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Poeta e cantautore americano (1943-1971)

NAMIBIA FAMILY ADVENTURE DAY 11 – The Elephant Day

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art, Cronache e Storie d'Osteria, letteratura, news

APOLIDE

Sorge un sole magico fra le piccole alture che circondano il Lodge Damaraland. E’ un risveglio morbido, scevro da affanni. Siamo privi della solita lena organizzativa. Osserviamo gli zaini da ricostruire come fossero di chissà chi altro. Non sono ancora le otto e ci trasciniamo mollemente verso il buffet, che somiglia a un miraggio. La cucina propone piatti interessanti, tanto che la colazione si trasforma ben presto in pranzo. In effetti non avremo più fame prima di sera. Sento parlare italiano, e provo d’istinto un terrore vacuo, ma cerco di restare indifferente, imperturbabile, apolide.

Siamo rigenerati, ma Iri oggi ha una marcia in più. Quando si sveglia in queste condizioni diventa incontenibile, trasformandosi in una bomba di energia e ilarità per tutta la famiglia.

Vicky è sempre accanto a noi, e quando scoccano le nove ed è ormai ora di salutarsi, il dispiacere è reciproco. I suoi occhi buoni e luminosi sembrano quelli della Namibia. Li porteremo con noi. Non in senso letterale, naturalmente.

PETRIFIED FOREST

Oggi le nostre tappe sono disseminate lungo la C39, una strada sterrata, ma godibile. Dopo un’ora di marcia arriviamo nei pressi della Petrified Forest. I tronchi fossili che vi sono conservati risalgono a milioni di anni or sono, deposti da canali fluviali che da questo lato del tempo possiamo soltanto immaginare. Non sono molti, ma due di essi misurano fino a quarantacinque metri e hanno mantenuto la foggia originaria, nonostante siano in parte frammentati.

ARIZONA DREAM

Quindici anni fa io e Franci visitammo la Petrified Forest in Arizona. Il sito americano è molto più esteso di quello africano, ma non mi pare ci fossero tronchi fossili di queste dimensioni. Rammento quel luogo più che altro perchè fu la tappa intermedia fra due meraviglie americane: il Canyon de Chelly, sito nel cuore della Riserva Indiana Navajo, uno dei luoghi che più c’è rimasto nel cuore; il Meteor Crater di Wislow, un’enorme depressione nel deserto, il cui cratere fu generato dall’impatto di un asteroide del diametro di cinquanta metri.

Canion de Chelly

Canyon de Chelly

U.S. Petrified Forest

Meteor Crater

ATTRAVERSO LO SPAZIO E IL TEMPO

La Foresta pietrificata di Khorixas rende l’idea della genesi del fenomeno che qui si verificò 280 milioni di anni fa. Lo scioglimento dei ghiacciai che coprivano l’Africa centrale provocò inondazioni immani, che travolsero e trasportarono ogni cosa per centinaia di chilometri, incluse queste grandi conifere ormai estinte.

Quelle acque, ricche di minerali come la silice, sostituirono gradualmente la materia organica delle piante, pietrificandole. Ed oggi possiamo ammirare tronchi di cristalli di quarzo perfettamente conservati, come in un fermo immagine che attraversi lo spazio e il tempo, e trascenda il senso stesso delle cose. E’ in effetti impressionante riflettere sulla trasformazione della materia, sul quarzo che sostituisce la lignina e la cellulosa concedendo che le forme restino tutto sommato inalterate; sull’indefinita vastità delle ere che si sono succedute prima di noi, su quante ancora verranno dopo l’età dell’uomo; su questo tempo possente che pare inafferrabile; su quanto tutto sia infinitamente grande e infinitamente piccolo e perciò impossibile da concepire.

Il tempo è proprio qui davanti ai nostri occhi, allucinante, pietrificato.

WELWITSCHIA MIRABILIS

Qui abbiamo anche l’opportunità di osservare da vicino la Welwitschia Mirabilis, una pianta straordinaria, un organismo talmente antico da essere considerato un fossile vivente. Essa è uno dei simboli della Namibia: è infatti raffigurata nello stemma nazionale, per via della sua longevità e della sua tenace resistenza all’ambiente arido e alle condizioni avverse di un deserto che la bracca e cinge d’assedio da ogni dove. Alcuni esemplari di Welwitschia vivono su questa terra da migliaia di anni, e sono annoverabili fra gli esseri viventi più vecchi al mondo. Le foglie che la caratterizzano si snodano contorte ai lati del tronco tozzo che ne costituisce il cuore. La pianta si nutre grazie a una radice profonda e alla nebbia carica dell’umidità dell’oceano. Un capolavoro di ingegneria naturale.

PARALLELE

La prossima tappa è la vallata di Twyfelfontein. Dopo un breve tratto di C39 svoltiamo a sinistra per la D2612, che si rivela ben presto insidiosa. E’ una strada di terra e pietra, modulata su più livelli paralleli molto stretti, e con lastricati taglienti che impongono ben più di una preoccupazione. Più ci avviciniamo alla meta e più la strada diventa impraticabile. Mi sposto a destra, a sinistra, poi sopra e sotto per trovare la via migliore. Ma non c’è scampo. A un certo punto una jeep del parco mi sorpassa a velocità sconsiderata. Arriviamo a destinazione tirando un sospiro di sollievo.

URI-AIS o TWYFELFONTEIN?

E’ mezzogiorno. Parcheggiamo sotto un telo di stoffa leggera ma efficace e in pochi minuti siamo a spasso con la guida di turno. Andiamo alla scoperta dei dipinti rupestri e dei graffiti dell’età della pietra che hanno reso famoso questo posto. Il nome originario della valle è Uri-Ais (“sorgente che zampilla”). I primi coloni bianchi, non trovando traccia della sorgente citata dai Damara, ribattezzarono il luogo Twyfelfontein (“sorgente incerta”). Spesso le cose hanno nomi tanto semplici quanto significativi. E possono mutare al variare di determinate condizioni. Come nel caso di una fonte d’acqua prosciugata.

LAVAGNA PRIMORDIALE?

Il sole adesso inizia a picchiare forte ma il clima resta secco e gradevole. Le incisioni rupestri di Twyfelfontein sono state realizzate dagli antenati dei San, un popolo di cacciatori-raccoglitori che viveva nella zona. Queste incisioni, che raffigurano animali, figure umane e simboli risalenti a oltre 1000 anni fa, sono considerate fra le più importanti collezioni di arte rupestre in Africa. In certi casi gli animali vengono raffigurati vicino alle proprie impronte, come se si trattasse di una sorta di mappatura delle specie utile a collegare un dato animale alle tracce lasciate sul terreno. Chissà che non servisse a educare i più giovani? E’ una passeggiata molto gradevole, in cui Irene, che si era svegliata con un piglio positivo e travolgente, inizia a dare piccoli segnali di cedimento e follia. Ciò verrà confermato dalle performance attoriali nelle ore successive.

90 KM ORARI CONTRO L’ATTRITO

Tornati al rover, faccio due chiacchiere con un ragazzo del luogo. Vorrei visitare Organ pipes ma mi spiega che la strada peggiora ulteriormente poi. E così rinuncio. Mi chiarisce anche che per ovviare alle lastre che tagliano trasversalmente la carreggiata dovrei procedere a una velocità minima di 90kmh. Mi sembra una follia ma decido di provare a seguire il suo consiglio. La velocità è sostenuta per una strada simile, ma attutisce notevolmente l’attrito col terreno. Occorre fare attenzione in curva, dove il rover derapa allegramente, ma in effetti così è un’altra vita. Resta la paura di bucare, sempre.

Riusciamo a scamparla, e arriviamo sani e salvi al Twyfelfontein Elephant Drives & Campsite. Ho prenotato un’escursione nel deserto la sera prima. Una signora è lì ad attenderci. Nella zona vivono alcune famiglie di elefanti del deserto. Ho letto da qualche parte che avvistarli sia un’esperienza magnifica, e non ci lasciamo sfuggire l’occasione.

Mentre attendiamo l’inizio del tour, incrociamo la famiglia di italiani che avevamo percepito al lodge Damaraland. Hanno appena terminato l’escursione. Ci raccontano che in mattinata hanno bucato in due occasioni; che la prima volta hanno sostituito lo pneumatico e che la seconda hanno dovuto chiamare un gommista locale. Chissà poi dove l’avranno trovato? Stento a credere alle loro parole, e poi rifletto sui rischi che abbiamo corso in quelle strade assurde percorse pochi istanti prima, strade da cui i nostri connazionali (non sono più apolide) si erano peraltro tenuti alla larga. Bucare in Namibia spesso non rappresenta un’opzione.

GLI ELEFANTI DEL DESERTO

Arriva la nostra jeep. Ci piazziamo dietro, ma quattro turisti nord europei niente affatto simpatici chiedono con forza un cambio di posto. Per non mettere in difficoltà il giovane e sorridente autista, veniamo incontro alle loro richieste. D’altronde noi siamo viaggiatori, non banali turisti.

Accanto all’autista c’è un ragazzino di 10 anni al massimo. E’ un bimbo sveglio, che credo dia una mano al driver ad individuare gli animali di cui siamo in cerca. Girovaghiamo in mezzo al deserto entrando e uscendo da piccole alture circondate da arbusti, in cerca del giusto punto di avvistamento. Dopo pochi minuti notiamo i primi esemplari. E’ un gruppo di 4-5 elefanti. Sono a pochi metri da noi, e l’emozione di vedere da vicino e in libertà questi animali meravigliosi è unica.

Per Gim e Iri è la prima volta. Osservo i loro volti prima di perdermi nella contemplazione degli elefanti. Sono fiero dei sacrifici fatti per mostrare ai nostri figli il lato più autentico della natura. Spero conservino a lungo in memoria le immagini di queste creature libere e selvagge.

