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Cave of the forgotten dreams – Quegli uomini siamo sempre noi o abbiamo smarrito noi stessi?

19 martedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in film, Herzog, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

“Inventando la raffigurazione di animali, uomini, cose” -racconta Werner Herzog con voce profonda e suadente- “nasce una forma di comunicazione tra gli umani e il futuro, evocando il passato, trasmettendo informazioni in forme superiori al linguaggio, alla comunicazione generale. E la stessa invenzione esiste oggi, nel nostro mondo, ad esempio con questa videocamera.”

Chi ha avuto, come Herzog e un ristretto staff di scienziati, il privilegio di entrare nelle grotte Chauvet, descrive l’esperienza come un forte trauma emotivo, uno shock primordiale, acuito dalla sensazione di sentirsi osservati dagli spiriti di uomini che scrutiamo attraverso le voragini del tempo, uomini scevri dalle maglie della storia che invece intrappolano irrimediabilmente l’uomo d’oggi. Il silenzio della grotta e le opere di eccellente fattura, risalenti anche a 32 mila anni fa, comunicano più di qualsiasi linguaggio il segreto del tempo e dell’evoluzione umana.

Cave of forgotten dreams

Quella grotta, che non era una casa per gli uomini, ma un luogo d’arte e di culto, si rivela una sorta di mostra dei sogni perduti, che ha resistito ai crolli della rupe che ne hanno ostruito il passaggio ma non l’intima essenza, che è divenuta eterna e imperforabile teca, finchè un alito di vento ha suggerito a Chauvet di risalire la china di un percorso forse tracciato dall’uomo per se stesso, per ricondursi a sè, per coincidere ancora con il centro, puro e adamantino, della sua natura, una natura calpestata e rinchiusa nei contenitori oblianti dell’eternità, nascosta sotto i sedimenti millenari dei nostri stessi artifici, delle nostre strutture infestanti.

Coccodrillo albino

Nel finale del film, Herzog immortala alcuni rettili che vivono in un ambiente tropicale ricreato a pochi chilometri dal sito archeologico – laddove un tempo un ghiacciaio spesso 2.500 metri dominava il paesaggio-  “grazie” ai fumi residui di una centrale atomica che insiste nei dintorni. Il regista tedesco si sofferma in particolar modo sui coccodrilli albini, nati in questo ambiente fondamentalmente tossico, e quindi adattati ad esso. “Nulla è reale, nulla è certo. Non è semplice capire se queste creature si stiano trasformando nel loro stesso alter ego. E poi, si incontrano? Oppure non è altro che un riflesso speculare immaginario? È possibile che noi, oggi, siamo i coccodrilli che scrutano un abisso temporale, quando osserviamo le pitture della grotta Chauvet?“.

Queste parole di Herzog mi turbano dalle profondità della notte scorsa e di quella grotta di sogni perduti, quasi che le due dimensioni in qualche modo convergano, come tutto il tempo coincide con un solo infinitesimale istante, grazie alle tracce e ai segni che quegli uomini ingegnosi hanno disseminato per tramandare l’essere umano.

In quella grotta riposa un sogno lungo 32 mila anni, un sogno che scorre dentro ciascuno di noi.

Le tre cose della domenica – “Ossido di carbonio”, “Smoking runner”, “A tutto gas”.

18 lunedì Mag 2015

Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

Le tre cose della domenica mi riportano a una mattina romana, quando o dove il mio caro amico Faust mi parlò per l’appunto delle sue tre cose della domenica. Il concetto mi piacque molto all’epoca e lo riprendo ora per intitolare questo mio pensiero.

Ieri era a domenica anche qui a Jesi, la mia città. Era la domenica di “Bicincittà”. Tutti in bici. La zona fra i giardini pubblici e lo stadio comunale era pedonalizzata, addobbata a festa e popolata da centinaia di bambini. Tante iniziative e una bella festa per tutti. Ma non è questo il punto.

Ieri mattina sono andato a correre, come mi capita spesso di fare. Attraverso di corsa la zona pedonalizzata. Magnifico -penso- dovrebbe essere sempre così. Ma proseguo di poche decine di metri, neanche il tempo che quel mio pensiero si sia fuso con gli altri mille che si accavallano allegramente nella testa di chi corre, e mi ritrovo immerso nei gas di scarico.

