma entro i limiti della ragionevolezza.

Tuttavia il potenziale di Peneda Geres ci è parso notevole, grazie alla vegetazione particolare e coloratissima, che mi ha ricordato in senso pittorico la parte canadese del Glacier National Park, in Columbia britannica per la precisione, dove il giallo e il viola illuminavano un paesaggio di dimensioni ben più ampie di questo. Continuiamo a camminare fra boschi e arbusti, sbagliamo sentiero un paio di volte, finchè un giovane nord europeo ci indica la via del ritorno. Sudo freddo ma ho la sensazione di aver smaltito le scorie influenzali. Dopo qualche ora siamo in un chiosco nel verde, dove decidiamo di portare i bambini in una piscina nei paraggi per farli riposare un po’.

Mi addormento avvolto dal mio fedele smanicato North face, probabile attuale simbolo pro tempore della mia individualità tanto sensibile al clima, ma qualcosa non va. Ho la febbre alta (alta per me), scappo in albergo, mi perdo in un delirio d’ombre che mi assalgono, mi difendo goffamente dalle staffilate influenzali con uno scudo di paracetamolo, affronto demoni immaginari e cerco il santo Graal come lo stralunato Parry (Robin Williams) de La leggenda del re pescatore, poi provo a cenare coi miei ma è solo un’allucinazione, anche quella.

La notte è una doccia di sudore e incubi, di lenzuola subacquee che mi avvolgono come viscida poseidonia oceanica, di visioni intermittenti come il sonno, che si interrompe puntualmente ogni ora, nemmeno fossi intrappolato nel loop esistenziale di Strade perdute. Attendo l’alba con ansia.

Robert De Niro – 80 anni spesi bene

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Cronache e Storie d'Osteria, Fermo Immagine, Pensieri

C’è poco da dire su questo mostro sacro del cinema e dell’arte, e le parole lasceranno presto spazio alle immagini, perché nulla può raccontare la storia di De Niro meglio delle immagini. Chiunque ami il cinema non può non aver sognato grazie a lui, i personaggi che ha interpretato sono tanti e tali da ritrovarlo ovunque, nei vostri film preferiti, nel vostro immaginario, in quello che potremmo definire mito. Robert De Niro è senza dubbio un mito del nostro tempo, un’icona capace di adattarsi negli anni ai ruoli più disparati, e di farlo con tali classe, maestria e risolutezza da lasciare stupefatti. I più importanti registi del pianeta lo hanno scelto e lo scelgono da 60 anni a questa parte, e non potrebbe essere diversamente. Cercherò di onorare questo spazio con la sua presenza, cercherò di riprodurre qui il suo sguardo denso, scuro e penetrante, senza avere la pretesa di aggiungere alcunchè alla grandezza di quest’uomo prodigioso. Tanti auguri Bob, ti amiamo alla follia.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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3- CABO DE ROCA, WACKY RACE A SINTRA, L’OVERLOOK, NAZARE’, OBIDOS E LA TRATTORIA FANTASMA DI AVEIRO

Lunedì, ritiriamo la macchina in Praca do Restauradores, dove sbrighiamo le solite pratiche estenuanti di noleggio presso Ok mobility, su cui il giudizio rimane tuttora sospeso. Probabilmente non la consiglierei . Il Portogallo si rivela subito facile da guidare, le strade sono buone, esordiamo visitando Boca do Inferno e Capo de Roca, il punto più occidentale dell’Europa continentale, luogo significativo e scenografico.

Poi tentiamo la sorte per Sintra. Non siamo in formissima, ne ignoriamo i motivi, e Sintra è un’altra trappola per turisti. Le persone ci arrivano a cataste, le automobili sbuffano una sull’altra, sembra di partecipare alla Wacky race, ma mancano Peter Perfect e Penelope Pitstop, non incrociamo nè il diabolico coupè né la multiuso di quel genio di Pat Pending. Entrare o trovare parcheggio è opera da contorsionisti kazaki a riposo, e non possiamo permetterci un altro errore, e per quanto siamo consapevoli di rinunciare a una delle principali attrazioni portoghesi, cerchiamo -con fatica- di uscire dal girone infernale che circonda le mura del sito e decidiamo di farci raccontare Sintra da Francy, che l’ha già visitata anni fa.

Filiamo via verso Nazarè, nelle cui acque un lunghissimo canyon sottomarino profondo fino a 5 chilometri garantisce ai surfisti i più grandi cavalloni al mondo. Quando arriviamo il mare è mansueto, e piccoli surfisti in erba assaggiano onde docili, facili da domare.

Ammiriamo un tramonto dirompente prima di cenare a Vinha d’alhos, una trattoria di Valado dos frades, un paesino dell’entroterra che pare il Messico anche se non hai mai visitato il Messico. Qui il gentilissimo gestore di cui ricordo bene il viso ma non il nome ci fa assaggiare una guancia spettacolare. La nostra dimora odierna è a due passi.

Quinta do campo è un‘antica tenuta gestita dal brillante discendente di una storica famiglia portoghese (“I’m the seventh generation of my family, i’m so proud”). Sarà anche uno dei rari gestori con cui riusciremo a parlare in inglese. In proposito, Irene continua a ribadire con forza a chiunque si rivolga a noi -sorridendo del suo sorriso travolgente e sdentato- che possono esprimersi nel modo che preferiscono, ma tanto “noi parliamo italiano”. Insomma, Iri non accetta di buon grado la varietà linguistica che la strada ci concede, nonostante viaggi da quando è in fasce. Eppure ogni idioma possiede una sua musicalità e custodisce la cultura e la storia di un popolo. Forse una quasi settenne non è abbastanza matura per comprenderlo?

Ma torniamo per un attimo dietro le quinte della quinta. I fasti della famiglia del nostro originale amico sono ben visibili nell’arredamento magnificente e negli antichi volumi presenti nella biblioteca da sogno cui consente generosamente agli ospiti di accedere in qualsiasi momento. Chiedo subito di pagare e l’uomo mi dice di rilassarmi, ora sono a casa (“Thiiis is your hooome nooow!”), non siamo in uno di quei posti in cui la gente e le procedure sono automatizzate, in cui tutto è ridotto a documenti carta di credito pin pulsante 2 in ascensore e tanti saluti. No, questo è un luogo in cui una certa disumanità è stata ufficialmente bandita.

Martedì. La colazione è servita in cantina, i cui interni trasudano tradizione e cultura. La maestosità complessiva di questo posto mi rammenta l’Overlook Hotel, senza un motivo particolare. Il mattino ha l’oro in bocca, ma non noto Jack o Danny Torrence aggirarsi per saloni e corridoi, né tantomeno il bancone ammaliante di Mr. Grady, ma Quinta do campo -soprattutto di notte- sembra nascondere storie oscure e imperscrutabili sotto la sua pelle bianca.