Gli elefanti sono un po’ infastiditi dalla nostra presenza, per quanto l’autista utilizzi tutte le cautele del caso. Sembrano di dimensioni minori rispetto a quelli avvistati in Sudafrica. Rispettiamo un silenzio sacro per non spaventare o innervosire i pachidermi. Gli giriamo un po’ intorno, senza mai impedir loro il passaggio.

AMALGAMA

Il loro amalgama con l’ambiente appare profondo, anche sotto il profilo cromatico. Li osserviamo ancora un po’ prima di lasciarli andare. Il nostro è un modesto drappello privo di vessilli, al cospetto del passaggio dei Re. Li vediamo allontanarsi come navi maestose sopra un desertoceano, oltre il cui orizzonte svaniscono, fondendosi con la sabbia e il sole.

V8 INTERCEPTOR

A questo punto Mad Max aumenta i giri del V8 Interceptor, segno che ci stiamo spostando in un’altra zona. La caccia entra nel vivo. L’uomo ci spiega che una comunità più grande di elefanti si è spostata altrove. Ne chiede conferma agli abitanti di minuti villaggi che troviamo lungo il percorso. Alcuni ragazzini gli fanno distintamente cenno con la mano di proseguire per la rotta che stiamo seguendo. Siamo circondati da fiumi di sabbia e piccole oasi verdeggianti. Poi il deserto si fa via via più selvaggio e desolato.

UNA GIRAFFA IN SOGNO

D’un tratto avvistiamo una giraffa, elegantissima e imperturbabile. Non sembra vera, come tutto il resto. Ci osserva curiosa, senza perdere compostezza. E’ un animale spettacolare. Sembra scivolare via davanti ai nostri occhi, tanto i suoi passi sono aggraziati e leggeri. Si è alzato il vento e la sabbia si solleva in leggeri mulinelli che danzano in controluce attorno al corpo della giraffa. Le colline perdono consistenza in lontananza. Sembra una magia, un frammento unico in cui il tempo si spezza e tutto tace alla vista di siffatta bellezza.

Nel frattempo il vento ha preso a tirare sempre più forte. E’ un fattore che non abbiamo calcolato. Iniziamo a patire il freddo. La jeep è aperta su tutti i lati e ci prendiamo quello che viene, nonostante il nostro alloggiamento sia più riparato rispetto a quelli degli altri passeggeri.

REGATANDO SULLA SABBIA

A un certo punto la strada inizia a salire e a ridursi in ampiezza. C’è roccia ovunque. La salita s’impenna, finchè scavalliamo e ci troviamo di fronte un panorama che lascia senza fiato. Dinanzi a noi dilaga una valle spettacolare. Sembra di essere in avanscoperta su un pianeta alieno, a bordo di un mezzo rudimentale e futuristico allo stesso tempo. Incrociamo un elefante solitario, che si lascia avvicinare senza problemi.

Mad Max a questo punto pare indeciso, prende una direzione, poi un’altra. Imbocca una pista immaginaria e poi sterza repentinamente. Si consulta a più riprese col socio di scorribande. Non sembra avere le idee chiare sul da farsi, e noi iniziamo a soffrire sempre più il freddo. Ci stringiamo, coprendoci coi foulard e con gli zaini, ma non basta. L’esplorazione del pianeta prosegue implacabile. Non ci sono tracce, e il vento ulula. Andiamo a vela adesso. Regatiamo fra le onde di sabbia dell’ignoto. I marosi ci sollevano in cielo per poi farci planare sul pelo del deserto.

Sono quasi le 16, e inizio a pensare alla strada di ritorno. Stanotte dormiremo nel Kunene, siamo distanti e dobbiamo rifare tutto questo percorso a ritroso, oltre al viaggio fino alla nostra nuova casa. Il sole cala rapidamente in Namibia, e viaggiare di notte non è mai una buona idea da queste parti.

LA SCORTA

Finalmente avvistiamo una parte della famiglia di elefanti che abbiamo cercato a lungo. Sembrano nervosi, e capiamo ben presto perché. Hanno un cucciolo con sè, e lo scortano in modo organizzato, proteggendo con cura il lato “debole” della missione.

LA VARIANTE UMANA

Avverto distintamente la sensazione di rappresentare una minaccia per questi pachidermi, e ripenso ancora una volta al modo in cui ci siamo illusi di uscire dal mondo naturale, di pensare ingenuamente di poter essere altro da esso, di ergerci ad archetipo fra le forme di vita, quando rappresentiamo soltanto una delle innumerevoli varianti dell’esistenza sul pianeta.

Siamo minute ed estemporanee scintille in un incendio che divampa dalla notte dei tempi.

PICCOLI COLPI DI TOSSE

Osserviamo ancora un po’ la famigliola compatta e poi filiamo via. Sarei rimasto a lungo ad osservarli, ma la strada da fare è tanta. Il nostro mezzo inizia a dare qualche segnale di malfunzionamento fra le dune. Piccoli colpi di tosse. Il giovane namibiano scende, da un occhio al motore, controlla il telefono, ma non c’è campo e ripartiamo. Mad Max si dimostra abile e rapido su un terreno totalmente dissestato. Procediamo a grandi passi, subendo anche meno il vento in questa direzione. Risaliamo la vasta conca e torniamo nella parte più guidabile.

PIT STOP

Sono quasi le 17 quando il V8 Interceptor inizia a perdere potenza. Sembra ingolfato. Borbotta, e poi si spegne in mezzo all’ennesimo sconfinato nulla. I nostri eroi riaprono il cofano, armeggiano un attimo e poi chiamano qualcuno. Sembra ci sia un problema con la batteria. Non ci voleva. Per fortuna, dopo un quarto d’ora arriva una macchina. Un tizio scende, attacca i cavi, e torniamo in sella. Il mezzo ora sembra procedere bene. Vedo a pochi km il ranch da cui siamo partiti, osservo il sole calare inesorabilmente. Il fuoristrada borbotta ancora, tira colpi di tosse a ripetizione, sembra sul punto di morire, ma tiene duro e ci conduce esanime a destinazione.

Sono le 17e30. Fuori tempo massimo. Siamo grati ai ragazzi che ci hanno accompagnato. E siamo anche gli unici a ringraziarli per l’impegno profuso con un piccolo extra. Non mi stupisco, visto l’altezzoso distacco degli automi che erano con noi.

CORSA CONTRO LA NOTTE

Sgommiamo via veloci verso nord. La nostra destinazione è nei dintorni di Palmwag, nella regione del Kunene. Per fortuna la C39 e la C43 sono ottime strade. Posso percorrerle a buon ritmo, pigiando sull’acceleratore ma senza mai superare certi limiti. Guidare di notte in Namibia è pericoloso per via della fauna e della visibilità pressochè azzerata. Quindi devo anticiparne le mosse.

Il navigatore impazzisce ma verso le 19 avvistiamo una sorta di sbarramento, in cui due uomini in tenuta militare fanno sostanzialmente da filtro. Gli chiediamo informazioni e il tizio ci spiega che siamo arrivati. Il Palmwag Camp sembra spartano al punto giusto. Qui ho prenotato una notte in tenda per vivere un’esperienza diversa. Ma un upgrade automatico e gratuito implica che dormiremo fra quattro muri anche stanotte. E’ tardi, abbiamo fame e accettiamo l’upgrade.

CAOS CROMATICO CREPUSCOLARE IN ZONA TORRIDA

Ci diamo una ripulita e andiamo verso il ristorante. Ceniamo in una bella terrazza in legno, affacciata sul tramonto del Kunene. Abbiamo davanti un’Africa diversa adesso, più verde e misteriosa. Ci immergiamo nel caos cromatico crepuscolare della zona torrida. In dieci giorni non avevamo mai visto una vegetazione tanto densa. Le palme aggiungono un tocco esotico al contesto: sembra di essere Altrove per l’ennesima volta, rispetto a ieri, rispetto a una settimana fa, rispetto a ogni momento vissuto.

L’unica pecca della terrazza è di essere all’aperto. Non c’è vento, ma il freddo è pungente e si fa un po’ fatica a godersi la cena, anche se il vino supporta quanto meno noi adulti.

“HOW MANY OF YOU KNOW THAT YOU’RE REALLY ALIVE? BULLSHITS!!”

Facciamo due passi e poi ci ritiriamo. Prima di rientrare osservo la chioma di una palma lattea che si staglia nella notte nera, con miriadi di stelle a far festa tutto intorno, lungo le distese interplanetarie.

Quella chioma somiglia a Val Kilmer nei panni di Morrison, quando sale sul tetto di una macchina davanti al Whisky a go-go e grida: “Quanti di voi pensano di essere vivi? Quanti di voi sanno di essere veramente vivi?”

Alzo la mano nell’oscurità, osservo la palma Jim ridere di me, e chiudo a chiave la porta del nostro rifugio, sigillando un’altra giornata di grande valore.

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria

DAY 6

Mercoledì 6 settembre. Come scrivevo poche righe fa, sul tetto dell’immaginazione, anche questo è pur sempre un giorno da vivere. Per un motivo ben preciso: il nostro volo di ritorno in Italia è alle 20e45 al JFK, non abbiamo bagagli da stivare, ho già provveduto al check in, e abbiamo ancora un buon numero di ore da vivere a New York. Tuttavia faccio fatica a scrivere, a parlarne, a concludere questa esperienza meravigliosa. Scrivo e poi mi fermo, poi riparto controvoglia, la narrazione è meno fluida. So che appena avrò terminato, sarò sulla via di ritorno. Avrò detto tutto, riposto le valigie, sistemato i ricordi. Come ogni viaggiatore che si rispetti, sto già strutturando le ipotesi di viaggio future. Leggo e studio ogni sera, sogno terre sconosciute, e attendo che uno di questi sogni prevalga sugli altri, anche se ci siamo quasi. Il prossimo viaggio è in allestimento, ma non mi va di tornare a casa. A New York si sta troppo bene, e terminare questo racconto significa lasciare questa magnifica città.