Cosa numero 1:

di colpo sembrava quasi che la manifestazione fosse “Auto in città”, tante erano le macchine che intrecciavano i loro percorsi. Non capivo e non capisco tuttora dove andassero tutti in macchina in quella bella giornata di sole. Un vero spreco e una dannazione per me, costretto a mascherarmi con una fascia da bandito per respirare meno ossido di carbonio possibile. Forse, ho pensato, arrivano in macchina fin dietro i giardini, tirano fuori le bici e sfilano per dare l’illusione di aver percorso sulle due ruote ben 500 metri. Oppure -penso- boh!

Cosa numero 2:

continuo a correre, sono entrato in un loop immaginario che percorro abitualmente, un anello di 4,4 km. Sono all’inizio del primo giro, quando, fra le persone che incrocio, una mi incuriosisce particolarmente. E’ un ragazzo sulla quarantina (si perchè mentre una volta a 40 anni si era vecchi, oggigiorno alla stessa età si è ancora giovani): è in tenuta ginnica, ma cammina e fuma una sigaretta. Ho pensato: gente strana, davvero. O forse è un’illusione ottica, forse sono già stanco. Ma il pensiero vola via, e proseguo, finisco il secondo giro, e, a metà del terzo, incontro di nuovo quel ragazzo. Il sole inizia a battere forte, e lui adesso corre, respirando con un certo affanno. E il boh che è dentro di me inizia a veleggiare verso il cielo.

Cosa numero 3:

sempre durante il mio percorso mattutino, in un momento collocabile fra il primo e il secondo incontro con lo smoking runner, passo vicino a due automobili parcheggiate una dietro l’altra, a bordo strada. Entrambe hanno il motore acceso, e si scaldano al sole. La prima è vuota. Due portiere aperte, al suo fianco quattro persone estremamente sovrappeso mangiano dei panini e discutono. Il sudore imperla la fronte di uno dei quattro, e subito penso al Barone Arkonnen e alle sue magnifiche pustole. Nella seconda macchina, parcheggiata subito dietro la prima, c’è un uomo al posto di guida. Fuma una sigaretta e legge il giornale, con il finestrino quasi chiuso, m non del tutto, giusto per aspirare anche buone dosi del gas di scarico che gli sparano innanzi. A quel punto un alto cirro che si leva dritto davanti a me assume indiscutibilmente la forma di Grande Boh.

Cirrus sky

La sera prima mi ero trovato a riflettere sui meccanismi che inducono l’uomo -almeno apparentemente- all’autodistruzione. Forse la scintilla che ha permesso all’uomo di evolversi in modo inaspettato non è stata un bene, a conti fatti. Forse è una malattia, un agente patogeno, un virus. Forse è la prova che stiamo miseramente fallendo, che la nostra crisi d’identità è profonda quanto la tana del Bianconiglio.

La sera prima ero assalito da ogni sorta di dubbio.Ma poche ore dopo, ieri mattina appunto, quegli strani fatterelli hanno confermato i miei sospetti e fugato ogni dubbio: l’uomo si è davvero fottuto il cervello.

“L’uomo è l’unica creatura che rifiuti d’essere ciò che è”

20 lunedì Apr 2015

Posted by osteriacinematografo in film, immagini, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole

La guerra è un concetto che mi ossessiona. Giorni fa ho ripreso visione di “Master & Commander”, un film di Peter Weir del 2003: trattasi di un’avventura immaginaria nei mari del sud agli albori del 19esimo secolo. Il Comandante inglese Aubrey rincorre il nemico francese a bordo di una fregata, oltre i limiti geografici che la missione e la corona gli impongono, oltre i propri doveri militari, oltre ogni logica, oltre il peso imposto dalla tutela degli uomini di cui è responsabile. Il gioco della guerra spinge l’uomo oltre tutti questi limiti.

MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.Nel film deflagra -oltre l’epico duello in mare fra bastimenti- lo scontro morale e dialettico fra il comandante e il medico di bordo, Maturin, suo caro amico e naturalista appassionato. I loro punti di vista sono opposti: il primo è un predatore in senso stretto, e vive alla ricerca di una preda, o meglio di un (valido) antagonista con cui confrontarsi in mare aperto; egli brama un nemico per respirare, lo desidera come fosse la vita stessa.
MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.Maturin invece è uno scienziato, un esploratore, un uomo che vive per la conoscenza, che si nutre di curiosità, che “caccia” la diversità che in Natura dilaga. Non è un caso che la sceneggiatura conduca la fregata inglese dal Brasile alle Galapagos, dopo aver doppiato la furente Capo Horn: l’arcipelago del Pacifico è infatti il simbolo dell’evoluzionismo sancito da Charles Darwin pochi anni dopo le vicende narrate del film, e Maturin è in effetti una sorta di Darwin ante litteram, per quanto affondi le sue ipotesi sull’opera di dio e non invece sull’evoluzione delle specie animali e vegetali per selezione naturale.

MASTER AND COMMANDER: THE FAR SIDE OF THE WORLD, 2003.

I due amici condividono la passione per la musica e intrecciano i propri strumenti ogni sera, ma non riescono a toccarsi fin nel profondo, a comprendere ognuno cosa muova l’altro, intimamente.

Essi vivono

Essi vivono (e  quando scrivo “Essi vivono” non riesco a non pensare al cinema degli anni 87 e 88, a cartoni ricolmi di occhiali da sole neri e quindi a John Carpenter) -dicevo- essi vivono sulla base di criteri opposti, ma all’apice del dramma giungono a comprendersi reciprocamente, e persino a capire e carpire qualcosa dell’altro: Aubrey trarrà spunto dall’arte di camuffarsi di un insetto per impostare una strategia offensiva, mentre Maturin parteciperà attivamente all’arrembaggio finale.

Essi vivono (non resisto e non posso tralasciare che quando scrivo “Essi vivono” non riesco a non pensare al cinema degli anni 87 e 88, a cartoni ricolmi di occhiali da sole neri e quindi a John Carpenter) -dicevo- essi vivono sulla base di criteri opposti, ma all'apice del dramma giungono a comprendersi reciprocamente, e persino a capire e carpire qualcosa dell'altro: Aubrey trarrà spunto dall'arte di camuffarsi di un insetto per impostare una strategia offensiva, mentre Maturin parteciperà attivamente all'arrembaggio finale.Se riflettiamo un solo istante sulla follia che la guerra comporta, sullo spreco di tempo, risorse, energie utilizzati per giocare alla guerra, per escogitare marchingegni e strategie di morte, per porre in essere missioni, operazioni, equipaggi ed equipaggiamenti, possiamo comprendere con un discreto margine di approssimazione il retaggio di barbarie e stupidità che il genere umano eredita vita natural durante dalla sua stessa natura.

Galapagos

L’uomo a un certo punto della sua storia evolve in modo imprevedibile, un modo che non gli consente più di vedere la bellezza da cui è circondato; rifiuta di vivere in armonia con la Natura, ma anzi la rigetta e sfrutta e calpesta senza indugio, finchè il disamore e la mancanza di devozione nei confronti dell’ecosistema che gli ha offerto l’opportunità di essere divengono fattori genetici: l’uomo, il piccolo e misero uomo non “sente” più il legame indissolubile fra sé e la vita tutto attorno a sé, fino a smarrire il senso della sua stessa specie; si illude di essere il padrone del mondo che abita, e divide, distrugge, deturpa, si moltiplica a dismisura e diviene virale e pone confini che esistono solo nella sua mente, e inventa guerre per proteggere quei confini od estenderli a discapito di altri, per sfruttare selvaggiamente ogni risorsa disponibile, coinvolgendo nelle sue devastazioni tutto ciò che vive, alterando equilibri primordiali, senza giustificazioni di sorta.

L'isola dei rifiuti

Mi chiedo ogni giorno come ciò sia potuto accadere. Avidità e idiozia guidano i comportamenti umani in modo non arginabile. Abbiamo tramutato l’Eden in un’enorme discarica, viviamo in mezzo ai gas e alle macerie di una società purulenta, e per il piacere di un istante siamo pronti a sacrificare tutto, anche il futuro di chi verrà dopo di noi.