Alla fine si paga, perché alla fine si paga sempre, al di là di fughe poetiche e giravolte, e si riparte. Facciamo un passo indietro (attività inconsueta per la mia famiglia) per visitare Obidos, le sue mura e il suo grazioso centro storico bianco e giallo, costellato sovente da botteghe ciocco-artigianali e dal viola furoreggiante delle bougainville.

Il negozio che mi colpisce di più è un’eccentrica orto-libreria, dove ortaggi freschissimi convivono con una nutrita collezione di libri. L’impatto visivo è conciliante e il profumo dei libri si mescola a quello delle verdure.

Maciniamo poi un po’ di km verso nord, facciamo una pausa nella struttura di turno, dove le animelle si divertono in piscina, e poi andiamo a bivaccare sulle sabbie soffici di Praia da Costa Nova, dove noi assaggiamo il vino locale e i bambini saltano saltano come non ci fosse un domani. I nordici fanno il bagno come se niente fosse, come se l’acqua fosse calda, il guardaspiaggia è agitato sul suo quad, il suo fischietto è in fermento, come i marosi che aumentano col passare dei minuti.

Scende la sera e ceniamo da Pelucha, storica trattoria di Aveiro, che in base al romanzo di viaggio di Saramago non era più presente in città, quarant’anni fa. “Quando al viaggiatore viene un po’ di appetito, verso l’ora di pranzo, dai confini della memoria gli sovviene un ricordo. Tanti anni fa, ad Aveiro, ha mangiato una zuppa di pesce che fino ad oggi gli è rimasta nella ritentiva dell’olfatto delle papille gustative. Vuole appurare se i miracoli si ripetano e va domandare dove sia il “Palhuca”, come si chiamava l’osteria dove era avvenuta l’apparizione. “Palhuca” non c’è più, adesso “Palhuca” sta cucinando per gli angeli, o forse per la principessa Joana, sua patrizia, al di là di questo cielo grigio. Il viaggiatore china il capo, vinto, e va a mangiare da un’altra parte”.

Scopro il fatto curioso leggendo la parte del libro dedicata ad Aveiro dopo cena, e mi convinco di aver mangiato in una trattoria fantasma. Continuo a pensare ancora adesso, mentre sistemo gli appunti e scrivo, se sia stata magia o meno, se il Palhuca in cui abbiamo mangiato fosse reale o fosse invece una trattoria ai confini della realtà, nascosta com’era fra vicoli di scarso fascino e una serie infinita di piccoli cantieri e costruzioni decadenti. Che sia stato il frutto della nostra immaginazione? Se tornassimo da quelle parti, la ritroveremmo? Certo, il bacalhau e i camaroes erano veri, e anche buoni, e forse ciò basta per dissolvere le fitte nebbie del mistero. O forse no.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate.

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2 LISBONA

Arriviamo a Lisbona nel tardo pomeriggio per via del volo in ritardo ma anche perché i ritmi portoghesi si rivelano subito piuttosto blandi. Inizialmente non la mando giù, non accetto un sistema che mi pare disfunzionale, reagisco con stizza, un po’ come mi capitò pochi mesi fa a Istanbul, in cui il fenomeno era persino più accentuato. Ma non faccio fatica a trovare il giusto assetto, che mi consente di intuire in modo graduale la forma mentis del popolo di cui saremo ospiti nelle prossime due settimane. Capiremo ben presto che il lato migliore del Portogallo è rappresentato proprio dalla sua gente.

Ci sistemiamo in appartamento nel quartiere di Alfama, valzer di docce e poi usciamo rapidamente verso Baixa e il Barrio Alto, ci concediamo la solita birra propiziatoria d’inizio viaggio, diamo un’occhiata preliminare, passeggiamo senza meta, mangiamo qualcosa, ascoltiamo della buona musica in un locale sotto casa, e poi andiamo a dormire sufficientemente stremati da una giornata che pare un mese, dato il calvario patito in patria.

Sabato. Ci alziamo presto, assaggiamo i pastel de nata in una pasticceria in zona, e poi saliamo al Castello di Sao Jorge, che ci godiamo quasi in completa solitudine, perché gli Alfacinhas (letteralmente, lattughe), ovvero gli abitanti di Lisbona, si svegliano tardi. Il mattino si rivela il momento migliore per evitare sovraffollamenti e spostarsi velocemente.

Lisbona è una bella città, e Alfama è il suo cuore più limpido e autentico, un reticolo di vicoli in saliscendi che nascondono e custodiscono gemme colorate e musicali. “Vediamo Alfama, ma non sappiamo cosa sia. Eppure continuiamo a girare, a salire e scendere senza poterci fermare”. Ovunque ci accolgono sorrisi e kapirinha, e capiamo ben presto che quel sorriso è il marchio di fabbrica del Portogallo, un fattore costante che ci accompagnerà -insieme alla kapirinha- per tutta la durata del nostro soggiorno. Ce la giriamo a piedi, in tram e in bus per tutto il giorno, cerchiamo di capire questa città contorta e attorcigliata su sè stessa, che somiglia alle montagne russe per come sterza impetuosamente e si getta a capofitto in mare, per poi atterrare e riposare placida a bordo oceano.

Di norma sono felice dove l’opera dell’uomo è meno evidente. Ma l’anima di Lisbona è grande, protesa com’è verso l’Atlantico e verso il resto del mondo. Questa città ha un cuore puro, generoso, romantico, somiglia a una sensazione, restituisce il desiderio di scoperta e conquista del popolo portoghese, desiderio che non può non appartenere a chi nasce in un luogo che garantisce una tale prospettiva e una finestra d’acqua di simili dimensioni. L’oceano deve aver rappresentato l’ignoto e un richiamo irresistibile per chi si è spinto al di là del mare, secoli fa.

Lisbona sembra tantiluoghinsieme, e probabilmente è ovunque ognuno desideri sia. Induce il viaggiatore a condividere, elimina il riserbo che regna nel nord del mondo. Ti fa sentire a casa. Soprattutto se si è liberi al punto da non avere un’idea radicata di casa.

Di sera cerchiamo la trattoria di Ti Natercia, la Maria de culo bello de Lisboa, ma troviamo la Velha Taberna. Zia Natercia, una signora assai loquace di una certa età, oggi è chiusa e ci affidiamo ai dirimpettai. Ci accomodiamo per errore, a onor del vero. Avevo scelto Natercia leggendo di lei a casa, e osservando le immagini di quell’umile e accogliente osteria, che non potrebbe non evocare in chiunque abbia avuto un’infanzia niente affatto sofisticata il ricordo di nonne affaccendate e tinelli dalle luci soffuse. Scopriamo poi, quando Natercia si presenta a sorpresa al nostro tavolo, carica di racconti incomprensibili e di gesti affettuosi per Francesca e i bambini, che avremo comunque l’onore di mangiare il suo sublime bachalau, dato che prepara vari piatti anche per la taverna in cui ci troviamo. Inutile ribadire che anche qui abbiamo trovato casa, ma lo scrivo lo stesso. Dopo cena assistiamo alle acrobazie di vari artisti di strada, e come da tradizione ci ritiriamo prima che sia tardi.

