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Infinitamente Zia Gina

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

​​​​​Utilizzo questo spazio alla deriva ma intimo per ricordare mio zio. E’ un luogo ispirato a lui e ai suoi microcosmi ludici, alla sua voglia di giocare e curiosare, di non essere mai contento in fondo. Zio Gino era un genio, un pazzo furioso, un artista totale, un uomo meraviglioso. Era un visionario, un sognatore indomito, un santo bevitore, un compagno di giochi, un saltimbanco, un oste d’altri tempi, un impudente latin lover, un immenso amico, un gran baciatore in bocca, un cantastorie, un principe del convivio, un intrattenitore totale.

Era un personaggio leggendario, infinito, un uomo difficile, burbero e scontroso ma anche gentile e delicato, un poeta raffinato e sensibile, un uomo libero, libero di essere quel che voleva essere, anche solo per dispetto, anche solo per irridere con una giravolta i pregiudizi dell’uomo comune. Come ho appena scritto a mio cugino Tommaso, suo figlio, lui non ha mai fatto finta di essere quello che non è, un atto eroico in questo mondo di finzione.

Mi ricordo una delle sue prime mostre, forse 30 anni fa, lungo le mura di Morro d’Alba. Una specie d’uomo nero usciva dalla tela a sfondo giallo. Ero poco più di un bambino ma le sue opere mi impressionarono e mi entrarono dentro senza più uscire. Forse è proprio l’uomo nero ad essermi entrato dentro, quel demone dell’arte che per anni mi ha fatto credere di poter tradurre in lettere quel che lui dipingeva. Non era questo. Era di più. Io sentivo le sue opere come fossero parte di me, erano anche i miei sogni e i miei incubi quelli che lui mi mostrava. Zio Gino è entrato in luoghi inaccessibili ai più, ha aperto una porta che introduce al suo mondo immaginario, che però è l’immaginario di tanti, che però poi è anche parte del percepito, è parte e retrobottega di tutto quanto resista a cavallo fra la realtà e i sogni.

“Noi due siamo identici Simo!” mi diceva alla fine di certe serate abbracciandomi e baciandomi in bocca. Aveva una sensibilità inaudita e in me aveva forse percepito frammenti delle sue stesse debolezze, delle sue stesse paure. Mi ha aiutato in momenti difficili. Ha fatto sentire a casa me e la mia ragazza, i miei amici e chiunque portassi lassù. Qualcuno forse lo ha pure cacciato.

Una mia grande amica mi ha scritto ieri sera: “Me lo ricorderò sempre un abbraccio tra Voi due al Tamburo Battente, alla fine di una spensierata cena fra Amici. C’ero anch’io per fortuna. Come una fotografia”.

Ho passato la vita ad andare a trovare zio Gino ovunque si spostasse da un versante all’altro della campagna marchigiana, a cercare di capire e interpretare con calma i suoi quadri, che lui mi illustrava con vino e pazienza, con quel suo sguardo sornione e profondo. Era fissato con la luna le mani i sassofonisti i trombettisti gli oboisti i ciclisti i motociclisti e i piloti morti di morte violenta.

Zia Gina

E’ stato un punto di riferimento essenziale per me, le sue osterie erano luoghi di fuga, dimore prive di tempo, castelli diroccati dell’esistenza, luoghi di culto e piacere e parole confuse e sovrapposte fino a notte fonda. Lui sapeva riempire di sé quegli spazi, sapeva ricreare e rigenerare se stesso in ogni sua nuova collocazione, e quegli spazi erano vivi e pieni di Zio Gino.

Mio zio Gino era una poesia beat, e per quanto si definisse pigro, è stato sempre mosso da una profonda inquietudine creativa priva di punteggiatura, da una voglia di manipolare gli elementi e i colori e di piegarli ai propri scopi, di rappresentare le fantasie del bambino curioso che conservava dentro di sé.

Ha lasciato tracce di sé ovunque, tracce importanti, mai banali. Tracce indelebili di una vita vissuta senza risparmiarsi, senza esitare, senza mezze misure, senza cautela o prudenza alcune.