Forse -come scrisse Camus- “l’uomo è l’unica creatura che rifiuti d’essere ciò che è”: e forse questa eterna ribellione contro la bellezza, contro il pianeta, contro se stesso definisce l’uomo, la sua indole, il suo percorso, il suo scontato epilogo.

Gunter uber alles

13 lunedì Apr 2015

Posted by osteriacinematografo in Grass, Gunter, Pensieri, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

Gunter Grass

Osteriacinematografo rende omaggio a Gunter Grass, padre di quel “Tamburo di latta” che sconquassò la vita dell’Oste tanto quanto gli acuti di Oskar Mazerath -leggendario treenne paranoide che impedì al proprio corpo di crescere- sconquassarono i vetri degli edifici di una Danzica sempre sognata. Che la Vistola ti porti, egregio Gunter.

McCarthy, gli Apache, la guerra, il gioco, la morale, l’assoluto storico.

10 martedì Feb 2015

Posted by osteriacinematografo in McCarthy Cormac, Pensieri

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Parole, Prima del volo, Titoli di testa

L’essenza della tenzone in Singolar Tenzone

Contesto spazio-temporale:

nel cuore nero e fiorente del 19esimo secolo, da qualche parte al confine fra Stati Uniti e Messico.

 

“Sotto i soli abbacinanti di quei giorni i cavalieri divennero sempre più sparuti e macilenti, e i loro occhi incavati e bruciati parevano quelli di nottambuli sorpresi dal giorno. Rannicchiati sotto il cappello, sembravano fuggitivi in un ordine più grande, come essere dei quali il sole fosse affamato”.

Arizona

 “La guerra perdura nel tempo. La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente.

La guerra racchiude in sé tutti gli altri mestieri.

Essa perdura perchè i giovani la amano e i vecchi la amano nei giovani. 

Gli uomini sono nati per giocare. Nient’altro. Tutti i bambini sanno che il gioco è più nobile del lavoro. Sanno anche che il valore o merito di un gioco non sta nel gioco stesso, ma piuttosto nel valore di ciò che è messo in gioco. I giochi d’azzardo richiedono una posta per avere un senso. I giochi sportivi coinvolgono l’abilità e la forza dei contendenti, e l’umiliazione della sconfitta e l’orgoglio della vittoria sono di per sé una posta sufficiente poiché pertengono al valore degli antagonisti e li definiscono.

Ma tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perchè in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto.

Supponiamo che due uomini giochino a carte non avendo da puntare niente se non la vita. Una carta viene girata. Per il giocatore l’intero universo si riversa fragorosamente in quell’istante, che gli dirà se gli tocca di morire per mano di quell’uomo o se toccherà a quell’uomo morire per mano sua.

 Spingere il gioco alla sua condizione estrema non ammette alcuna discussione concernente la nozione di fato.

 L’uomo che tiene in mano una particolare combinazione di carte è in forza di ciò rimosso dall’esistenza. Tale è la natura della guerra, in cui la posta in gioco è a un tempo il gioco stesso e l’autorità e la giustificazione.

Vista in questi termini, la guerra è la forma pi attendibile di divinazione. 

La guerra è il gioco per eccellenza perchè la guerra è in ultima analisi un’effrazione dell’unità dell’esistenza. La guerra è dio”.

Il duello

“La legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprimere il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale sia corretto o erroneo.

Di un uomo che cada morto in un duello non si penserà di conseguenza che abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista. Il suo stesso coinvolgimento in una prova del genere conferma l’esistenza di un punto di vista nuovo e più ampio.

La volontà dei protagonisti di tralasciare ulteriori dispute, considerandole futili come in effetti sono, e di appellarsi invece direttamente al tribunale dell’assoluto storico indica chiaramente di quale scarsa importanza siano le opinioni, e di quale grande importanza siano le divergenze al riguardo. 

Le decisioni sulla vita e sulla morte, su ciò che deve e che non deve essere, pongono in secondo piano qualunque questione di diritto. Dentro scelte di questa entità vengono sussunte tutte le scelte minori, morali, spirituali, naturali”.