Ma è già domenica. Ci svegliamo presto, per muoverci d’anticipo sulla città, che inizierà a stropicciarsi gli occhi e a sgranchirsi le tortuose, affusolate leve un paio d’ore più tardi. Scegliamo la linea retta per il terzo giorno e noleggiamo le bici per costeggiare o forse inseguire il Tago fino all’oceano lungo l’Avenida do Brazil, una ciclabile nuova di zecca che forse si chiama così perché punta verso il Brasile, terra storicamente significativa per i portoghesi.

Di primo acchito assistiamo al degrado della solita periferia urbana, che nei porti spesso è persino accentuato. Gim ne soffre intimamente, pensa che sia inconcepibile che tanti uomini siano costretti ai margini con tale evidenza. Lo capisco, ma non riesco a consolarlo come vorrei, perché so che ha ragione lui. Superati gli ultimi relitti dei bagordi della notte, che in alcuni casi ballano ancora alla grande in qualche angolo sospeso sul molo, si apre un percorso di luce e acqua a perdita d’occhio, che ci condurrà fin quasi a Cascais.

Intercettiamo i mercatini e una parata di cavalieri tambureggianti nel parco adiacente il monastero di San Jeronimo, poi ci fermiamo in una spiaggia semi deserta a saggiare il mare, che è bello ma gelido, e di ritorno compiamo l’errore che al viaggiatore ogni tanto (di rado per fortuna) capita di compiere: pensiamo da turisti e ci mettiamo in fila per visitare il Palazzo di Belem, una trappola di proporzioni cosmiche in cui la prima fila è soltanto propedeutica alla seconda e così via a salire, fino all’ultimo anonimo piano di una struttura di cui sarebbe stato sufficiente leggere la storia e osservare gli esterni.

Devo ammetterlo, la parte esposta della torre ha il suo fascino, procura l’illusione di essere sul ponte di una nave in mare aperto, ma prego il lettore di fermarsi lì, di limitarsi a contemplare quel gioco visivo e di non proseguire oltre, nel caso capitasse da quelle parti. Perdiamo più di un’ora -tempo prezioso per il viaggiatore – e poi pedaliamo di buona lena verso il centro per concederci l’ultima sera in Alfama, dove chiudiamo in bellezza concedendoci una cena di prelibatezze angolane e capoverdiane da Sao Cristovao.

I nostri figli giocano con la figlia di una coppia di ragazzi polacchi, di cui mi colpiscono il sorriso e la spensieratezza. E poi c’è la solita sensazione che non è nuova all’estero, quella cioè che mi induce a pensare che quei ragazzi potremmo essere noi, in versione polacca. Lo so che non siamo esattamente ragazzi, ma voglio concedermi questo lusso dialettico. Fuori dall’Italia ci si rende sempre conto della moltitudine e della varietà infinita di persone e tipi umani, delle innumerevoli caratteristiche, modalità, usanze e abitudini che differenziano gli uomini e le donne e i bambini del pianeta, e si acquisisce la facoltà di mettere in discussione tutto, di non dare nulla per scontato, di capire che il nostro sforzo di pensare, di acquisire certezze o presunte tali, di confezionare verità o presunte tali è una stilla dispersa nella vastità oceanica dei punti di vista.

E’ forse questa la ricchezza principale che si acquisisce viaggiando: si esce dall’orticello, dai sentieri che battiamo ogni giorno, dai binari delle conversazioni convenzionali, e si può dare uno sguardo oltre, laddove è possibile intercettare il flusso incessante delle idee e dei pensieri del mondo.

Ma ora basta divagare. Domani prenderemo la macchina in centro, dovremo essere freschi, ma ci attardiamo ugualmente nei soliti localini, per salutare Lisbona ed Alfama nel modo che meritano.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

1- PROLOGO

“Queste terre costiere sono predilette dal turismo. Il Viaggiatore non è un turista, è un Viaggiatore. C’è una grande differenza. Viaggiare significa scoprire, il resto significa semplicemente trovare”.

Josè Saramago – Viaggio in Portogallo

Formazione: Francy, Gim, Iri e me.

Parto preparato ma non troppo per il Portogallo, felice ma non così eccitato, come spesso mi capita in prossimità di certi viaggi. I bambini sembrano contenti di poter fare una vacanza in maniche corte, dopo un po’ di tempo. Noi adulti siamo più sul chi va là. L’impostazione del viaggio mi soddisfa a metà, in effetti somiglia troppo a una vacanza per certi versi, e l’impressione è che ci sia parecchio da scoprire, si, ma anche tanto che non faremo fatica a trovare. E’ un viaggio semplice, senza particolari punti interrogativi, senza l’ansia di doversi preparare fisicamente o di dover studiare accuratamente il territorio o infine di allestire il bagaglio nei minimi particolari. Ma viaggiare è anche ritrovarsi e condividere con la famiglia lo spazio e il tempo che la quotidianità spesso ci nega. E’ andare lontano per sentirsi più vicini l’un l’altro. E questo, al di là dello spazio, del tempo e dei modi che scegliamo per farlo, non cambia mai. Inoltre è stato un anno faticoso, e per una volta non guasta non doversi caricare di quella sana inquietudine che in certi viaggi si traduce in adrenalina costante. Siamo rilassati, fin troppo direi, tanto da far tardi la sera prima con gli amici, da non lesinare brindisi e abbracci, con le valige ancora a metà e la partenza fissata il mattino seguente.

E così è venerdì. Partiamo lenti, talmente lenti che rischiamo seriamente di perdere l’aereo a Bologna. In fondo siamo nei tempi (ancora), procediamo di buon passo, poi gradualmente il traffico rallenta, il navigatore ci segnala un incidente, un brutto incidente, i tempi di percorrenza si allungano mostruosamente, siamo fregati (forse). Si, ma questo racconto non avrebbe alcun senso se non fossimo arrivati in aeroporto, giusto? Decidiamo rapidamente di uscire dall’autostrada, prendiamo l’uscita di Faenza su due ruote, ma troviamo coda inevitabilmente anche sulla nazionale, fra mille crocevia intasati e tanti guidatori acciambellati sul volante a causa della calura intensa del mezzodì. Io inizio a prendermela con tutti, coi guidatori acciambellati, con la nostra supponenza, coi nostri ritardi, col fatto che non valutiamo mai ma proprio mai la possibilità di un imprevisto, con l’incoscienza che ci caratterizza e che poi è il nostro segreto ma adesso no, adesso è dannazione eterna e viaggio a rischio, e sbraito e mi agito contro la mia stessa superbia che mi ha lasciato credere di essere un viaggiatore navigato e quindi infallibile. Per fortuna rientriamo in autostrada a Imola, posso smettere di pensare e dare di matto.