Sei stato il mio eroe, mi volevi bene senza tentennamenti e io ti chiamavo Zia perché ti piaceva troppo giocare a interpretare il ruolo della vecchia zia. Mi mancherai in un modo che non riesco a dire e cerco di immaginarti in questa canzone di Lou Reed, intento a tratteggiare nel tuo universo creativo questa ragazza dagli occhi blu, a liberare l’estro e sublimarne ogni sfumatura fino a trasferirla sull’ennesima, magnifica tela.

https://www.youtube.com/watch?v=KisHhIRihMY

Non ho la consolazione di chi ipotizza mondi paralleli, ma non riesco a non immaginarti a bordo di una Austin Healy cabrio verde scoperta anche quando fuori piove cogli occhiali scuri e i capelli al vento e tele appoggiate dietro alla rinfusa come le idee a sgommare via verso i mille tornanti delle campagne e della memoria “a sud di nessun nord per parlare con la luna”. Con quella risata eccezionale e piena e altisonante a riecheggiare in lontananza.

Un giorno riderò come te, lo so.

Ti amo Zia. Ti amerò sempre per sempre col cuore che picchia in petto come un tamburo battente

Blade runner 2049 – Holographic dreams

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Fermo Immagine

FERMO IMMAGINE d’OSTERIA

Ana de Armas e Ryan Gosling - Blade runner 2049

Il sogno romantico di Joi e K

Blade runner 2049 – La vita è sogno

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Titoli di testa

TITOLI DI TESTA

“L’umanità non può sopravvivere. I replicanti sono il futuro della specie. Ma non posso crearne di più”.

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L’agente speciale K (il rimando a Josef K, il protagonista de “Il processo” di Kafka è fin troppo evidente) è il cacciatore incaricato di ritirare vecchi modelli dissidenti. Modello Nexus 9, K è un replicante di ultima generazione dotato di maggior disciplina e obbedienza rispetto ai precedenti.

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Lo sguardo profondo ed esteso sul futuro di Villeneuve regala un universo ipnotico, claustrofobico, senza via d’uscita. I tempi flemmatici del montaggio si traducono in scene lunghissime e penetranti, incessantemente avide di dettagli. L’aspetto ambientale pesa nella realizzazione dei set (costruiti interamente a mano, senza alcun supporto digitale): a causa del collasso irreversibile dell’ecosistema, il pianeta è inospitale, il clima freddo, la vegetazione pressoché scomparsa sotto piogge acide battenti, mentre gli oceani sono arginati da enormi dighe che segnano i confini delle città.

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Questo 2049 è anche il prodotto di un black out di proporzioni immani, che ha segnato la fine dell’era digitale e il ritorno all’analogico: il passato non è più tracciabile, ogni dato è andato perduto e il protagonista si muove e indaga come un detective rétro in cerca di indizi tangibili, così come avviene all’inizio del film: in una fattoria immersa nelle dilaganti distese di colture sintetiche, l’agente K rinviene un replicante in incognito e un segreto che potrebbe rivoluzionare il rapporto fra esseri umani e lavori in pelle.

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La Los Angeles distopica di Villeneuve è più cupa di quella di Scott: una metropoli in procinto di collassare su se stessa come una delle città invisibili di Calvino, un agglomerato urbano tentacolare e soffocante, infinito e privo di logica, in cui moltitudini di individui solitari si mescolano nel caos. Esseri umani e artificiali perdono i loro tratti distintivi. Quella in cui si muove l’agente K è una città senza speranza.

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Neander Wallace è il folle dio della robotica che ha rilevato la Tyrell Corporation e concepito l’ultima generazione di replicanti. Wallace è ossessionato dall’utopia di perfezionare le sue creature fino a raggiungere l’inconcepibile. Il suo è un potere ultraterreno, la sua forza ineluttabile, il suo sguardo onnivoro controlla ogni cosa anche attraverso Luv, il suo factotum sintetico. La coppia si muove in un mondo a se stante, un dedalo percorso da superfici levigate e geometriche, una sequenza ammaliante di ambienti fluidi e ambrati, pervasi da un chiaroscuro intermittente che produce giochi di luce ed ombra sulle silhouette di Luv e Neander: i due emergono oniricamente da quelle scenografie con cui poi tornano a fondersi e confondersi.