Passo per il passo completo  di “Meridiano di sangue” di Cormack MacCarthy

 

 

Only lovers left alive

30 giovedì Ott 2014

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Only lovers left alive

Tom Hiddlestone e Tilda Swinton interpretano i vampiri Adam ed Eve nell’ultimo lavoro di Jim Jarmusch

Solo gli amanti sopravvivono

30 giovedì Ott 2014

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Il Consiglio dell'Oste

Il Consiglio dell’Oste

“Solo gli amanti sopravvivono” –l’ultimo lavoro di Jim Jarmusch- è un’opera cupa e apocalittica che l’autore colloca in una ipotetica civiltà post-industriale. In questa cornice crepuscolare si compie la danza macabra di Adam e Eve, due vampiri che incarnano l’ultima speranza per salvare l’uomo dal degrado morale e dall’apatia spirituale.

Tilda Swinton

Adam e Eve si amano dalla notte dei tempi, pur vivendo separati, rispettivamente a Detroit e Tangeri, nell’isolamento quasi assoluto, dettato dalla desolazione che fuori dilaga e dal pesante fardello di secoli vissuti che si portano appresso. Le due nobili “creature” trascorrono le giornate nutrendosi di musica, letteratura e (raro) sangue puro, e gli uomini, che hanno smarrito se stessi fino al punto di apparire alla stregua di zombie, non destano più alcun interesse. Sono morti, perché hanno rinunciato ad essere e ad amare.

Only lovers left alive

 

Il film incanta e ammalia come un mantra ipnotico, sin dalle battute iniziali, in cui Jarmusch escogita un movimento lento e circolare per introdurre la narrazione e i protagonisti. Lei glaciale regina delle nevi, lui faustiano Edward mani di forbici. La colonna sonora regala un’atmosfera estatica all’opera, che seduce e concede ancora una volta fascino alla stirpe vampiresca, immortalata stavolta quale depositaria di ogni forma di sapere, a cospetto di un’umanità sbiadita, inaridita e contaminata persino a livello sanguigno.

Adam e Eve rappresentano gli ultimi baluardi dell’intelletto, dell’amore, dell’arte, di tutto quanto l’uomo abbia smarrito nei secoli.
Only lovers left alive

Nel momento in cui il destino li restituisce alla notte, i due vampiri -infiacchiti dalla cattività e disabituati alla caccia- sembrano sul punto di smarrire ogni brama o speranza, ma in extremis l’istinto e l’amore li salvano. Nella notte la loro natura predatrice e selvaggia risorge, deflagrando a ridosso di una coppia di zombie che rappresenta l’altra faccia di quell’amore necessario ad alimentare l’eternità.

 

Only lovers left alive

 

 

Il film di Jarmusch è pervaso da un romanticismo gotico e decadente: l’amore come forza ingovernabile, che tutto muove e a cui tutto tende, è al centro dell’opera e delle possibilità che ha l’uomo per tentare di uscire dalla crisi profonda che ne contraddistingue il presente. Soltanto chi è capace di amare può farcela, “solo gli amanti sopravvivono”.

“Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca”

03 venerdì Ott 2014

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri, Titoli di testa

A volte capita di leggere libri per mesi senza che nulla balzi particolarmente all’occhio, senza che nulla richiami la nostra attenzione sì da superare la consistenza d’un battito d’ali. In tali periodi capita sovente di leggere molto, di alternare le letture più svariate, di perdersi nelle storie più assurde. Il significato di queste opere si realizza nella loro compiutezza, allorquando l’ultima pagina ne sancisca l’epilogo.

In quest’ultimo anno, senza che ne avessi intenzione, sono andato a lungo per mare, solcando tutti gli oceani alla ricerca di avventure, amori, pesci giganti, solitudine, verità, Sé. Un oceano letterario.

Henry David Thoreau

Nel sovrapporsi delle vicende, sono però finito nei boschi di Walden, assieme a Henry D. Thoreau, l’uomo che vi fissa in modo assiduo e penetrante, qui alla vostra sinistra. Ho pressoché terminato la sua “Vita nei boschi”, per quanto conservi l’ultima parte per ovviare a un distacco insopportabile. Ma c’è un capitolo di “Walden”, intitolato “Dove vivevo e perché”, di cui non posso liberarmi.