Ci fiondiamo verso Bologna. Stiamo per arrivare al parcheggio ma la strada è interrotta (fatto senza precedenti, anche questo) e perdiamo altro tempo. Un passante vuole per forza fornirci indicazioni dettagliate per raggiungere in fretta la nostra destinazione, ma la sua flemma mi impone una fuga impertinente. “Eh ma allora” – lo sento lamentarsi mentre evaporiamo. Infine congediamo Zelda, la nostra macchina. La navetta ci carica su, l’autista bolognese- che ci tiene a mostrarsi simpatico più di ogni altra cosa- si prodiga in un percorso alternativo. Era un pilota, e nessuno ha mai perso un aereo per causa sua -dice. Mi toccherei se non fosse per la signora accanto a me. Scendiamo e iniziamo a correre verso l’aeroporto per imbarcare la valigia, la coda è corposa ma di lì a poco chiamano al banco i passeggeri diretti a Lisbona, manca mezzora alla partenza di un volo che poi tarderà il decollo per motivi ignoti.

Usciamo a fatica dalla fila, lanciamo la valigia alla gentile signorina muta, corriamo al gate, beviamo un litro d’acqua a testa per evitare di sprecare il bene più prezioso al mondo, attraverso i controlli di sicurezza a pedi nudi perché i mie consunti Birkenstock non vogliono saperne e perchè i calzari sono tutti mezzi rotti, il tempo di un breve ma significativo crollo emotivo scaturito dalla tensione e di una sosta in bagno e siamo in aereo. Insomma, un incipit stressante per un viaggio che di stressante poi avrà ben poco.

48 non sono pochi

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Cronache e Storie d'Osteria

48 NON SONO POCHI

E’ strano arrivare a un’età che non sembra corrispondere alla tua. Un po’ perchè non riesci a realizzare bene cosa tu possa aver fatto in tutto questo tempo, che sembra poco ma è una marea oceanica. Un po’ perchè si fa fatica ad ammettere di aver superato da un po’ quel valico invisibile ma non troppo ipotetico che sancisce la metà del giro che ci facciamo da queste parti.

48 non sono pochi, non mi provocano lo stesso effetto dei 46 o dei 47, si va un po’ troppo in là. Resto convinto che ognuno si assegni un’età, e c’è chi nasce irrimediabilmente vecchio e chi fatica ad invecchiare, come se ciò non fosse affatto nelle sue corde. Ma come dicevo ai miei amici ieri sera, sembra un po’ come se dal traguardo iniziassero a metterti a fuoco. Non sanno chi sei, in fondo ti ignorano, ma ti intravedono, ti percepiscono, diamine.

Adesso non vuoi più regali, non ti serve più niente, perchè nulla è più importante del fatto che la cornice sia giusta, che quello che hai intorno rimanga il più possibile com’è sempre stato, che lo stato di grazia si conservi.

La tua compagna, i figli, la famiglia, gli amici, i sogni e i progetti, i viaggi fatti e quelli imminenti, quelli che stai soltanto immaginando di fare, i libri da leggere, che sono sempre troppi, e i film da vedere, che sono sempre meno. Ma tutto ciò che dimora nel regno dell’immaginazione è prospettiva, una prolunga indefinita verso il futuro, un ponte onirico che unisce il qui e l’adesso al chissà quando e al chissà dove. L’immaginazione è vita.

La confusione degli auguri che arrivano da canali più disparati. I familiari più anziani di norma ti chiamano o ti scrivono un messaggio. La maggior parte degli amici, dei parenti e dei conoscenti più stretti utilizzano le vie social più “intime”, altri ancora ti scrivono su facebook.

E’ difficile districarsi in questo pandemonio di messaggi sovrapposti e penso che ne perderei la metà se non fossi in ferie, al mare, con Franci, sotto un sole che culla e stordisce, che rilassa fino al punto di debilitare il corpo e la mente. E così mi godo in modo leggero questi messaggi filtrati dalle tinte arancio di uno spritz.

“Avevo una casa vicino al mare. Per andare in spiaggia dovevo passare davanti a un bar. Non ho mai visto il mare” -recita una frase di George Best scritta sopra il bancone di un chiosco. Eh si, il mare senza un bar non avrebbe senso. Sarebbe inconcepibile, come… come un mare senza bar.

Per tradizione, il giorno del mio compleanno riguardo i vecchi messaggi di zio Gino, perchè sono unici e perchè è proprio questo il giorno in cui avverto di più la sua mancanza: in lui non esistevano banalità di sorta, e tutto quanto da lui proveniva, nel bene e nel male, era sorprendente, come le strisce di colore con cui sapeva dipingere la vita. Nel messaggio del 5 maggio 2016 mi scrisse che entro qualche tempo avrebbe preso la corriera e sarebbe passato a trovare me e Francesca. Mi sono subito immaginato la corriera stravagante di Steinbeck, ho visto zia sulla scalcagnata Sweetheart guidata da Juan, fra le stramberie di Bernice, Mildred ed Ernest. L’ho visto a San Isidro, presso la Svolta dei ribelli, col garzoncello Kit Carson, e poi in fuga verso la Magnadorsa, che colloco oltre le divine dorate colline californiane che poi diradano più o meno dolcemente verso il Pacifico.

E quindi il mio compleanno è stato questo: risveglio dolce al mattino, un’oretta dentro la libreria Sapere di Senigallia (la miglior libreria al mondo) senza nessuno appresso, un giro a piedi lungomare, il groppone causato dalla lettura delle parole di ZiaGina, i messaggi da leggere in ordine sparso, mio padre che mi chiama ma poi non risponde, l’aperitivo e il pranzo con Francesca, un ritorno precoce perchè Giamma non sta bene, e poi un giro di bevute con gli amici, sempre loro, sempre belli e irrinunciabili, sempre densi e caldi come quegli abbracci che nessun altro al mondo saprà mai darti.

E poi Gocce d’Occhio Colorate, la nuova opera di Iri a me dedicata per l’occasione, la passeggiata con mio figlio per andarci a tagliare i capelli da quel matto di Teo, il pensiero delle tante cose da organizzare per oggi domani e sempre, e l’assoluta certezza di non aver bisogno di altro, perchè sarebbe difficile e persino stupido desiderare di più. Grazie di cuore a tutti, a chi sostiene parti gravose, a chiunque abbia un ruolo delicato, alle comparse, a chi lavora nel retrobottega. Il film non sarebbe lo stesso senza di voi. Senza nessuno di voi.