Ma le cose accadono per necessità, come mi spiegò anni fa il mio mentore. E’ l’Ineluttabile, e non si può fare altro che andare avanti. Oggi la nostra routine cambia un pochino. Dopo la lauta colazione, che invece resta la pietra miliare su cui poggia tutta l’architettura del giorno, torniamo in camera e finiamo di preparare le valigie. Ci accomiatiamo dalla nostra tana, lasciamo i trolley nel deposito bagagli dell’hotel e usciamo per l’ultima passeggiata mattutina. Scegliamo l’ottava in direzione uptown. La prima cosa che notiamo è che si sta meglio di ieri. Il caldo si è in qualche misura attenuato. La seconda cosa che balza all’occhio è che non troviamo più le strisce pedonali, perché nella notte hanno asfaltato qualche centinaio di metri di strada, che oggi è nuova di zecca e in via di completamento. La terza cosa del giorno è che oggi c’è più traffico del solito. Traffico di mezzi e traffico umano. E’ pieno di gente diretta al lavoro col proprio zainetto, che sembra un elemento protesico collettivo, data la sua diffusione. L’impressione è di essere a un congresso di paracadutisti.

Proseguiamo fino alla 42esima, dove svoltiamo a destra. Facciamo un giro dentro al Bryant park, che è una perla verde che vive all’ombra della Public Library. In questi giorni lo abbiamo sfiorato più di una volta, ma non lo abbiamo mai guardato davvero. E’ un luogo che pullula di persone, ognuna chiusa nel suo angolo di pace in prossimità del caos che di lì a qualche metro dilaga. Chi legge, chi riposa, chi osserva il vuoto strapieno davanti a sé, chi mangia una cosa, chi fa due chiacchiere con un amico o coi propri pensieri. Eleggiamo il Bryant come location perfetta per uno spuntino a pranzo. Adesso però abbiamo altro da fare. Costeggiamo la Grand Central Station ed entriamo nel palazzone nuovo di zecca del One Vanderbilt. La nostra meta è il Summit, l’osservatorio sito fra il 91esimo e il 93esimo piano.

Va ora in scena un viaggio dei sensi, in cui l’illusione ottica governa ogni spazio, dall’ascensore in poi. Bisogna indossare gli occhiali da sole perché non siamo in un semplice osservatorio. Specchi e giochi di luce sovrapposti stordiscono i visitatori e perforano la retina all’occorrenza. Siamo nel cuore di Manhattan. Il Chrysler e l’Empire sono lì a un passo. La visuale è nitida e perfetta. La luce è simile a quella che si trova in alta montagna. L’esperienza è un misto fra incessante vertigine ed euforia estatica. Sotto e sopra diventano concetti relativi. Girovaghiamo in assenza di gravità. E’ uno spettacolo visivo mai visto, che racconta lo spazio in modo innovativo.

Le immagini e i suoni si proiettano ovunque senza soluzione di continuità attraverso tre piani che costringono i viaggiatori a riorganizzare la percezione, ad evolversi a livello sensoriale, a spingersi oltre il concetto stesso di profondità, a ribaltarne il senso, ad esserne infine assorbiti, tanto da divenire essi stessi profondità in senso collettivo e condiviso. Gli specchi sono via via inframezzati da enormi varchi che restituiscono una New York bellissima in questa giornata di sole, e l’alternanza fra le immagini riflesse e quelle reali fornisce un effetto complessivo abbacinante.

Air è un’esperienza immersiva multisensoriale: l’installazione firmata Kenzo Digital prevede anche una sala traboccante di palloni d’argento, in cui si annulla lo scarto fra adulti e bambini, tanto da spingere chiunque all’euforica e infantile leggerezza del gioco. Luce e immagini rimbalzano su sfere, pareti e pavimenti dispiegando ulteriori giochi di prestigio e infinitesimali inganni visivi. Air non sembra avere limiti, la sua forma muta attraverso gli specchi che ricoprono ogni superficie disponibile.

Ad ogni passo si generano immagini totalmente nuove, dettate da prospettive all’ennesima potenza. Sembra di galleggiare dentro le deformazioni visive di “Inception”, o nel contorto multiverso del Dr. Strange. Il cervello fatica nel compiere uno sforzo che si traduce infine in soave smarrimento. L’ambiente esterno sembra non porsi limiti spaziali, non avere confini, sembra far parte del complesso sistema di specchi, a cui si impasta e mescola come sulla tavola di un artista visionario. La città si fa largo da ogni pertugio disponibile, si affaccia e poi si nasconde ed entra ed esce dal campo visivo e non sai più se sia Lei o il suo ennesimo riflesso a transitarti davanti agli occhi.

La realtà fisica muta connotati. Il grande illusionista trasforma qualcosa di ordinario in straordinario. Sottrae oggetti al comune intuito visivo per farli riapparire chissà dove, anche in tanti luoghi insieme. Occulta le nostre stesse figure, moltiplicandole illimitatamente. Vorremmo capire il trucco, farlo nostro, ma non riusciamo a guardare oltre, a guardare davvero, e preferiamo essere ingannati. Air è New York, il Regno di Oz, il Grande Prestigiatore. Vorremmo continuare a sognare e restare qui per sempre, per sentir scorrere dentro di noi l’energia travolgente di questa città di cui il Summit si rivela emblema e sintesi.

Kenzo stesso ha dichiarato che NY è la sua casa e la sua costante fonte di ispirazione e che Air è uno spazio creato per condividere l’inebriante senso di aspirazione e ispirazione che NY concede a tutti coloro che la visitano, un faro di possibilità che rende omaggio a tutto ciò che NY è, può essere e sarà. Direi che ha colto nel segno, onorando il luogo magnifico in cui ha la fortuna di vivere.

Dopo esserci affacciati sul roof galattico del Summit e aver trovato finalmente una t-shirt per me, usciamo a fatica dal Vanderbilt, come se ci cacciassero fuori a pedate. Per fortuna tutto è subito e di nuovo dimenticato, perché il grattacielo comunica con la Grand Central Station, un altro gioiello da ammirare in successione libera. E’ la stazione ferroviaria più grande al mondo con le sue 48 banchine e i suoi 75 binari disposti su più livelli che scendono e si aggrovigliano fin dentro le viscere della terra.

Il Main Councourse è l’atrio principale, dove troviamo le biglietterie e il centro informazioni, che domina il salone principale. L’icona della Central Station, posta proprio sopra il banco informazioni in cui lavora Samuel L. Jackson, è l’Information Booth Clock, un orologio in opale a 4 facce, impostato sull’orologio atomico dello U.S. Naval Observaotry di Bethesda. Un segnatempo alquanto affidabile, a quanto pare. In alto, una mappa stellare impreziosisce la volta verdognola del soffitto.

Di colpo sembra di trovarsi nei meandri della stazione di Parigi in cui vive segretamente Hugo Cabret, l’orfanello che campa d’espedienti ed entra ed esce da prese d’aria e passaggi segreti per sfuggire alla grinfie dell’ispettore ferroviario Gustav. Un luogo in cui non mi sorprenderei di incrociare la bottega di Georges Melies, uno dei padri del cinema. E così osservo con cura le grate a muro, dietro cui potrebbe nascondersi chissà quale segreto. Forse il figlio del defunto orologiaio è lì nei paraggi, ad azionare i polverosi ingranaggi del tempo.

Quasi mi sorprendo nel trovare file di treni pronti a partire nel caldo ventre di Grand Central. Sai che è una stazione ma non ne sei del tutto certo. A prima vista è un crocevia in cui si intrecciano le vite e le storie e i destini della gente, un luogo da attraversare o in cui perdersi o fermarsi a discutere o in cui dare un’occhiata in giro. Invece da lì i treni sferragliano per ogni dove sul territorio americano, dilatando ulteriormente le maglie del sogno che New York incarna.

Usciamo dalla stazione dopo aver osservato uno degli antichi ascensori in azione ed entriamo nel Grand Central Market, un coloratissimo spazio in cui si vendono prodotti alimentari freschi di ogni tipo. E’ ora di pranzo e optiamo per un piatto di salmone piccante appena confezionato da mani sapienti. Torniamo al Bryant, come promessoci, e troviamo a sorpresa un baracchino mobile di Nathan’s, quello di Coney Island. Non possiamo perderci il miglior hot dog di NY, e ne acquistiamo due. Sono buoni, ma non vado pazzo per gli hot dog e non ne traggo particolare godimento. Due morsi e siamo già pieni. Il salmone dovrà aspettare.

Sono le 14, non abbiamo le idee chiare sul da farsi, ma non possiamo ritirarci adesso. Abbiamo ancora 4-5 ore da gestire e non intendiamo sprecarle. Scorrendo rapidamente la mappa, notiamo che sul versante occidentale di Central Park, all’altezza della metà del parco, c’è il Museo di storia naturale. Con la metro D possiamo arrivarci in 15 minuti, abbiamo ancora il nostro pass da sfruttare (anche se sul punto nutro più di un dubbio) e ci sembra una buona idea. Scendiamo e troviamo subito il nostro treno. Lo prendiamo. E’ anche più rapido del previsto, una scheggia che schizza impazzita senza fermarsi verso la nostra meta. E invece no, non si ferma mai, o quasi, tantomeno all’81esima. Abbiamo preso l’espresso per il Bronx, giusto per distinguerci fino alla fine, per darci un tono e non rendere banale neanche quest’ultimo giorno. Il treno continua a filare, e anziché all’81esima scendiamo alla 110ma, alla fine del parco, l’ultima fermata prima di finire per sempre nel Bronx. Poco male, riprendiamo il treno a ritroso, risaliamo la china, decidiamo di visitare lo stesso il museo in versione superfast. Il pass è esaurito, come temevo, e dobbiamo metterci in fila per entrare. Facciamo presto. Sono le 15 ed entriamo a passo svelto. Franci prende possesso della mappa e mi trascina con veemenza fra una sezione e l’altra. Alterniamo la visita alle sale a rapide sortite nei negozi per bambini in cui cerchiamo dei regalini per Giamma e Iri.