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L’azione di Blade runner 2049, rispetto al film del 1982, non rimane “intrappolata” nella fitta e intricata rete di L.A., ma si sposta negli spazi aperti e desolati della California: attraverso i tragitti aerei di K osserviamo la successione infinita di serre destinate alla coltivazione; le mastodontiche discariche digitali di San Diego, dimora di reietti e orde di bimbi ridotti in schiavitù; le rovine di una Los Angeles post-apocalittica, in cui la fotografia di Roger Deakins raggiunge il suo apice espressivo: fra statue spettrali e monumenti titanici al collasso, le tonalità giallo-oro dell’ocra delineano atmosfere rarefatte e sulfuree.

Il sogno di K prosegue in Filmosteria

Il libero pensiero di Steinbeck contro Moloch

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Si accende a volte, nell’uomo, una sorte di eccitazione.

Succede a quasi tutti. La senti crescere e prepararsi come una miccia che brucia avvicinandosi alla dinamite.

Allora quell’uomo trabocca nel mondo esterno, come un torrente in piena, inesauribile. 

La madre di ogni creatività, che rende ciascun uomo speciale rispetto a tutti gli altri.

Non so cosa accadrà nei prossimi anni. Nel mondo si susseguono cambiamenti mostruosi, forze che modellano un futuro di cui non conosciamo il volto. Quando tutti i nostri alimenti, abiti e alloggi saranno fabbricati in serie, la massificazione finirà inevitabilmente per entrare nelle nostre menti ed eliminare ogni altra forma di pensiero. 

 Il mondo è percorso da tensioni estreme, prossime al punto di rottura, e gli uomini sono infelici e confusi. In un’epoca simile mi sembra cosa giusta e naturale pormi queste domande: in che cosa credo? Per cosa devo combattere? Contro cosa devo lottare?

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La nostra è l’unica specie dotata di creatività, e tale creatività ha un solo strumento: la mente e lo spirito individuale. Niente è mai stato creato da due uomini insieme. 

L’essenza più preziosa è la solitudine della mente di un uomo. 

E adesso le forze irreggimentate attorno al concetto di gruppo hanno dichiarato una guerra di sterminio contro quell’essenza preziosa che è la mente dell’uomo. Denigrata, ridotta alla fame, repressa, costretta in una direzione forzata, sottoposta ai colpi di maglio del condizionamento, la mente libera ed errabonda viene perseguitata, imbrigliata, menomata, drogata. E’ un triste percorso suicida, quello che la nostra specie sembra aver imboccato.

E questo credo: che la mente del singolo individuo, libera di esplorare ovunque, è la cosa più preziosa del mondo. 

E per questo sono pronto a battermi: per la libertà dell’intelletto di imboccare qualsiasi direzione desideri, senza dettami. E contro questo devo battermi: qualsiasi idea, religione, o governo che limiti o distrugga l’individuo. Questo è ciò che sono e ciò che voglio. 

Capisco bene perché uno schema costruito su uno schema ripetitivo tenti di annientare il libero pensiero: perché la mente indagatrice è la sola capace di distruggerlo. 

Il brano completo -tratto da “La valle dell’Eden”- tambureggia in Singolar Tenzone

Happy birthday, Mr. Nicholson.

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FERMO IMMAGINE

Jack Nicholson -Shining

Jack Nicholson (born April 22, 1937) on the “Shining” movie set

PASTORALE AMERICANA?

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Posted by osteriacinematografo in film, immagini, Roth Philip

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L'Oste deluso, Pensieri

L’OSTE DELUSO

“La figlia lo sbalza fuori dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”.

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E’ un esercizio per registi navigati tradurre in immagini il messaggio di un romanzo complesso come quello di Philip Roth, e la trasposizione cinematografica di Ewan Mcgregor è una delusione quasi annunciata.  Se poi la regia si rivela piatta e compassata e i momenti salienti della storia vengono stravolti od omessi, c’è da chiedersi il motivo di una tale ambizione all’esordio.