Caleidoscopio

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Cronache e Storie d'Osteria

Una notte mi sono svegliato nel groviglio inestricabile di passato, presente e futuro. C’erano ricordi senza fine, privi di un ordine cronologico, ricordi anche di ciò che forse deve ancora accadere. L’unico ordine sensato era quello di apparizione degli attori e delle attrici, dettato dalla memoria appena sfornata alle quattro del mattino. Una tessitura intricata di personaggi senza alcuna posa. Tutte queste ombre piombavano fuori dal liquido nero, saturo e denso delle profondità oceaniche della mia psiche, e prendevano forma in modo graduale, raccontando storie più o meno bizzarre. Attraversavo le paludi acquitrinose che dimorano fra la veglia e il sonno, ma ero lucido abbastanza da poter posare lo sguardo su di me.

Così ho pensato a chi sono, a come lo sono diventato, a come ciascuno diventi chi è. E’ banale ma siamo tutti figli di incontri casuali ma decisivi, siamo la somma di tante storie e coincidenze, l’intreccio delle individualità con cui siamo entrati in contatto, “siamo la somma di tutta la vita vissuta ma anche il terreno materno gravido di tutta la vita futura”.

Ho sempre cercato di pescare in modo mirato nello stagno delle opzioni vacanti. Spesso ci ho preso, a volte mi aspettavo di più, a volte di meno. Ma mi sono sempre arricchito, a prescindere dal fatto che una persona togliesse o aggiungesse qualcosa al mio bagaglio, perché ognuno ti lascia un pezzettino di sé, anche soltanto a livello inconscio. Ogni nuovo punto di vista è una scoperta. Conoscere una persona è come visitare una terra straniera, e ho sempre desiderato esplorare persone e luoghi diversi per arrivare a una sintesi sommaria, a una chiave di lettura universale di tutto ciò che è. Capire e leggere il mondo significa anche stanare se stessi. L’inventio.

Quante immagini frullano scomposte nella nostra testa, quasi fossero i fotogrammi caleidoscopici di unico interminabile film epico?

Per quanti motivi siamo legati a qualcuno? Per una serata indimenticabile, per un’immagine folgorante, per la più bella battuta del secolo, perché c’è sempre stato da quando hai memoria, perché forse volevi essere lui, perché sapeva ridere o divertirsi meglio di chiunque altro, perché aveva fissazioni uniche, perché si è perso e poi ritrovato come e quando ti sei perso e ritrovato te, perché ti ha fatto sentire importante, perché vi siete sentiti affini a fasi alterne ma con picchi altissimi, perché raccontava balle astronomiche e tu lo sapevi ma ti andava bene lo stesso, perché è stato sempre geniale nella sua attitudine alle paranoice, perché aveva problemi simili ai tuoi, perché ti sembrava diverso ma ti ha fatto capire che quello diverso eri te, perché stranamente aveva voglia di starti a sentire, perché ti osservava di nascosto mentre tu l’osservavi, perché sparava fesserie enormi senza ridere mai, perchè sapeva stimolarti, perché richiedeva uno sforzo che comportava un salto di qualità, perché riusciva a farti fare cose impensabili, perché poi ti ha messo a disagio ma quel disagio ti è servito, perché ti ha stancato in fretta, perché di colpo è cambiato, perché era troppo, perché era troppo poco, perché aveva una classe o un talento innati che volevi emulare ma non c’era verso, perchè anche lui lo faceva per i Doors, perché era circondato da belle donne, perché nessuno ti abbracciava in quel modo, perché avete fatto un pezzo di strada insieme, perché non ti andava affatto a genio, perché ti fidavi, perché non lo considerava nessuno eppure te eri sicuro che valesse la pena tentare, perché si destreggiava abilmente nella sublime arte dell’autoironia, perché volevi guarirlo dal cinismo a forza di eccessi, perché rideva dentro, perché gli hai sempre voluto bene, perché eri convinto d’essere uno scopritore di talenti, perché aveva i tuoi stessi gusti cinematografici, perché ti ha fatto crescere in un modo o nell’altro, perché ti ha mostrato che nulla è scontato, perché ti ha sopportato oltre misura, perché era indubbiamente più matto di te e non ti pareva possibile, perché anche lui aveva capito che è inutile sforzarsi di piacere agli altri, perché aveva modi rudi sotto cui eri sicuro si nascondesse qualcosa di buono, perché semplicemente vi siete incontrati al bancone dei sogni, dove il Mentore maramaldeggiava.

A me -lo confesso- è sempre piaciuto sperimentare, creare relazioni fra tipi umani diametralmente opposti, scatenare chimiche imprevedibili, cercare l’amalgama perfetto, combinare personalità apparentemente antitetiche, miscelare uomini, donne, ingredienti, musica, parole e follia negli alambicchi della notte e dell’alba.

La mia ricerca prosegue anche oggi, naturalmente in orari più consoni alle mie possibilità. E a volte può ancora capitare di incontrare qualcuno con cui si sviluppi una chimica immediata e incontrollabile, tale che vien da pensare che sarebbe stato impossibile non incontrarsi prima o poi (“le anime belle si incontrano sempre” – Cit. Zia Gina). Lo senti quando hai davanti una persona simile, con cui costruisci parentesi dialettiche notevoli anche se non sai bene chi sia, con cui l’affinità è innata e ti senti subito a tuo agio. Lo capisci perché con persone simili riesci a far gorgheggiare l’acqua. Quando incontri una persona speciale, l’aria -satura di vapore acqueo- raggiunge il punto di rugiada, e il mondo assume una posa e una grazia diverse, e tutto sembra improvvisamente possibile.

Rivolgo quindi il mio pensiero a tutti gli uomini, le donne, e le altre specie animali con cui sia nata un’affinità, mille anni fa o l’altro ieri, che sia o sia stata duratura od estemporanea, semplice o complessa, profonda o superficiale, fugace o approfondita, sensata o ridicola, razionale o pazzesca, monotona o variegata, antiquata o futuristica, formale o conviviale, limpida o velata, reale o presunta, familiare o amichevole, fisica o cerebrale, colorata o in bianco e nero, teatrale o rintanata, musicale o silenziosa, spontanea o artificiale, relativa al lato oscuro o a quello luminoso della Forza, e a loro, a voi dedico il mio più sentito Grazie e i miei più calorosi auguri di Buon Natale e di Buon Anno, nel senso e nei modi che ognuno di voi più gradisce. Che questo sia per tutti voi un momento sereno e introspettivo, da dedicare solo ed esclusivamente a quanto di più caro avete su questa terra, che sia semplice e vero, che sia carico dei racconti e delle persone che vi stanno più a cuore, che vi sappia stupire e meravigliare, e che soprattutto sia inondato da cascate di buon vino e risate prorompenti, senza cui la vita probabilmente non avrebbe senso. Buona fine e buon inizio.