Il museo è variegato e interessante, ma non possiamo godercelo come vorremmo, quindi voliamo fra un piano e l’altro, fra reperti storici di popoli antichi, meteoriti, minerali che sembrano provenire dal pianeta Krypton più che dal distacco di Pangea, pietre preziose di ogni foggia e colore, e gli immensi scheletri dei dinosauri che chiudono in bellezza una mostra che avrebbe meritato ben altra considerazione. La sensazione è stata di inabissarsi fugacemente nelle grotte dei sogni dimenticati di Herzog, tanto è misteriosa la storia della vita e dell’evoluzione degli abitanti della Terra.

Sono le 17, acquistiamo due tazze per i bimbi e filiamo via rapidamente. Riprendiamo la metro in direzione downtown. Stavolta azzecchiamo tutto, eccetto l’uscita in Penn Station. Allunghiamo ma di poco il nostro tragitto di ritorno in albergo. Ritiriamo il bagaglio e ritorniamo in stazione per prendere la LIRR verso Jamaica. Ci troviamo in un inferno incomprensibile. Sembra il 2046.

Treni di ogni sorta partono verso ogni direzione su vari livelli, il numero di persone in attesa è impressionante. La folla mi impedisce persino di vedere i monitor delle partenze, chiediamo indicazioni ma sono tutti indaffarati e ci forniscono informazioni sommarie. Ci mandano a destra, poi a sinistra, poi di sotto, e poi più sotto ancora. Alla fine troviamo la biglietteria giusta, facciamo i biglietti e individuiamo il track. Entriamo in un tunnel che sembra non finire mai, scendiamo altre scale e troviamo il treno per Jamaica.

Non sappiamo come siamo arrivati lì, ma ci siamo. Il treno è strapieno, ma siamo in trance agonistica e restiamo in piedi senza cercare posti a sedere, per scaricare a terra la tensione. Sono le 18e15, dovremmo arrivare a Jamaica per le 18e45. E’ così. Dopo aver attraversato il Queens come all’andata, scendiamo e ci mettiamo in fila per fare il biglietto per l’Air train, l’ultimo baluardo prima del terminal. La fila è corposa in tutte le biglietterie automatiche, il tempo stringe e e sembrano esserci dei problemi. Qualcosa non va, nessuno riesce a fare i biglietti. Iniziamo a preoccuparci, finchè un dipendente dell’aeroporto grida, sorridendo e scuotendo i suoi lunghi dreadlocks: “AIR TRAIN IS FREE! AIR TRAIN IS FREEEE!”. E allora via, tutti a bordo senza pagare. Arriviamo a destinazione, ci dirigiamo al terminal, passiamo i controlli, che in uscita sono sempre più rapidi, e raggiungiamo il gate a mezz’ora dall’imbarco.

Mentre attendo, do un occhio alla ricevuta del check in. Nella mail di conferma della British sembra manchi qualche dato per completare la registrazione. Mi dirigo al banco per chiarirmi le idee proprio mentre il nome di Francesca risuona distintamente nell’altoparlante aeroportuale. Me lo confermano, mancano dei dati, così completiamo insieme la registrazione mentre osservo Franci tornare dal bagno spaventata per aver sentito il suo nome amplificato mentre si rinfrescava. Non abbiamo perso l’ultima occasione prima dell’imbarco per passare inosservati. E’ una questione di coerenza. Dividiamo il salmone piccante acquistato al Grand Central Market e siamo di nuovo pronti a salpare.

Ormai è notte. Mi godo il decollo dal finestrino. Mentre osservo le luci di Long Island scorrere sotto di noi, mi vedo da fuori con lo sguardo svanito e dissolto verso l’America, come Jim in partenza per Parigi nel film di Oliver Stone. So che tornerò, anche se non so quando. Amo profondamente questa terra, come se fosse la mia. E’ una terra che sento dentro anche quando sono lontano, è una landa che non smetto mai di sognare e che mi attira da sempre a sè. Amo l’America senza partenze umoristiche. Che lo sappiano anche le forze di polizia statunitensi che mi fermeranno nel cuore di una notte a stelle e strisce del futuro.

Mi giro, vedo Franci stanca ma sorridente. La hostess ci porta da bere. Brindiamo a New York e al nostro ennesimo viaggio, mangiamo qualcosa. Siamo comodi, abbiamo tre posti in due, guardiamo un film e ci addormentiamo di un sonno insonne e pieno di vita. Arriviamo ad Heathrow un po’ acciaccati, la fila e la trafila ci prendono in contropiede, non ce l’aspettavamo. In un attimo siamo di nuovo in volo verso Roma. Alle 14 sbarchiamo nella Capitale, non ci sono fotografi ad accoglierci. Passiamo stranamente inosservati. Chiamo il parcheggio, due minuti e ci riportano Zelda, la macchina. Siamo di ritorno. Franci sviene. Io accelero prima di crollare. Abbiamo circa tre ore di strada davanti a noi. Mentre guido non faccio che pensare ai bambini. Il pensiero di rivederli mi regala emozioni fortissime, mi tiene sveglio mentre il sole consuma le mie ultime energie residue. Non siamo mai stati distanti tanto a lungo da loro. Arranco, alzo il volume della musica, mi verso l’acqua in testa e sul viso, e tiro dritto con tenacia. Facciamo rifornimento, bevo un caffè imbevibile, andiamo in bagno e puntiamo Jesi con decisione.

Chiamiamo i nonni, ci siamo quasi. Entriamo a Jesi, passiamo l’Arco Clementino, parcheggiamo sotto casa. Il tempo di scendere e i bambini sono già in strada. Corrono entrambi in braccio alla mamma senza pensarci. Un po’ mi spiace ma è giusto così, lo capisco subito osservandoli tutti e tre avvinghiati in una nuvola d’amore. Poi arriva il mio turno, li stringo a me e li bacio alla rinfusa, senza freni. Il viaggio è finito, un altro è in embrione. Siamo a casa. La famiglia è riunita. Non desideriamo altro che stare vicini gli uni agli altri, nella nostra piccola e accogliente dimora d’artisti. E così facciamo, abbracciandoci fino a che non viene notte, e ben oltre. Oltre ci sono la vita e le nostre cose di tutti i giorni. Oltre c’è il prossimo viaggio, che al momento osservo con desiderio e paura, come faccio sempre in fase d’approccio.

Grazie di cuore alle centinaia di pazzi che mi hanno letto, seguito e concesso credito, ci rivediamo sul prossimo volo, diretto chissà dove lungo le curve irregolari della Madre Terra, con l’auspicio di trovare un mondo finalmente in pace. Sistemo i bagagli, ripongo la penna, sfumo in dissolvenza. Il foglio è di nuovo pulito. Mi metto subito a disegnare i primi rudimentali tratti di una nuova chimera. Una di quelle che non bisogna farsi scappare.

6 DAY IN NEW YORK Mezzogno di finestate a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria

DAY 5

Martedì 5 settembre. Stamattina partiamo a rilento, come due diesel affidabili ma provati. La giornata è ancora da costruire, almeno in parte, ma lo è quasi sempre in realtà, perché in questa città i punti di riferimento sono mutevoli, e una meta può restare tale o tramutarsi in miraggio a lungo termine, perché non sai mai cosa ti riserverà la strada. Facciamo colazione con una certa flemma, e butto un occhio sulle crociere serali. Ne trovo una interessante su “Get your guide”, e la prenoto al volo. La partenza è fissata per le 18e30 al pier 36, nei pressi del ponte di Manhattan. Ci sembra un buon compromesso per fare un giro nella baia e ammirare la statua della libertà da vicino e NY dall’acqua. Ci spiace non poter visitare Ellis Island e il suo museo, ma le escursioni turistiche che conducono là sono delle vere trappole per topi, e non abbiamo alcuna intenzione di perdere ore in fila. Abbiamo tutta la mattina per fare un salto alla Public Library e poi dedicarci con cura al MOMA, il museo che ci attira di più insieme al Guggenheim. Quest’ultimo mi interessa soprattutto perché anni fa ci espose mio zio Gino Sampaolesi, artista straordinario e mio eterno mentore, scomparso nel 2018. Oggi avremo persino tempo di riposarci un attimo in hotel e di ripartire con calma. Un vero lusso per noi scalmanati globetrotter.

New York di mattina è una meraviglia che non mi stanco di ammirare. Mentre scrivo penso che mi manca perdermi nelle prime ore di NY, perché questa città totalmente fuori norma trasmette la sensazione che tutto sia possibile, che possa avvenire qualsiasi cosa, che in qualche modo ti sorprenderà. Mentre cerchiamo piccoli souvenir da regalare ai bimbi, facciamo una deviazione verso il Madison Square Park, l’ennesima imprevista parentesi verde immersa nella giungla antropica. Dirimpetto c’è il Flatiron, un palazzone strettissimo dal disegno molto particolare, simile a un ferro da stiro, che purtroppo in questo periodo è cinto da un cantiere che ne soffoca il respiro. Sembra una mummia che attende di essere liberata e tornare a giganteggiare in libertà. Al suo cospetto la Quinta e la Broadway si biforcano. Prima di andarmene cerco di capire su quale piano risieda il quartier generale del Daily Bugle, il giornale in cui Peter Parker lavora come fotografo freelance. Ma non è mai semplice rintracciare Spider Man.