La discesa all’inferno di Levov lo svedese viene affrontata senza coraggio o mordente, e non c’è nulla della grande illusione narrata da Roth, di quel senso di inadeguatezza che l’uomo affronta quotidianamente a livello sociale e comunicativo: lo sforzo che ognuno produce per fare in modo che le cose vadano per il verso giusto, per mantenere un livello adeguato alle proprie aspirazioni, al fine d’essere un eroe senza macchia, un esempio positivo e una guida sicura, la consapevolezza dell’errore come fondamento della vita stessa, il disperato e spesso vano tentativo di educare e proteggere i propri figli, sono tutti elementi che latitano nel film.

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McGregor azzera il livello di pathos del romanzo e dipinge personaggi in modo troppo canonico, senza considerarne la portata: i protagonisti del capolavoro di Roth sono modelli  che rappresentano il crollo di uno stile di vita, il tramonto di una società costruita sulle basi approssimative di un abbaglio colossale, di un gigante che collasserà sotto il suo stesso peso. La provincia americana e i tipi umani che la popolano vengono dipinti in modo convenzionale e senza la necessaria spinta emotiva, e il prodotto finale è un’opera banale e noiosa, che nemmeno prova ad aspirare al livello consono a un tale lavoro.

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Alcuni eventi fondamentali vengono tralasciati o ribaltati, le citazioni essenziali vengono ignorate, e così persino il senso del titolo rimane ignoto, poichè McGregor non si sporca le mani e non si addentra “nel terreno neutrale e sconsacrato della festa del Ringraziamento” in cui “un tacchino colossale” -che sazia duecentocinquanta milioni di persone- rappresenta simbolicamente “una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose, una moratoria sulla nostalgia trimillenaria degli ebrei, una moratoria su Cristo e la croce e la crocifissione per i cristiani … una moratoria su ogni doglianza e su ogni risentimento … per tutti coloro che, in America, diffidano uno dell’altro. È la pastorale americana per eccellenza e dura ventiquattr’ore“; e non c’è traccia del bacio fra padre e figlia, che sarà poi uno dei motivi del profondo tormento del genitore, tanto che sarebbe stato preferibile tagliare per intero la scena anzichè fornirne una versione contraffatta.

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Ma è il finale a demolire definitivamente il filo conduttore fra romanzo e libro: mentre nel primo non c’è spazio alcuno per la speranza o modo di recuperare, per i soggetti coinvolti e per una società intera, con l’aggiunta di un gesto violento ed estremo a sancirne l’irrevocabile autodistruzione, nel film troviamo una scena completamente inventata, inaccettabile perchè rovescia il senso stesso della storia fino a ribaltarne il significato, creando una speranza, aprendo uno spiraglio alla tragedia che invece dilaga, tentando di commuovere lo spettatore invece di prendere atto del dramma in essere ed accettarlo in quanto tale, un tentativo goffo che sancisce un fatto molto semplice: Mcgregor non ha afferrato il messaggio del capolavoro di Roth, non ne ha tradotto il senso o ha preferito non farlo; ha semplicemente raccontato un’altra storia, peraltro affatto interessante, che si poteva risparmiare.

Si tu vois ma mère / Midnight in Paris – E il tempo perde consistenza

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Cronache e Storie d'Osteria, Soundtrack

Cronache e Storie d’Osteria

 

RadiOsteria consiglia “Si tu vois ma mère”, pezzo composto dal jazzista americano Sidney Bechet negli anni trascorsi in Francia.

Sidney Bechet (1897-1959)

Sidney Bechet (1897-1959)

Bechet, nato nel 1897 a New Orleans, rivelò fin dall’infanzia un talento naturale per la musica; maestro nell’improvvisazione, non imparò mai a leggere la musica per sua scelta. Esordì come clarinettista e vi si dedicò fino al 1919, anno in cui notò un sax soprano in una vetrina londinese. Divenne un eccelso sassofonista e suonò coi più grandi musicisti dell’epoca in ogni angolo del mondo. Nel 1949 si trasferì in Francia, dove morì dieci anni dopo.