Istanbul, la città fra i continenti

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Cronache e Storie d'Osteria

Forse non sono più abituato a viaggiare senza la mia famiglia, ma l’impatto con questa megalopoli a cavallo fra l’Asia e l’Europa è stato quanto meno interlocutorio

Batterie di palazzi spesso fatiscenti si susseguono a perdita d’occhio, affastellati uno sull’altro senza criterio. Sembrano orde di giganti in cemento armato, eserciti di abitazioni e botteghe fatiscenti che sfilano senza che la luce possa trovare spiragli in cui infilarsi. Ciò è visibile sia nell’antica Costantinopoli (a sud), che soprattutto nei quartieri di Pera e Galata a nord, oltre il Corno d’oro. Fra l’Istanbul europea e quella asiatica corre il Bosforo, striscia d’acqua che conduce dritta al Mar Nero, dove imbarcazioni enormi navigano senza tregua fra Russia ed Ucraina e il resto d’Europa e del mondo. Di là del Bosforo si scopre – per quanto sembri paradossale – una città totalmente diversa, dalle fattezze occidentali, più verde e curata ma un tantino anonima rispetto alla sorella “europea”. A sud di Istanbul dilaga il Mar di Marmara, specchio d’acqua che corre fino al Mediterraneo attraverso lo stretto imbuto dei Dardanelli.

Scrivo ciò senza nulla togliere al cuore di quella che fu Bisanzio e poi Costantinopoli, dove campeggiano monumenti e musei spettacolari. La fastosa Basilica di Santa Sofia (ora adibita al culto islamico), la misteriosa Cisterna di Yerebatan, meglio nota come Cisterna Basilica, antico deposito d’acqua costruito da Giustiniano nei sotterranei di una basilica di cui oggi non resta traccia, la maestosa Moschea blu, il palazzo reale Topkapi, la reggia da cui i Sultani governarono l’impero ottomano fino al diciannovesimo secolo, luogo denso di storie tanto affascinanti quanto spesso terribili.

L’aria di Istanbul è densa di fumi e odori penetranti, il traffico è incessante e si districa fra vicoli altrettanto interminabili, vicoli che salgono e scendono in modo caotico fra i meandri di questa pantagruelica creatura, che sembra divorare i passanti e poi inghiottirli definitivamente o rigettarli fuori in un dove assolutamente casuale. I tram si rincorrono senza pause, forse è solo un unico enorme vagone a serpeggiare fra il passato e il presente, probabilmente è il treno dei sopravvissuti di Snowpiercer, in cui si dipana tutta la vita residua in moto perpetuo. Un bambino vestito di rosso, scalzo, coi piedi neri e consunti, salta giù dallo spazio angusto che insiste fra un vagone e l’altro, e osserva il mondo con occhi grandi e allampanati; è un bambino perduto, dalla posa spavalda, che un attimo dopo scompare anche lui fra i grovigli di mezzi meccanici e la densa spirale della folla.

Istanbul va capita, e certo non bastano i quattro giorni che abbiamo a disposizione. All’inizio ti incazzi perché non sopporti che certe procedure siano poco oliate o semplicemente diverse da come le avevi pianificate, ma nell’istante in cui comprendi che abbandonarsi al flusso disfunzionale che ne catalizza l’energia è l’unico modo per intercettare la sua disorganizzazione organizzata, allora sei dentro, e non ti stupisci più quando ti accorgi che una maratona di ore interrompe ogni forma di trasporto possibile. Camminiamo senza fine, osserviamo divertiti i gonfiabili che segnano i traguardi parziali della gara afflosciarsi sui concorrenti di passaggio, passiamo e ripassiamo per anni sul ponte di Galata, dove i locali pescano pesce nutrito dagli scarichi delle imbarcazioni che si sfiorano e quasi si sovrappongono e navigano a castello sotto di noi. Forse è l’anno 2046.

A me Istanbul non è parsa una città bella in senso proprio, ma è di certo un luogo carico di fascino e segreti irrisolvibili. La sua bellezza senza tempo è minata dall’abusivismo edilizio, fenomeno drammaticamente visibile dalla corsa senza fine delle costruzioni lungo le rive del Bosforo, dall’inquinamento di terra, aria e mare, dall’assenza pressochè totale di porzioni verdi e naturali di tessuto urbano. Questa sorta di decadenza incarna però entrambi i lati della stessa medaglia, nel senso che, se da una parte trasmette un senso di desolazione, dall’altro incanta e seduce il viaggiatore.

Visitarla somiglia più a una sensazione che a un’esperienza. Io e Francesco non abbiamo trovato tracce di frenesia in quel crocevia cosmico di etnie, storie, religioni, e culture diverse. Tutt’altro. Pare regnare un caos calmo in cui tutti fumano come se non ci fosse un domani e in cui nessuno da in escandescenze se un furgoncino blocca una strada a senso unico perché il suo proprietario è sceso a fare colazione.

La super città intercontinentale turca mi ha lasciato una grande serenità di ritorno, una sensazione di pace scalfita soltanto dall’ordigno esploso sei giorni dopo a pochi passi dalla zona in cui alloggiavamo. Le persone sembrano meno inquinate dalle lordure con cui bombardano noi vecchi europei ogni giorno, da anni.

Tutte quelle immagini che nel nostro mondo implicano e instillano finti desideri e inutili ambizioni, tutti fattori che impostano la vita comune come fosse una corsa ad ostacoli, dove devi rincorrere chissà cosa o chissà chi per arrivare prima e meglio degli altri, dove le cose vanno bene ma vorresti andassero meglio, dove il sistema è talmente drogato da non darti tempo per realizzare che in fondo è tutto a posto e sei felice e potresti goderne stilla a stilla se solo non fossi indotto a pensare che no, non basta, vuoi di più, anche se hai già tutto ciò che potresti umanamente contenere per stare bene. E il ridicolo impegno profuso per costruire quel modello di persona collettivamente conveniente, da cui Jung mise in guardia, poiché “tale costruzione è un vero sacrificio di sé, che costringe l’Io a identificarsi con la Persona”. La più atroce delle illusioni, che induce l’uomo a sbarazzarsi di se stesso a favore di una personalità artificiale.