Risaliamo la quinta e l’Empire si mostra in tutto il suo splendore: è la stella polare di NY, e la sua sommità stamani rifulge come un faro abbagliante. Lo capisci subito che è lo strumento di orientamento perfetto, una bussola da consultare ogni volta che si teme di essersi persi. Nessun altro edificio possiede un simile magnetismo, e in questi giorni lo abbiamo ammirato ad ogni ora, da tutte le prospettive possibili. L’Empire caratterizza NY, ma abbiamo deciso che non serve entrarci dentro o imbragarci per risalirne la vetta. Ci conforta che sia sempre lì, ovunque posiamo lo sguardo. La nostra nave è tornata in porto ogni sera, anche grazie a lui.

Oggi avvistiamo con frequenza le caratteristiche cisterne sui tetti, gli antichi serbatoi che servono a dotare anche i piani più alti degli edifici più datati di acqua corrente alla pressione corretta, grazie alla ingegnosa collaborazione della forza di gravità. E’ questo un altro elemento tipico di NY, grazie alle sue forme e al legno non trattato, che dona loro un aspetto vetusto e un po’ datato. E così anche la cisterna diviene elemento decorativo e pittorico, nonché naturalmente cinematografico, in un luogo in cui ogni cosa assume una valenza ulteriore.

Risaliamo la corrente fino alla Public Library, dove entriamo per un giro veloce. L’ingresso è gratuito. Per prima cosa facciamo una telefonata dal sottoscala sommerso in cui Sam Hall (Jack Gyllenhaal) chiamò il padre Jack (Dennis Quaid) per chiedergli un consiglio su come salvarsi la pelle. Noi chiamiamo una fonte che non riveleremo per chiedere come difenderci dal caldo abnorme che imperversa a NY. In un certo senso anche noi siamo sommersi, dato che non riesco ad essere completamente asciutto da un paio di giorni. Ci muoviamo senza orientarci dentro la Public Library, che è una sorta di labirinto in cui le indicazioni risultano approssimative.

Il cuore dell’edificio è la biblioteca pubblica, in cui tanti studenti e lettori entrano con ordine, rispettando il silenzio che il luogo merita. Osservo con particolare curiosità il chiosco centrale, quello in cui l’addetto di norma orienta il lettore nei giusti compartimenti, o in cui si prende e si restituisce un libro. In quanti film le indicazioni di un bibliotecario sono state utili a risolvere un mistero o a scoprire un indizio rivelatore? Senza quei chioschi certi film non sarebbero mai finiti. E’ sempre un piacere visitare simili templi analogici, carichi di storia fissata su carta. Proseguiamo e ci ritroviamo sopra le scale del grande ingresso, e davanti ai vetri infranti dalle masse d’acqua oceaniche di “The day after tomorrow”. Una sorta di assalto del mondo digitale a quello analogico, in estrema sintesi.

Usciti, ci facciamo una foto fra i possenti leoni che custodiscono il sapere di NY e saliamo a fare l’ennesimo giro sulla giostra di Times Square, che è un luogo etereo in un certo senso, che non appartiene alla luce o alle tenebre ma a entrambe insieme, quasi fosse una dimensione transitoria e di congiunzione fra realtà contrapposte. Qui giorno e notte sembrano convergere.

Il colore del cielo in particolare è indefinibile, forse perché le luci dei cartelloni pubblicitari confondono i nervi ottici di noi lillipuziani a spasso, forse perché è un arguto gioco di prestigio che lascia soltanto intuire l’inganno. Se guardo lassù in cima vedo quel cielo fra la notte e l’alba che caratterizza il finale di “Blade runner”, ma non saprei definirne la tinta, dato che tutto si muove impercettibilmente fra la luminosità accennata dell’alba in embrione e le sfumature plumbee dell’oscurità morente ma ancora aggrappata alla vita. Un Nexus 6 di ultima generazione si sta spegnendo, lassù da qualche parte.

Ma eccoci alla tappa principale di questa mattinata. Non potevamo commettere l’abominio di non visitare almeno uno dei luoghi d’arte della città, e abbiamo scelto il MOMA, il museo d’arte moderna, che è probabilmente il più simbolico e rappresentativo fra i tanti. O almeno così abbiamo concluso noi due ragazzi di campagna. Dedichiamo più di 4 ore ai quattro piani espositivi, ma in certi frangenti ci rendiamo conto di riservare troppo poco tempo ad opere d’arte significative. Cerchiamo di gustarcelo, ma a volte facciamo bocconi troppo grossi, senza però ingozzarci mai. Non abbiamo l’occhio o la conoscenza dei critici, e quindi ci affidiamo all’istinto e alle emozioni, che ci trasportano con leggerezza fra dipinti, fotografie e sculture di ogni tipo. Non so o mi rifiuto di saper leggere le cartine o le mappe, ma grazie a Franci non perdiamo nulla, nemmeno un padiglione di questa bizzarra creatura polimorfica. Forse noi europei siamo abituati all’arte, e ci stupiamo relativamente sul momento. Mi rendo conto soltanto ex post, osservando con cura le foto che ho scattato, della bellezza che è scorsa sotto i nostri occhi senza che ne cogliessimo a pieno l’essenza. Il tempo ha fatto la differenza, e forse avremmo dovuto scegliere alcune portate invece di assaggiare tutto il menu. Non importa, mi stupisco adesso, allestendo la mia selezione delle opere esposte al MOMA negli angusti spazi d’Osteria.

Usciamo dal Moma affaticati, gambe e schiena sono a pezzi. Sono le 15e30 ormai e facciamo due passi. Abbiamo tempo prima della crociera serale, e ci sediamo un attimo. Ragioniamo sul da farsi. Frattanto, do un’occhiata alla mail della prenotazione per salvare il punto di ritrovo sulla mappa. Non ci faccio caso immediatamente, ma dopo aver messo a fuoco leggo con un misto di terrore e incredulità che il ritrovo è fissato per le 16 e la partenza per le 16e30. Hanno anticipato l’orario di due ore! O forse qualcosa in fase di prenotazione è andato storto. Poco importa, abbiamo mezzora per prendere la metro e imbarcarci. Mentre camminiamo in cerca dell’ingresso più vicino, studio il tragitto. Dobbiamo prendere la linea arancione verso Chinatown e sperare che la metro passi subito. Tento persino di inviare una mail alla società per chiedere di partire più tardi, ma nessuno risponde. Il numero di riferimento non funziona. Arriviamo ai cancelli e la metro card è esaurita. E’ la fine, o quasi. Non saliremo mai su quella barca. Tuttavia proviamo, ricarichiamo la metro card e per la prima volta non va, non si ricarica! Perdiamo le staffe, e poi pensiamo che sia destino, che non c’è niente da fare. Il vento soffia in senso inverso oggi. Poi -d’un tratto- un signore ci chiama. Apre dall’interno il cancello laterale agli ingressi e ci dice: come on! Lo ringraziamo, ha intuito la nostra disperazione, e ci ha concesso un gesto di generosità. Scendiamo le scale due a due. Pochi istanti e arriva il nostro treno. Lo prendiamo e scendiamo a East Broadway alle 16. Ci fiondiamo fuori e camminiamo svelti verso il pier indicato. Ne abbiamo ancora per 15 minuti. Il caldo è devastante. L’umidità è al 200%. Grondo rabbia e sudore. Arriviamo alle 16e15, l’imbarcazione è ancora lì. Chiedo spiegazioni. Il tizio mi dice che la crociera delle 19 è stata annullata, che devo salire a bordo. Nemmeno mi controlla il pass, cosa che quasi mi offende ulteriormente. A bordo è una sauna finlandese, non trovo loco, ogni superficie disponibile è appiccicosa. Ce l’abbiamo fatta ma mi girano lo stesso perché avevo prenotato una crociera al tramonto. Il nostro ultimo tramonto a New York. E non ho alternative. Devo mandare giù il boccone amaro e guardare avanti.

Partiamo verso le 16e45, probabilmente per attendere altri disperati come noi. Ritrovo il respiro quando il personale di bordo apre un accesso a prua, dove io e Franci ci sistemiamo. L’aria della baia è fresca. Il vento mi asciuga e ci rilassa. L’escursione è gradevole. Oltrepassiamo il ponte di Manhattan e quello di Brooklyn. Superiamo l’East River ed entriamo nella baia. Downtown è bellissima vista da qui, ronziamo intorno alla Statua della libertà mentre incrociamo da vicino i traghetti arancioni che fanno la spola con Staten Island. Intravediamo Ellis Island. Il numero degli elicotteri turistici che partono da Manhattan è impressionante. Sembrano sfiorarsi e sfiorare i palazzi fra cui si sollevano con eleganza.

Ci scambiamo foto e impressioni con una giovane coppia di Bangkok. Me ne accorgo solo una volta tornato: i due simpatici thailandesi ci hanno fotografato fuori posa, mentre aspettavamo che passasse un traghetto dietro di noi. E ci hanno fatto le foto più belle che potessero fare. E’ un regalo inatteso, che abbiamo scartato poi, e che sembra contenere la storia di due che si conoscono nella baia di NY, su un battello sudaticcio. Lei ha un cappellino rosso della Emirates, lui una vistosa t-shirt islandese. Sembrano divertirsi, forse si piacciono. Magari si innamoreranno. Chissà. Dalle foto la storia sembra andare discretamente, ma non abbiamo idea di come prosegua, per fortuna.