In particolare, le quattro pagine conclusive di quel dannatissimo capitolo sembrano contenere tutta le risposte di cui un uomo possa necessitare, tanto da non lasciare scampo, tanto da creare dubbio e scompiglio, tanto da risvegliare il dormiente anche nei momenti di perfetta veglia.

Ne riporto qui alcuni passi, nella speranza che chiunque legga queste righe con cura sviluppi il profondo desiderio di accostarsi alle rive del lago di Walden, al limitare del bosco e di una Verità mai così vicina.

“La falsità e l’inganno vengono creduti le verità più sincere, mentre la realtà effettiva è presa per falsa. Se gli uomini osservassero continuamente solo la realtà e non si lasciassero ingannare, la vita sarebbe simile a un racconto di fate, agli intrattenimenti delle Mille e Una Notte”.

“Chiudendo gli occhi e sonnecchiando e lasciandoci ingannare dalle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano dovunque la loro vita quotidiana di routine e abitudine, che è tuttora fondata su basi puramente illusorie“.

“Gli uomini credono che la verità sia remota, ai confini del sistema solare, dopo la stella più lontana, prima di Adamo e dopo l’ultimo uomo. Nell’eternità c’è effettivamente qualche cosa di vero e sublime. Ma tutti questi tempi, luoghi e condizioni, esistono ora equi. Dio stesso culmina nel momento presente, e non sarà mai più divino, nel corso di tutti i secoli”.

“Morte o vita che sia, desideriamo soltanto la realtà. 

Se davvero stiamo morendo, udiamoci il rantolo nella gola e sentiamo il gelo alle estremità;

se invece siamo vivi, diamoci da fare.

Il tempo non è che il ruscello dove io vado a pesca.

Vi bevo; ma mentre bevo ne scorgo il fondo sabbioso e vedo come sia poco profondo.

La sua corrente sottile scorre via, ma l’eternità resta.

Vorrei bere profondamente, e pescare nel cielo, il cui fondo è ciottolato di stelle. Non posso contarne nessuna.

Ignoro la prima lettera dell’alfabeto.

Ho sempre rimpianto di non essere saggio come il giorno che venni alla luce.

L’intelletto è un fenditore, esso discerne e scava la sua via nel segreto delle cose.

Io non desidero lavorare con le mani più del necessario.

La mia testa è mani e piedi. Sento che tutte le mie migliori facoltà vi sono concentrate.

L’istinto mi dice che la testa è un organo di escavazione, come per alcune creature il muso e le zampe,

e con essa vorrei scavare la mia strada tra queste colline.

Penso che la più ricca vena sia in qualche luogo qua attorno;

così io giudico per mezzo della bacchetta fatata e dei leggeri vapori che sorgono;

e comincerò a scavare proprio qui”.

Le foreste di Walden si infittiscono in Singolar Tenzone

Robin Williams, un Capitano vero.

12 martedì Ago 2014

Posted by osteriacinematografo in film, immagini, Robin Williams, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Pensieri

Cronache e Storie d’Osteria

Non credo alle mille forme di aldilà che sono state inventate, modellate, dipinte, descritte nel corso della storia dell’umanità, spesso per creare aspettative di riscatto o per concedere una speranza a chi si lascia vivere fino al punto di trasformare l’esistenza in una sala d’attesa.

Credo invece che paradiso e inferno (o che dir si voglia) siano dimensioni estremamente terrene, ma non fisiche: abitano i nostri pensieri, calzano e incalzano ogni istante della nostra vita, e rispondono al nostro modo di essere, tormentando fino a dilaniare lungo la via dell’annichilimento, o sollevando fino a riprodurre forme sublimi d’estasi.

 Per puro caso, in questo istante, mi è balzato in mente “Al di là dei sogni”, nemmeno a farlo apposta.

Robin WilliamsCredo a una strana sorta di coscienza unificata, un legame ancestrale e imprescindibile che unisce tutte le forme di vita. Credo che si viva per lasciare qualcosa agli altri, e credo fermamente che se si centra questo bersaglio si possa riuscire a schivare la morte. E così si continua a vivere nelle parole, nei pensieri e nei ricordi di quanti siano stati anche solo “sfiorati” dal carisma e dall’amore degli illuminati che abbiano compreso il vero significato di questo nostro intricato e mirabolante percorso.