Gli orpelli e gli artifici dell’occidente, le sovrastrutture capitalistiche, la produttività agli estremi, la crescita continua e totalmente insostenibile, la fine dell’essere umano. Tutti questi fattori sono ben visibili quando rallenti in un contesto disorientato come un viaggio in Turchia col tuo amico di sempre. Non hai bisogno di dire nulla, puoi dosare pensieri, concetti e parole, sei a tuo agio, sei a casa, ma lontanissimo da essa, e riesci a vedere la tua immagine riflessa in tutta la sua inconsistente mediocrità.

Continuo a sentire Istanbul dentro di me, anche se è una sensazione intermittente. Ma il pensiero vola spesso da quelle parti, nel dedalo di architetture, viuzze e palazzi creati nei secoli da greci romani, turchi, genovesi e veneziani e chissà chi altro. Istanbul mette in crisi la personalità artificiale dietro cui gli occidentali amano nascondersi.

Ricordo una domenica pomeriggio di luce calda, un giro in battello sul Bosforo, un gruppo di amici turchi felici e affiatati. Si scattavano foto in successione, si mettevano in posa come forse si usava in Italia negli anni 50, si abbracciavano fraternamente, mostrando naturale intimità e reciproca familiarità. Mi hanno subito ricordato i miei amici, il nostro volerci bene, la nostra lunga e intricata storia collettiva, il fatto che anche per molti di noi il contatto fisico sia importante e che sia fondamentale sapersi abbracciare, che non è affatto una banalità. Ma fra di loro c’era un fattore ulteriore, che ho tentato di decifrare durante la navigazione: una fratellanza, o qualcosa che definirei “assenza di complicazioni”, un mood più semplice e lineare, forse meno tortuoso, un’empatia incontaminata, priva di malizie e concessioni, da cui mi sono fatto cullare fino all’attracco in porto.

Ieri -a casa- riposavo nella tana che abbiamo creato per i bimbi sotto un letto a castello, un regno di amore e infanzia e luci soffuse, ricavato in un cantuccio onirico. Ascoltavo i miei figli parlare, li sentivo giocare, mentre Franci andava e veniva leggera, senza che ne percepissi i passi. Le loro voci dolci, il tepore dei cuscini, il ricordo della partita di Gim al mattino e di una giornata trascorsa insieme ad amici cari, il pensiero rassicurante della famiglia, i rituali magici del Natale all’orizzonte.

Un momento perfetto, l’istante in cui comprendi che non puoi desiderare di più, perché ogni tassello aggiunto a quel contesto avrebbe la consistenza di elemento superfluo, di rappresentazione effimera, per quanto in fondo a me piaccia l’effimero, ma quello gustoso, privo di tarli corrosivi. E in quell’istante ho pensato a Istanbul e alla sua gente, alla genuinità di quelle persone ancora ai primordi del degrado che ha colpito l’occidente. Ho assaporato la stessa sana e innocente bellezza che dimorava sui volti dei ragazzi turchi in barca, bellezza che auguro loro di saper conservare in futuro, assieme all’iridescente gusto retrò che ne caratterizza la posa.

LA PROVVIDENZA – Io, Francesca, Zelda, Riccardino, i tosco-balcanici, Super Mario e Sergione da Bordeaux

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Cronaca di una giornata folle

In un giorno di ferie possono capitare cose davvero strane. Io e Francesca andiamo da Maria a Pierosara a festeggiare il suo venticinquesimo compleanno a base di tartufo e funghi porcini. Poco prima di arrivare a destinazione, un rumore sinistro sotto la gomma posteriore destra ci impensierisce. Abbiamo bucato! A quel punto però è tardi, abbiamo fame e il pranzo ci aspetta. Quindi decidiamo di prenderla con filosofia e di non drammatizzare. Dopo pranzo, quando la gomma sarà totalmente sgonfia, la rimetteremo in sesto con la schiuma, come fanno tutti. Tornare a Jesi non sarà un problema. E così pranziamo, ce la godiamo, pensiamo a Zelda (la macchina) e non ci pensiamo, e poi usciamo per cercare di capire il da farsi. Agitiamo la bomboletta e spariamo la schiuma nello pneumatico. Ma diamine, non succede niente! Anzi la schiuma esce fuori allegramente da sotto. Spostiamo con cautela la macchina e ci accorgiamo con assoluta sorpresa che dentro la gomma c’è una chiave meccanica, di quelle che si utilizzano per avvitare e svitare dadi e bulloni.

Non sembra possibile, ma è vero. Siamo fregati. La mia assicurazione non risponde, dobbiamo trovare una nonna per prendere i bambini a scuola alle 16. Grazie ad Alessio e Simonetta riusciamo a collocare i figli a calcio e a ginnastica, ma rimaniamo bloccati a Pierosara. L’unica pompa di benzina della zona è chiusa. Si, siamo fregati. Armeggiamo intorno all’auto senza alcun profitto, finchè si ferma un ragazzo con un pick up bianco. Il suo nome è Riccardo, e si offre di aiutarci, nonostante abbia altro da fare, e si impegna per cercare di capire come estrarre la ruota. Servono attrezzi specifici che mi accorgo di non avere. Riccardo è dispiaciuto, non può aiutarci, chiama qualche suo amico in zona per cercare di trovare gli strumenti necessari, ma niente. Poi escono dal ristorante un ragazzo toscano, la sua compagna di chiare origini balcaniche e un bimbo sveglio e simpatico. Sono in vacanza, dormono lì vicino, potrebbero godersi il tempo a disposizione per fare altro ma anche loro decidono di usarne un pochino per noi. Ci chiedono quale sia il problema. Casualmente hanno una Volkswagen come noi, casualmente hanno gli attrezzi che ci servono. Tra una chiacchiera e l’altra togliamo la ruota. Riccardo, che tutti chiamano Riccardino nonostante la stazza perchè ha deciso di avere figli in giovane età, si propone di accompagnarci da un amico che vive fra Monticelli e Colleponi. Potrebbe avere la gomma che ci serve. Dopo circa dieci minuti arriviamo dal suo amico.