Torniamo da questa parte dello schermo. L’incidente di percorso di poche ore fa è dimenticato, si è perso nell’oceano degli avvenimenti e dei colpi di scena. New York guarisce in fretta le piccole ferite del viaggiatore sprovveduto.

Sono quasi le 18 quando scendiamo dal traghetto. La temperatura si fa di nuovo rovente. Facciamo un po’ di strada lungofiume. E’ stupendo ammirare Brooklyn e i ponti da lì. Tagliamo verso Chinatown, con il ponte di Manhattan alla nostra destra. Sul nostro percorso si susseguono impianti sportivi, il Murry Bergtraum, in cui oggi si allenano atleti professionisti di football, e il Coleman, dove tanti ragazzini giocano a baseball.

Chinatown oggi ci appare degradata. Mi viene da definirla lercia, non trovo termine migliore. Anche le persone che incrociamo sembrano relitti alla deriva. Un odore acre invade le strade, l’aria è carica di smog. Un cinese con indosso solo i pantaloni giace in terra in stato di morte apparente ma nessuno ci fa caso. Cerchiamo un appiglio e lo troviamo in un bar, dove ci concediamo un bicchiere di vino per riaverci dalle fatiche del giorno e per montare un filtro gradevole a quel tratto fatiscente di città.

Riprendiamo il cammino e percorriamo a piedi quasi un’ora di strada fra Chinatown e l’East Village. New York torna ad essere gradevole e pulita, ci sentiamo di nuovo a casa. Ma siamo in fase di decompressione. L’imprevisto di oggi ci ha costretto ad accelerare in piena fase di stanca, abbiamo accusato questo contropiede fulmineo e adesso iniziamo a pagare il conto. I muscoli non reagiscono più dopo 5 giorni di tour de force. Ci lasciamo accalappiare da una bella birreria. L’insegna è scura, la luce all’interno è rossastra ed estraniante. Entriamo nella Bronx Brewery e ci beviamo una pinta di ottima Ipa.

Chiacchieriamo un po’ e guardando la mappa mi accorgo che siamo a due passi dalla Risotteria Melotti, un ristorante italiano che propone risotti in tutte le salse. Tentiamo la sorte e andiamo lì. L’osteria è carina, e un tavolo minuscolo, l’unico libero, sembra attendere noi. Non vogliamo deluderlo. Ci accomodiamo. Il cameriere che si occupa di noi è gentilissimo, il che non guasta. Scegliamo i nostri piatti, lui ci propone un buon bianco, lo assecondiamo. Siamo in un dolce stato di resa e accettiamo tutto di buon grado. Mangiamo e beviamo bene, ridiamo ripensando alla convulsa giornata appena trascorsa. Siamo sull’orlo di una crisi di sonno ma questa è la nostra ultima notte a New York, e non vogliamo mollare.

La notte scende sulla città. Usciamo e le andiamo incontro. Le ultime energie disponibili mi concedono un’idea. Torniamo in hotel con la metro e andiamo a fare un salto nel roof sito proprio in cima al nostro albergo. Non siamo mai riusciti ad andarci e questo è il momento. Adesso o mai più. Ma prima dobbiamo risolvere l’ultimo rebus. Dobbiamo prendere la linea arancione e poi cambiare nella fatal Washington Square e prendere la blu verso uptown. Arriviamo a West Fourth Street. Siamo appannati dal vino, ovattati dal neon estraniante dei treni, e ci infiliamo in un lunghissimo corridoio sotterraneo, in cui un incantesimo ha posizionato soltanto uscite in direzione downtown. Non sembra possibile, un tizio ci sorride e ci dice di proseguire e noi andiamo ma pare di non arrivare mai. In fondo a questo percorso infernale arriviamo come fosse un miracolo allo scambio per Uptown. Saliamo sul treno ridendo a crepapelle del nostro stato confusionale. Incredibilmente a Penn Station azzecchiamo persino l’uscita per il nostro hotel. In effetti a NY le uscite dalla metro sono una lotteria se non si possiede buona memoria. E noi l’abbiamo azzeccata una volta sola, proprio quella notte.

Entriamo in hotel e saliamo direttamente al rooftop. Pensiamo immediatamente a quanto sia assurdo non esser mai saliti prima. Eppure di possibilità ne abbiamo avute, e bastava pigiare un tasto. Entriamo nell’ennesima dimensione onirica. Capisco dalla qualità delle foto che ho scattato che le mie condizioni non erano delle migliori. Prendo un margarita per me e un cocktail leggero per Francy, che resta sospesa fra la veglia e il sonno.

Penso sia tardissimo, penso a quanto abbiamo vissuto anche oggi. E’ un miracolo essere ancora in piedi a quest’ora. Dopo aver danzato in un cerchio di fuoco, ci siamo sbarazzati dell’ennesima sfida con una scrollata. Poi guardo l’ora, e mi accorgo con stupore che sono le 21e30. Eppure a me sembrano le 2 di notte di dopodomani, arranchiamo ma non cediamo per rendere onore alla meraviglia che ci circonda. E’ pur sempre una circostanza rara. Ci aggrappiamo coi denti a questa notte magnifica sui tetti di NY. Il nostro sguardo si perde al di là del vetro che ci separa dal vuoto.

I grattacieli si mescolano al riverbero degli arredamenti luminosi del roof creando l’illusione che Godzilla e i suoi fratelli si stiano avvicinando a passo felpato. Mezzosogno al cloro. Una pioggia purpurea scende sul viso di Francy, che è costellato dal riflesso delle luminescenti spire del rettile che si fa sempre più vicino e ormai incombe su di noi. Sulle sue scaglie scorre tutta la storia del mondo. Chiudiamo gli occhi per non vedere. E’ un sogno denso che vivo ancora adesso, ma sul momento ci sfugge via fra le mani e non riusciamo a trattenerlo, tanto è viscosa e malferma la nostra presa.

Per noi è l’ultima notte qui, è una notte senza pari, una di quelle che ci resteranno addosso come una seconda pelle. I mostri tentano di riportarci indietro, sono i mostri inviati dal domani, che è pur sempre un giorno da vivere. Siamo immagini sulle scaglie di serpenti alati, sembriamo proiettati da chissà dove sul tetto del Marriott. Siamo i nostri incorporei avatar, volatili e senza peso. Siamo guerrieri Na’vy in cerca di un’oasi, di una connessione con il pianeta che pare lontanissimo eppure è tutto intorno a noi. Ci nascondiamo all’ombra dei giganti, fra le foreste d’acciaio in cui ci riscoprimmo liberi e selvaggi, per non farci trovare.


“O fratelli e sorelle della pallida foresta.
O figli della Notte.
Chi di voi parteciperà alla caccia?
Arriva la notte con la sua legione porpora,
ritiratevi ora nelle tende e nei sogni.
Domani entriamo nella città della mia nascita. Voglio essere pronto”.

James Douglas Morrison

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria

DAY 4

Lunedì 4 settembre. Lo schema si è dimostrato vincente, e le dinamiche mattutine non cambiano. Mangiamo giusto un pochino meno del solito. Usciamo e tentiamo di nuovo la sorte con la metro. Sono preoccupato, considerata l’esperienza della sera prima, ma siamo diretti a Coney Island e non abbiamo scelta, perché per arrivare all’estremità sud di Brooklyn la strada è lunga. Stavolta fila tutto liscio, prendiamo la linea espressa per Coney Island e Brighton Beach e in circa tre quarti d’ora arriviamo a destinazione. La metro esce presto allo scoperto e possiamo goderci una nuova porzione di New York dal treno. La novità del giorno è un cielo carico di umidità che rende l’aria quasi irrespirabile fin dal mattino. Siamo presi in contropiede dal rapido e imprevisto mutamento meteorologico, con cui dovremo fare i conti per i prossimi due giorni.

Usciamo dalla stazione di Stillwell Avenue anticipando come di consueto il turismo di massa. Coney island in realtà è una penisola sita proprio davanti all’Oceano Atlantico, una striscia di terra con cinque km di spiaggia e una storia travagliata alle spalle, fatta di saliscendi simili a quelli che dominano il suo skyline. In effetti l’isola dei conigli è un enorme luna park, un parco giochi dall’aspetto retrò e un tantino decadente, dominata dalla Wonder wheel, una delle ruote panoramiche più famose al mondo. La popolazione che incrociamo sembra prevalentemente di origini ispaniche, dato che mi somiglia più del solito. Pare un’umanità un tantino trascurata, dall’aspetto consunto e dagli abiti trasandati. D’altronde questa è la gloriosa base dei Guerrieri della notte.

I palazzoni che si stagliano dietro il parco giochi sono fatiscenti e contribuiscono a un certo degrado estetico. La meccanica contorta delle attrazioni e alcune icone dal ghigno malefico aggiungono risvolti horror al contesto generale. Pennywise o il Joker potrebbero essere di casa da queste parti. Persino i bagnanti non sembrano al mare ma in una tendopoli improvvisata nel deserto. L’acqua dell’Atlantico però è fresca e tanto basta per allietare una giornata che si avvia a diventare rovente.

Certo, forse oggi abbiamo raggiunto la nostra prima tappa persino prima del previsto, perché la gente in giro è poca, la luce non è delle migliori, e i baracconi sono ancora chiusi o stanno muovendo pigramente i primi passi verso l’apertura. L’atmosfera è compassatissima, dominata da una malinconia che probabilmente si acuirà col finire della stagione estiva. Siamo in una località di mare, una delle preferite dai newyorkesi, ma dai movimenti dei gestori s’intuisce che siamo in fase di stanca, che sono le ultime aperture prima del letargo, e le persone sembrano trascinarsi più che camminare.