Nel 2011, Woody Allen -regista ma anche compositore e grande conoscitore di musica jazz- ha inserito “Si tu vois ma mère” nella colonna sonora di “Midnight in Paris”, film in cui si rimescolano sogni, costumi e personaggi di  epoche diverse in quell’affresco dei sensi che Parigi raffigura. Il presente e gli anni 20 calzano entrambi a pennello a una città che sa ammaliare e confondere persino sua maestà il tempo. 

Marion Cotillard ed Owen wilson in una scena di "Midnight in Paris".

Marion Cotillard ed Owen Wilson in una scena di “Midnight in Paris”.

Il brano di Sidney Bechet apre il film di Woody Allen, accompagnando con garbo trasognato il carosello di immagini che introduce “Midnight in Paris”. E quel senso di inadeguatezza al proprio tempo, tipico peraltro dei frequentatori d’Osteria, vola via leggero e perde consistenza, tra un bicchiere e l’altro.

Buona visione, e buon ascolto.

The Visit – The grandpa diaper Project

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L'Oste deluso

L’oste Allibito

 

Due fratelli più o meno adolescenti -la maggiore Rebecca e il piccolo insopportabile Tyler- decidono di andare nella campagna della Pennsylvania  a conoscere i nonni materni. 

The visit

Non sanno nulla di loro, non li hanno mai visti in foto o sentiti al telefono, e la madre non ha raccontato nulla dei genitori eccezion fatta per il modo brusco e misterioso in cui –tanti anni prima- è scappata di casa per andare a vivere con un uomo molto più grande di lei. I nonni insistono per vedere i nipoti, probabilmente grazie a una sorta di comunicazione telepatica, e i nipoti acconsentono. Nel frattempo la mamma dei ragazzini ne approfitta per andare a spassarsela in una crociera, fra un festival del petto villoso e balli di gruppo con obesi mangiatutto.

The visit

Le premesse sono ottime e credibili. La messinscena non è da meno. Il film viene raccontato dai fratellini Jamison grazie al supporto di due godibilissime camere a mano, che produrranno infine una nausea diffusa in luogo del panico cui si mirava. Pronti via, i fratellini arrivano a destinazione, e mentre la nonna cammina e vomita e sbraita nuda per casa ogni notte, il nonno fa collezione di pannoloni usati. La nonna ride a squarciagola contro un muro mentre il nonno si maschera ogni cinque minuti per andare a una festa che non c’è. La nonna prepara torte a ripetizione e insiste che la nipote entri per intero nel forno, mentre il nonno medita con la canna del fucile in bocca. La cantina nasconde chissà quale segreto, il pozzo misterioso contiene acqua, fango e cattivi ricordi, la nonna corre a quattro zampe coi capelli sul volto, qualcuno si impicca o viene impiccato, e il montaggio propone una sequela di primi piani improvvisi, tanto innovativi quanto terrificanti.  Una collezione di clichè dell’horror di ultima generazione si susseguono senza soluzione di continuità.

The visit

Dopo giorni di follie di varia natura, i fratelli iniziano ad avere il vaghissimo e illuminato sospetto che forse i nonni siano un tantino fuori di testa:  “ma dai forse sono soltanto vecchi, e si e no, noi continuiamo a fare il nostro film e a rappare allegramente, ma che importa se la nonna è tutta nuda con un coltello di venti centimetri dietro la porta della nostra cameretta, ma si dai in qualche modo faremo, tutto si risolve, intanto intervistiamoli così il nostro film sarà un capolavoro di neo-neo-neorealismo” . Finchè ogni evento diviene a tal punto incredibile che in sala si inizia a sorridere e a pensare che prima o poi il punto di vista dello spettatore verrà ribaltato dal migliore dei colpi di scena, e invece no, si procede su questa falsariga tragicomica fino alla fine del più banale e insensato dei film. Dopo alcune discussioni d’Osteria, si è concluso che il regista M. Night Shyamalan sia indubbiamente affetto da una demenza precoce di un certo livello e che vada fermato prima di produrre danni ulteriori alla propria dignità e all’amor proprio del pubblico pagante.

 

Man on the moon – Milos Forman

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

 

Il film “Man on the moon” (1999) di Milos Forman racconta la storia dello showman Andy Kaufman (1949-1984) in modo calzante e poetico.

Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in "Man on the moon"

Jim Carrey interpreta Andy Kaufman in “Man on the moon”

L’enigma della vita di Kaufman diventa enigma nella regia di Forman, che tiene il film sospeso fra riproduzione della realtà e rappresentazione fittizia come il migliore dei prestigiatori, come Kaufman stesso avrebbe forse desiderato:  il gioco di specchi realizzato dal genio di Forman restituisce immagini inafferrabili di Kaufman e dei personaggi che lo affiancarono, tanto che persino la sua morte diventa un fatto opinabile. Un film da non perdere, un personaggio indimenticabile.

"Man on the moon" è un film del 1999 di Milos Forman

“Man on the moon” è un film del 1999 di Milos Forman

La Storia di Andy Kaufman Impazza Oltre “Il Precipizio”, Strapiombo d’Osteria.

 

Man on the moon – R.E.M.

26 giovedì Nov 2015

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Sorgente: Man on the moon – R.E.M.

Man on the moon – R.E.M.

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Michael Stipe - Cantautore statunitense

Michael Stipe

Michael Stipe dedicò “Man on the moon” a Kaufman nel 1992, combinando la stima che nutriva verso un artista rivoluzionario e l’annosa polemica sulla teoria del complotto lunare (“Great moon hoax”);  Stipe aveva visto in Kaufman un uomo capace di svelare senza paura i trucchi e gli assi nella manica dei “maghi” che dominano i media e l’informazione, e scrisse per lui un brano memorabile, degno di un uomo che ha lasciato il suo segno particolare sulla tabula rasa che scaturisce dall’omologazione.

Consegno quindi alle note di “Man on the moon” il ricordo di un personaggio eccezionale, che ha lasciato precocemente il palco della vita. Ma la sua impronta rimane, e il messaggio che ha lasciato è forte e chiaro, anche a distanza di anni.

 

Capricorno one (1978) è un film di Peter Hyams

Capricorno one (1978) è un film di Peter Hyams

Now, Andy did you hear about this one

Tell me, are you locked in the punch?

Andy are you goofing on Elvis? Hey, baby

Are we losing touch

If you believed they put a man on the moon, man on the moon

If you believe there’s nothing up his sleeve, then nothing is cool

Leggi La Storia di Andy Kaufman

Andy Kaufman – Man on the moon

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

All’inizio degli anni 70 uno stravagante showman di nome Andy Kaufman (1949-1984) riscosse un notevole successo negli Stati Uniti, prima come improvvisatore in brevi apparizioni live e poi come mattatore in televisione.

Andy Kaufman

Andy Kaufman

Andy non era un comico in senso proprio -anzi  forse non lo era affatto-  ma un artista sui generis e un personaggio indecifrabile, che rivoluzionò il modo di fare spettacolo dell’epoca.

Kaufman spiazzava il pubblico con interpretazioni assurde e prive di senso: agli esordi si presentò sui palcoscenici di piccoli club come uno straniero timido e impacciato proveniente da Caspiar – un’isola affondata nel Mar Caspio-  imitando vari personaggi noti con la stessa irritante impostazione vocale, per poi esplodere in imitazioni folgoranti e imprevedibili, come quella di Elvis Presley.

Kaufman,  una volta scoperto e lanciato in tv dal noto talent scout George Shapiro,  si dimostrò talentuoso ma ingestibile:  ebbe il merito di collezionare una serie di performance innovative, ma creò il panico fra autori e produttori.

Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton

Andy Kaufman nei panni di Tony Clifton

Io lo definirei un provocatore nel senso artistico del termine, un prestigiatore in grado di alterare e spiazzare l’occhio di spettatori abituati a una tv convenzionale.  Andy Kaufman mirava in effetti  a smascherare certi subdoli meccanismi televisivi, finalizzati a mostrare una realtà distorta, intrisa di retorica e falsi buonismi. In un contesto mediatico diretto a compiacere moltitudini di spettatori anestetizzati e a costruire un consenso condiviso in assenza di contraddittorio, Kaufman è la mina vagante che svela l’ipnosi, la variabile impazzita capace di scuotere i dormienti dal torpore.

Scopri le perle di Kaufman

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