Suo padre Mario si precipita fuori. Vuole offrirci il caffè mentre i ragazzi lavorano. Io accetto, e scendo nella taverna di Mario, dove mi offre il caffè e una specie di distillato di sua produzione. Manifesto il mio stupore per la giornata pazzesca, e Mario mi spiega che è la provvidenza ad avermi fatto incontrare certe persone e poi ad avermi condotto a casa sua. La stessa provvidenza che pochi giorni prima ha salvato la sua casa dall’alluvione, dato che l’acqua si è fermata a poche spanne dall’ingresso della sua taverna interrata. Mario si commuove e mi fa commuovere, e così mi viene spontaneo abbracciarlo. Usciamo fuori come vecchi amici, la gomma sostitutiva è a posto, possiamo tornare a Pierosara. Salutiamo e ringraziamo, ma Mario non è contento e ci regala persino una bottiglia di vino di visciola prima di congedarsi. A quel punto siamo più leggeri, inoltre l’intruglio di Mario mi ha regalato brio e spensieratezza. Io, Francesca e Riccardo chiacchieriamo lungo la strada di ritorno, sembra impossibile che quella chiave meccanica infilzata da chissà quale assurdo rimbalzo abbia condotto a una serie di circostanze inconcepibili, tanto strambe quanto perfette nella loro successione. Riccardo rimonta la ruota in due secondi, io ne approfitto per omaggiarlo di un buono pasto da Maria, cosa che quasi sembra offenderlo, per quanto sia nulla al cospetto della generosità e dell’empatia d’altri tempi che ci ha offerto lui in questo strano venerdì novembrino. Il nostro nuovo amico scappa via, il barbiere lo aspetta. Torniamo, Zelda regge bene, ripercorriamo i passaggi di quella giornata straordinaria, che rimarrà impressa nella nostra memoria come il più strano dei compleanni di Franci. Passiamo a riprendere Irene, lascio le ragazze a casa e corro al Boario, dove Gian Marco si sta allenando. Incontro gli amici e Sergione da Bordeaux, che ascolta divertito il mio racconto, carico di magia e umanità impareggiabili. Apre il chiosco, è di certo la Provvidenza, e a lei brindiamo, prima di scomparire nella notte, oltre la discarica degli eventi impossibili.

Steinbeck – Sweet thursday

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Cronache e Storie d'Osteria

“It’s a cosmic joke. Preoccupation with survival has set the stage for extinction”.

“Quel fantastico giovedì” è uno dei romanzi “leggeri” di John Steinbeck. Si aggiunge a “Pian della Tortilla” e “Vicolo Cannery”, di cui è una sorta di seguito ideale. Vicolo Cannery è un luogo non luogo in cui la vita dei protagonisti sembra procedere secondo modalità particolari. E’ una nicchia del tempo, tanto che è facile concludere che i vari Doc, Mack, Flora detta Fauna, Suzy, il vecchio Jingleballicks e il Patron Josè Maria Rivas siano ancora lì a discutere del più e del meno seguendo la ritmica e toni scanzonati e surreali dettati da Steinbeck negli anni 50 del secolo scorso.

I protagonisti di Cannery Row sono per lo più perdigiorno indaffarati a seguire i propri istinti, a procurarsi il denaro utile a comprarsi da bere, a vivere alla giornata, senza l’ansia del domani. “Quel fantastico giovedì” è un romanzo fluido e semplice da leggere, ma lo scrittore americano stavolta concede una sorta di riscatto ai suoi paisanos, riscrivendoli da una prospettiva diversa, che concede loro lo sguardo più profondo e luminoso del lettore.

Eccone un passo:

“L’uomo ha risolto i suoi problemi” – continuò Old Jay. “I predatori li ha scacciati dalla terra…il caldo e il freddo li ha stornati; le malattie infettive le ha praticamente eliminate. I vecchi continuano a vivere, i giovani non muoiono. Le migliori guerre non riescono neppure a soddisfare la quota di mortalità. C’era un’epoca in cui un esercito, in un anno, tagliava in due un popolo. La fame, il tifo, la peste, la tubercolosi erano armi sicure. Lo sgraffio della punta di una lancia significava infezione e morte. Lo sapete qual è la percentuale delle morti per ferite sul campo, oggi? L’uno per cento. Cent’anni fa era l’80%. La popolazione aumenta e diminuisce la produttività della terra. In un futuro prevedibile saremo soffocati dalla massa degli uomini. Solo il controllo delle nascite potrebbe salvarci, però è una cosa che l’umanità non metterà mai in pratica. “Fratello!” disse il Patròn. “Ma come mai tutto ciò la rende tanto allegro?” “E’ uno scherzo cosmico. La preoccupazione per la sopravvivenza ha preparato la scena per l’estinzione” – rispose Old Jay.

E’ quantomeno curioso come le parole di Steinbeck siano attuali 70 anni dopo e forniscano ancora oggi spunto per innumerevoli riflessioni. I predatori, il clima, le guerre, le malattie infettive vengono trattati cinicamente, quali necessari strumenti di controllo demografico. Il modo in cui l’uomo ha costruito e vissuto il progresso -per puro istinto di conservazione prima e di espansionismo poi- potrebbe aver contribuito a superare la soglia oltre cui campeggia a caratteri cubitali la sua stessa fine.

In poche righe sfilano i temi di maggiore attualità del nostro assurdo presente, e il futuro in cui l’uomo soffocherà se stesso è definito prevedibile. In effetti nel 2022 la sovrappopolazione mondiale ha raggiunto numeri impensabili, il clima è in una fase di stravolgimento tale da far intuire che solo le specie dotate della più innata versatilità e adattabilità riusciranno a sopravvivere, il virus di origine tuttora dubbia imperversa a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta, e la guerra c’è stata sempre, ma in molti se ne sono accorti soltanto dopo che le sue spire hanno sfiorato i sacrosanti confini europei.

Dall’elenco di Steinbeck rimarrebbe fuori soltanto il predatore, e si potrebbe ricorrere al Covid quale “naturale” vendicatore invisibile, ma non ce n’è bisogno: l’uomo è stato abilissimo ad epurare o confinare i suoi predatori storici, ed ora non deve temere che se stesso, il più avido, stupido e pericoloso fra gli esseri viventi sulla faccia della terra.

Tutto ciò conserva una certa ironia, e il dialogo dei ragazzi di Cannery row termina nell’unico modo possibile, con una battuta e una bottiglia di whiskey da rimediare in fretta.

“Quando si mangia?” chiese Old Jingleballicks. “Il io pranzo te lo sei mangiato tu” rispose Doc. “ho una buona idea” disse Old Jay. “Mentre tu pensi a far da mangiare, William and Mary può andare a prendere un’altra bottiglia di whiskey, e io preparo gli scacchi.” “Si chiama Josè Maria, non William and Mary.” “Chi è? Ah! Amico mio, le insegnerò il più grande dei giochi, la creazione eterea dell’intelligenza umana!”

1939’s Glenn Miller Dream – Moonlight serenade

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I stand at your gate and the song that I sing is of moonlight.
I stand and I wait for the touch of your hand in the June night.
The roses are sighing a moonlight serenade.

Musica di Glenn Miller. Parole di Mitchell Parish.

 

Tasting roads

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“I’m a connoisseur of roads. I’ve been tasting roads my whole life. This road will never end. It probably goes all around the world”.

River Phoenix in "My own Private Idaho" (Gus Van Sant - 1991)

River Phoenix in “My own Private Idaho” (Gus Van Sant – 1991)

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