Percorriamo uno dei moli fino in fondo, c’è gente che pesca, e la dinamica -nella sua semplicità- mi ricorda il ponte di Galata a Istanbul, che però, al contrario di questo, era un totale e irrefrenabile bordello, un bazar a cielo aperto sospeso sul Corno d’oro. A dire il vero, questo parallelismo è una forzatura palese, ma non è malizioso. Nasce d’istinto, e credo meriti una chance. Qui regna il silenzio, le persone parlano poco e a voce bassa, forse per non spaventare i pesci. E’ anche uno dei tanti moli visti al cinema, uno di quelli che puoi collocare ovunque, anche fosse il molo sul Pacifico di “Un giorno di ordinaria follia”, che mi viene in mente senza forzare.

Desideravo vedere questo posto e saggiarne l’atmosfera, e avevo già capito in fase di pianificazione che sarebbe stato difficile collocarlo senza sacrificare altro. Ma non ho mai pensato di lasciarlo fuori dal nostro piano di viaggio. Non avevamo alcuna intenzione di adagiarci sulla ruota delle meraviglie di Allen o di rivoltarci le budella sulle montagne russe, ma è facile immaginare che questo luogo circense acquisti fascino quando è a pieno regime, e quindi di notte, quando le luci e i suoni del luna park la fanno da padroni. Ma Coney Island conserva indubbiamente fascino anche in questa modalità. Certo, sarebbe sufficiente una luce diversa per mostrarne lo shining, l’intrinseco scintillio che poi è dentro ogni cosa e dentro ogni luogo, ed emerge soltanto se irradiato in modo adeguato. Basti pensare all’arte in tal senso, e a quanto sia importante valorizzarla con la giusta illuminazione.

Mi guardo intorno e penso che il tono sbiadito e l’aria immobile e pesantissima di oggi non rendano giustizia alla costa sud di Brooklyn, che sembra soltanto una pallida idea di quel che potrebbe essere in circostanze diverse. Poi, non so come, mentre passeggio per questo lungomare un po’ desolato mi assale dal passato un ricordo imprevisto: ero piccolo e con la famiglia andammo dagli zii a Roma, forse per un matrimonio. Eravamo tanti per l’occasione, e non potevano ospitarci, non tutti per lo meno, e così alloggiammo in un albergo di Ostia Lido. Credo fosse inverno, quanto meno non era estate. La desolazione era un po’ quella di adesso, e c’era qualcosa nella fotografia di quel giorno a Ostia che mi riconduce al film che danno oggi, qui a Coney Island. Una sensazione strana, perché mi riporta a galla un ricordo nel suo complesso, come fosse la somma percettiva e incorniciata di tutti i sensi insieme, come se non fosse passato un giorno, come se fossi bambino adesso, o fossi stato adulto allora. Cercavo qualcosa del genere a Coney Island, ma non sapevo esattamente cosa. Questa terra di passaggio ha spalancato una porta mnemonica nella mia mente, e non mi è dispiaciuto affatto dare una sbirciatina oltre la soglia di una dimensione sì nostalgica e poetica.

Alcuni tizi, dall’aspetto truce e niente affatto atletico, giocano a fronton. Due coppie colpiscono la palla più forte che possono, chi a mani nude chi con la dote di un supporto, e la sparano sul muro di fronte, a una distanza breve e con uno spazio assai limitato. Devono essere lesti a prenderla senza scontrarsi, ma il gioco sembra piuttosto violento e doloroso. Una versione hard dello squash. Cerco fra i chioschi il mefistofelico mago Zoltar, quello che realizza anche i più strani desideri, ma temo di aver sbagliato luna park. E poi sono già grande, e non saprei cosa chiedere. Dietro l’angolo c’è Nathan’s, che dicono faccia gli hot dog più buoni di tutta NY, ma a quest’ora del mattino è impensabile mandarne giù uno. Ci riserviamo la possibilità di mangiarne uno nei chioschi mobili che si spostano dentro Manhattan, se avremo la fortuna di incontrarne uno.

Il sole adesso impazza, e il caldo è opprimente, ci sediamo sotto una pensilina che pare una fermata del bus. Una tizia che vende bibite abusivamente gioca a nascondino con la polizia utilizzando la colonna che sta alle mie spalle per nascondere il frigo portatile quando passa la pattuglia: se si fermano potrebbero anche concludere che sia mio, dato il mio aspetto vagamente centro-americano. Questo timore è probabilmente il retaggio di una vecchia esperienza. Anni fa io e Franci, sempre noi, ci trovammo nel cuore della notte di Yuma, nel profondo sud dell’Arizona, a poche miglia dal confine col Messico. Ci imbattemmo in un mega posto di blocco. Esercito schierato, controllo capillare dei documenti con pile sparate in faccia, cani a bordo, interrogatorio con il classico “Do you like America?” come ciliegina finale. Fu un’esperienza elettrizzante e formativa. Mi chiedo da allora se i militari pensino che qualcuno possa realmente rispondere “No, non mi piace l’America” in condizioni tanto stringenti.

Dopo aver bighellonato avanti e indietro lungomare, ci addentriamo a Little Odessa, una parte nota per ospitare una nutrita popolazione di origine russa. Qui la sopraelevata dei treni domina ogni cosa e crea un ambiente particolare, una sorta di sottomondo un po’ cupo e malandato, un luogo assai poco luminoso e ospitale, e niente affatto raccomandabile. E anche la gente sembra poco propensa alla solarità e alla leggerezza. Ma sono sensazioni estemporanee, che lasciano il tempo che trovano. E a Little Odessa di tempo ne dedichiamo davvero poco.

Risaliamo verso la sopraelevata dei treni e riprendiamo la metro fino al cuore di Brooklyn. Scendiamo a Prospect park. La prima cosa che ci colpisce uscendo è il numero ingente di agenti di polizia schierati in zona. Alcune strade sono chiuse, molte sono le deviazioni e altrettanti i percorsi obbligati, in cielo volano vari elicotteri, forse perché entriamo nelle zone di competenza di Henry, il più avido e debole fra i Bravi Ragazzi di Scorsese. Temiamo sia accaduto qualcosa di grave, ma a ben vedere i volti degli agenti del NYPD sembrano distesi, lo spiegamento di forze è notevole ma forse stanno allestendo il terreno per un evento di una certa portata. La seconda cosa che notiamo è che il Prospect è senz’altro un parco bello e molto frequentato dalla cittadinanza, ma non gode delle stesse cure di cui beneficia Central park, di cui sembra il fratello intrigante ma un po’ trascurato.

Scopriremo con un pelo di ritardo che oggi è il labour day, la festa dei lavoratori che negli Stati Uniti si tiene il primo lunedì di settembre. Una sorta di festa di fine estate, anche se la temperatura adesso è torrida e l’estate sembra in piena enfasi. Quest’anno alla festa è abbinato il Carnevale Caraibico di New York, ma noi intuiamo soltanto che sia in corso una parata, perché da lontano si sente un gran casino in giro per strada e ogni tanto sfrecciano auto a tutto gas con bandiere giamaicane e gente che a bordo festeggia con musica a palla. Sfioriamo soltanto la coloratissima festa dei popoli latini, che sfilano a suon di tamburi, fischietti e musica in Eastern parkway fino a Grand Army Plaza. Siamo defilati ormai, e la stanchezza accumulata non ci rende lucidi e reattivi al punto da prendere, sterzare e impennare al volo verso il cuore della festa. E’ un peccato aver perso la sfilata, ma la fortuna è che NY non ti da tempo di pensare, devi continuare ad andare, a percorrerla e scoprirla senza rimpianti per quel che non è stato, perché tanto sai bene che ci sarà qualcos’altro di cui stupirsi, oltre la prossima svolta.

Dopo Prospect percorriamo la quinta strada, una via molto allegra e colorata, piena di locali e baracchini. Purtroppo tanti esercizi commerciali sono chiusi per la festa dei lavoratori. Usiamo la quinta come bussola ma facciamo l’elastico nelle vie che la intersecano e scopriamo case dai disegni e dalle tinte deliziosi, molto simili a quelle di Soho e Greenwich, ma più austere e signorili, dato che al loro cospetto siamo persuasi a un certo rispetto reverenziale. Questo è il cuore di Brooklyn, un cuore sobrio ma caldo, che si fa attraversare con piacere, senza attriti. Noi cerchiamo di fare la cosa giusta, come Sal e Mookie nel film di Spike Lee.

Io e Franci non abbiamo sentito mai un caldo simile. Non parlo solo della temperatura, parlo della qualità opprimente del caldo che a tratti si fa soffocante. L’umidità è oltre i livelli di guardia e io non smetto mai di sudare. Ci fermiamo in un localino per una pausa. Oggi ci rendiamo conto di essere palesemente in riserva e ci concediamo un’insalata per pranzo, a maggior ragione perché la giornata sta prendendo una piega impegnativa. C’è tanto da camminare, e dalla mappa capiamo che avremo bisogno di energia supplementare per raggiungere i nostri obiettivi. Anche gli zaini sembrano pesanti, per quanto contengano poco o nulla. Dentro c’è forse il peso dei giorni passati, e la schiena inizia a mandare segnali di disapprovazione.

Poco importa, ripartiamo. Come dicevo, è quasi tutto chiuso ma in quel quasi Franci riesce comunque a trovare un mercatino di abiti usati davvero originale. Il negozio è popolato da gente bella e stravagante. Ognuno sembra uscire da un tempo diverso, ognuno ha il suo stile ben marcato. Franci trova una giacca fantastica, una di quelle che le calzano a pennello perché richiamano l’abbigliamento londinese pop rock degli anni 70. E a lei quello stile si addice alla perfezione. Ora la giacca c’è, le mancherebbe soltanto un palco per esprimersi al meglio.