E cosa siamo noi se non ciò che pensiamo?

Dare agli altri, darsi agli altri, essere se stessi, regalare o comunque concedere emozioni di qualsiasi tipo, questi sono gli obiettivi per cui vale la pena vivere, queste sono le forme di grazia cui dovremmo essere devoti.

 Pochi artisti hanno concesso tanto quanto è riuscito a fare Robin Williams nel corso della sua vita: sono innumerevoli le opere cinematografiche in cui la sua umanità dirompente è stata lasciata libera di mostrarsi, senza limitazioni o formalismi. Sono talmente tante da impedire a Robin di morire, da sollevarlo da tale incombenza, da consegnarlo e consacrarlo alla sfera dell’immaginazione collettiva, dove tutto vive, dove ogni cosa è possibile.

 Ho deciso –caro Robin- di non elaborare in alcun modo queste mie parole, di scriverle di getto, per rispettare quella tua dirompente spontaneità che trascendeva ruoli e copioni. Sei stato davvero un buon amico, dai tempi di “Mork & Mindy” in poi, e mi hai fatto ridere, sognare, commuovere. Ho vissuto le tue interpretazioni come una grande possibilità, come un’ancora di salvezza contro il cinismo che caratterizza l’uomo moderno, come una stradina alternativa da percorrere per rileggere la vita a modo mio, oltre che per evitare la statale quando vado al mare.

 Tu, caro Robin, sei un artista eccelso, un personaggio straordinario, nel vero senso del termine, si evince dai tuoi occhi, dall’intensità di ciò che si portano dietro.

Robin Williams interpreta Patch Adams

 

La sensibilità che in passato ti ha creato delle difficoltà e che forse adesso ti ha ucciso e l’emotività liquida che sgorga da ogni tuo sguardo senza poter essere arginata fanno parte di te in pari misura, e come ho assorbito senza barriere ogni tua performance, non posso fare altro che rispettare le tue scelte odierne, per quanto dolorose.

Non preoccuparti, tutti ti ricordano con profondo amore ed immutata stima. Credo nel presente, e tu ci sei dentro.

Mi rivolgo a te personalmente non a causa di un contraddittorio fanatismo che mi induca a credere che ora tu “sia” da qualche altra parte, ma perché una minuscola spia lampeggiante -nascosta tra le mie intricate concatenazioni elettriche- mi ricorda che tutti siamo uno soltanto, che ogni persona è connessa all’altra in uno strano modo, che persino ogni forma di vita lo è, e che spero che lampeggerai a lungo, e che darai una mano, perché ce n’è grande bisogno, in un’epoca tanto arida ed effimera quanto quella attuale.

 Non ti dimenticherò, finchè l’oblio non mi condurrà all’incoscienza.

La Coscienza secondo Maugham – La luna e sei soldi

24 lunedì Mar 2014

Posted by osteriacinematografo in Maughan

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Fermo Immagine, Titoli di testa

William Somerset Maugham

William Somerset Maugham

Non è difficile essere anticonformisti agli occhi del mondo quando il tuo anticonformismo non è che il conformismo della tua cerchia. E te ne viene una dose smodata di stima per te stesso.

Hai il compiacimento del coraggio senza l’incomodo del pericolo.

Ma il desiderio di approvazione è forse l’istinto più radicato nell’uomo civile.

La coscienza è nell’individuo la custode delle regole sviluppate dalla comunità per la propria conservazione.  

E’ la spia insediata nella roccaforte centrale dell’io.

Il desiderio dell’uomo di essere approvato dai suoi simili è tanto forte, tanto violento il suo timore della loro censura, che egli stesso ha introdotto nelle mura il proprio nemico; e questi lo tiene d’occhio, sempre attento, nell’interesse del padrone, a reprimere ogni velleità di staccarsi dal gregge.

Lo costringe ad anteporre il bene della società al proprio. E’ il vincolo fortissimo che lega l’individuo al tutto. 

L’analisi antropologica di Maugham procede e si realizza in Singolar tenzone

Philomena

06 giovedì Mar 2014

Posted by osteriacinematografo in film, immagini

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Fermo Immagine

Diapositive
Judi Dench
 
Judi Dench, penetrante e intensissima, indossa i panni di Philomena Lee nel film di Stephen Frears
 

Philomena

06 giovedì Mar 2014

Posted by osteriacinematografo in film, immagini

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Il Consiglio dell'Oste

Il film di Stephen Frears narra la storia vera di Philomena Lee, una donna irlandese con un passato doloroso, che riemerge in seguito all’incontro rivelatore con il giornalista inglese Martin Sixsmith.

Philomena

 

Sixsmith ha appena perso il suo impiego di consulente governativo presso il partito laburista di Tony Blair ed è in cerca di un’idea per riprendere a lavorare. Incontra per caso la figlia della signora Lee e viene a conoscenza della storia che la donna ha tenuto segreta per anni:  Philomena –di famiglia cattolica- rimase incinta in giovane età, e per ovviare allo scandalo venne rinchiusa nel convento di Roscrea, luogo di segregazione per ragazze madri.

Philomena

 

 

Il cinico e miscredente Sixsmith si avvicina con diffidenza ai modi semplici e genuini di Philomena, ma i particolari di grande interesse legati alla vicenda convinceranno il giornalista ad insistere: in effetti Philomena patì sofferenze terribili a Roscrea, dal parto affrontato a 16 anni in condizioni disumane, ai turni di lavoro massacranti, fino al distacco dal figlio di 3 anni, vissuto improvvisamente e nella totale impotenza.

Philomena

 

 

Sixsmith in un primo momento vede soltanto l’opportunità della grande storia: Phliomena infatti ha trascorso una vita intera nel ricordo –segreto ed estenuante-  di quel giorno del 1955, in cui suo figlio Anthony venne adottato contro la sua volontà da una famiglia ignota. Ma ben presto l’uomo inizierà ad appassionarsi alla vita della signora Lee e scoprirà, indagando sulle suore di Roscrea, che si cela un mistero dietro le adozioni dei bambini e tra le fiamme del rogo che avrebbe cancellato ogni prova documentale dell’accaduto. Le tracce conducono negli Stati Uniti ed è lì che la strana coppia si dirigerà per cercare il figlio perduto di Philomena.

Philomena

 

Judy Dench regala una prova eccelsa, forse la migliore interpretazione femminile della stagione:  l’attrice inglese indossa la maschera disperata ma imperturbabile di Philomena con maestria, equilibrio, e un coinvolgimento emotivo tale da incarnare realmente il dolore di una madre tradita. Steve Coogan (co-autore della sceneggiatura) è uno sparring partner perfetto, grazie a un aplomb dai risvolti comici e ad una compostezza che non cede nemmeno nei momenti di maggior tensione. Fra i due protagonisti si instaura un duetto spassoso e commovente: si parte da posizioni lontanissime, proprie di due tipi umani contrapposti, fino ad arrivare a un punto d’incontro, il punto in cui Sixsmith comprende intimamente il dramma silenzioso e l’umanità prorompente di Philomena.

Philomena

 

Frears realizza un buon lavoro dopo alcune battute a vuoto. La struttura del film è solida e la storia coinvolgente. Da segnalare in particolare l’utilizzo dei flashback che si alternano alla narrazione principale, posando sull’opera una patina nostalgica: i sogni ad occhi aperti di Philomena sulle sorti del figlio si tramutano in divenire nella vita vissuta realmente da Anthony, e così realtà e dimensione onirica si sovrappongono fino a confondersi in una danza lenta ed agrodolce.

 

Il film narra quindi di un figlio strappato a sua madre con violenza inaudita, una violenza generata da una casta ed eterna obbedienza che si traduce drammaticamente in livore e risentimento nei confronti di chi ha ceduto alle tentazioni della carne, di chi ha assaporato l’ebbrezza dell’istinto. Suor Hildegarde, ultima depositaria del segreto di Philomena e di tante altre ragazze madri cresciute senza conoscere i propri figli, è l’incarnazione del male più radicato e profondo, un male capace di occultare la verità e di generare danni irreversibili. E’ una storia irritante e inaccettabile, che andava raccontata, una storia necessaria per fare luce e dare una speranza ad altri figli dispersi.

Il film è tratto dal libro dello stesso Martin Sixsmith, “The lost child of Philomena Lee”.

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