Proseguiamo e passiamo davanti al Barclay center, un tempio del basket di cui ci limitiamo a rimirare gli esterni, poi i palazzi ricominciano gradualmente a stagliarsi verso il cielo e fra questi spicca la Brooklyn Tower, il mio grattacielo preferito, per quanto alcuni sostengano che abbia rovinato il profilo di Brooklyn. Nera e stretta come i pantaloni di pelle di Jim, sembra la torre da cui svetta l’occhio di Mordor ne “Il signore degli Anelli”, oppure una di quelle che si levano sui pianeti alieni dell’Impero in “Star Wars”, tanto è magnetica e oscura.

Sono le tre ormai e il traffico inizia a farsi prepotente, ancora si avvistano auto festanti in giro, siamo in prossimità del ponte di Brooklyn, ne vediamo l’inizio e ci infiliamo alla sua destra, per scendere verso Dumbo. La zona sembra un tantino malfamata, per la prima volta abbiamo la pur vaga sensazione di non essere nel posto giusto, ma andiamo avanti senza patemi e dopo varie deviazioni e alcuni errori che ci sfiancano arriviamo Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Dumbo è un delizioso e vivace quartiere incastonato come un diamante fra il ponte beige di Brooklyn e quello azzurrino di Manhattan.

In quel coacervo di vie solcate e sovrastate da ponti troviamo un luogo magico. Immagino senza fatica Max, Noodles e soci scappare dalla furia vendicativa di Bugsy, quel colpo di pistola che squarcia la via e la vita del piccolo Dominic, centrato alle spalle senza pietà. Il cuore di “C’era una volta in America” è qui davanti ai miei occhi innamorati del cinema di Sergio Leone, e io vago in contemplazione, quasi disorientato, con la colonna sonora del film che mi percorre come fosse un brivido. E’ una gioia incontenibile essere qui. Questo è l’angolo di New York che bramavo più intimamente, e farò di tutto per prolungare la nostra permanenza qui.

Inanello foto in serie, per immortalare ogni sfumatura possibile di quel luogo che in fondo sembra vivere da sempre dentro di me. Non voglio perdere nulla di quanto osservo, voglio catturare ogni dettaglio, farlo prigioniero, e poi fonderlo nei miei ricordi per sempre. Il ponte di Manhattan da Washington street è una meraviglia, sono devastato in questo momento ma l’estasi prevale. Amo la mia ragazza, che ha contribuito a realizzare certi sogni che magari all’inizio erano solo miei ma che poi abbiamo sempre costruito e vissuto insieme. Si è sempre fidata di me nonostante l’abbia condotta anche in luoghi discutibili in condizioni discutibili, ha sempre trovato il lato positivo in ogni situazione anche quando magari ero io a preoccuparmi, e i nostri sogni sono divenuti reali.

Qui a Dumbo la osservo con attenzione mentre la fotografo: è distesa e sorridente, e la fatica le scivola via con eleganza come sempre, e penso al fatto che siamo indissolubili. Amo profondamente questo nostro film di genere indefinito che mi scorre innanzi proprio mentre sono al cospetto della location simbolo di “C’era una volta in America”, che è l’opera cinematografica che preferisco perché rappresenta la vita stessa, in tutte le sue forme, da quelle più limpide e luminose a quelle più cupe e dolorose. E’ il momento perfetto, in cui ogni cosa è al suo posto.

Amo New York, amo la vita che in questo luogo pulsa incessantemente, e non si può non consacrare un momento simile con dei flights multicolore nella Evil twin brewery, che a due passi da qui propone un menù vastissimo di birre alla spina di ogni tipo e gradazione. Fra l’altro, la birra produce effetti diuretici, come noto, e l’unico bagno disponibile in zona è posizionato proprio sotto la cartolina che non riuscivo a smettere di guardare. Ne approfitto per un break e una nuova sortita al suo cospetto. La birra ci rilassa, i muscoli abbandonano la tensione accumulata. Chiedo di salutare per l’ultima volta la visione cinematografica del Manhattan Bridge e ci dirigiamo lungo fiume per guardare lo skyline di NY dal suo profilo migliore.

Lungo la via incrociamo un fantastico magazzino della Brooklyn Historical Society, che contiene locali e negozietti vari, ma ci rendiamo conto passandoci accanto che dentro la temperatura è prossima allo zero. Non vogliamo ammalarci e lasciamo perdere. Scoprirò solo in Italia che abbiamo perso la possibilità di ammirare la vista dal terrazzo che si affaccia sull’East river. Poco più in là c’è St. Anne Warehouse, un bel teatro dalle fogge simili a quelle del magazzino, ricavato da un antico deposito di tabacco.

Proseguiamo verso la promenade e ci fermiamo nel Brooklyn Bridge Park, da cui ammiriamo Manhattan in tutta la sua bellezza. Da qui i giganti sembrano veleggiare su un’enorme chiatta, che si direbbe alla deriva se non fosse ormeggiata al ponte di Brooklyn, che pare trattenerla senza alcuno sforzo, come il braccio di un padre col figlio. Non possiamo far altro che starcene seduti ad ammirare in silenzio un simile spettacolo.

Ormai sono le 5, non è abbastanza per godersi il tramonto, ma noi iniziamo a deambulare con fatica, io sto perdendo la posizione eretta che l’uomo ha conquistato con tenacia e determinazione, e prendiamo l’ardua decisione di salire le scale verso il primo ingresso disponibile, in anticipo rispetto ai tempi previsti.

Il ponte di Brooklyn mi trasmette subito un’idea di immensa solidità, è il ponte di un transatlantico che solca l’East river in modo poderoso, e i tiranti si intersecano fino in cielo, dove è impossibile intravederne la sommità. Oltre le lanterne utili alla visione notturna e a rendere più amena la vita della ciurma a bordo, spiccano degli strani dischi in posizione verticale.

Le teorie a supporto sono le più disparate. Sono Wagasa, gli antichi ombrelli giapponesi, costruiti con maestria, bambù, corda e washi per proteggere il bastimento dall’ira divina? Sono 78 giri su cui scorre imperterrita la travagliata storia della costruzione del ponte? O rappresentano i ventagli che Daitarn III utilizza come scudo solare? Non lo sappiamo, ma di certo il cielo è di nuovo terso, il vento ha spazzato via parte dell’umidità corrosiva di oggi, e noi ci divertiamo a osservare il sole che cala fra i ciclopi di Lower Manhattan.

Scattiamo foto in tutte le direzioni, alla ricerca della giusta angolazione, dello scivolo migliore per le correnti luminose che soffiano fra gli spogli alberi di questa nave possente, mentre i veicoli viaggiano quasi impercettibilmente sotto coperta. La barra del timone è dritta, guadiamo il fiume senza tentennamenti con l’illusione di camminare.

Il ponte di Brooklyn è un nastro trasportatore azionato dalla forza di mille uomini, e noi scivoliamo senza attrito sulla sua superficie. Attracchiamo dall’altra parte sorridenti ma sorpresi dalla rapidità della traversata, che vorremmo ripetere avanti e indietro finchè non sarà notte e poi giorno e poi notte ancora. Mentre scendiamo, Francy trova un cappello adatto a me che ho un cranio inadatto ai cappelli. Lo provo, è perfetto, che non significa che mi stia bene, ma per 5 dollari possiamo procedere.

Siamo a terra adesso, passeggiamo ancora un pochino prima di riprendere la metro, di cui non abbiamo più alcuna paura. Puntiamo dritti al Grey Dog, un caffè di quartiere non lontano dal nostro albergo, famoso per le colazioni e per gli hamburger. Divoriamo con gesti famelici due panini squisiti. Io concludo la serata con un margarita, che è un cocktail molto diffuso nella letteratura newyorkese e uno sfizio che volevo togliermi.

Non ci resta che l’ultimo miglio prima di arrivare nella nostra casa temporanea. La sera avvolge la città della solita elettricità, è un peccato andare a dormire, ma abbiamo dato tutto. Il gps segna altri 20 chilometri e siamo piegati dai crampi. Arrivare in hotel è un sollievo. Lavarsi, stendersi al chiaro di luna ad asciugare, e poi stirarsi e fare le fusa come gatti prima di sprofondare senza gravità fra le nuvole e le profondità del firmamento. Ora siamo soltanto punti indistinti nella notte, frammenti di umanità sospesi fra la terra e il cielo di New York, storie sommate ad altre storie in questo mezzosogno di finestate.

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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Posted by osteriacinematografo in immagini, Morrison, James Douglas, musica, Pensieri, Storie, Viaggi

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DAY 3

Domenica 3 settembre. La sveglia suona presto anche stamani, ma la mia reattività accusa il colpo del giorno prima. Franci invece è pimpante e volitiva, mi trascina di sotto in stato di semi incoscienza, ci concediamo la solita super colazione e usciamo nell’aria fresca del mattino.

Sembra un’altra bella giornata, il traffico è leggero, Times square è linda e deserta, sembra impossibile paragonarla a quella della notte appena trascorsa, eppure è sempre lei. Ho ancora negli occhi il caos fiammeggiante e le esplosioni di luci, suoni e colori che riempivano ogni spazio fruibile, suscitando l’illusione che fosse giorno in piena notte. Questo sembra un altro mondo, un altro tempo. E in effetti forse è così, tutto muta continuamente. In un teatro danno il musical di Ritorno al futuro, un vero cult, una di quelle opere che a casa girano ciclicamente. Cerco al volo i biglietti on line per la sera ma non troviamo posti vicini e rinunciamo.

Anche stamattina New York ci regala una luce straordinaria, è bello camminare di buon passo fra i grattacieli. Il sole fa capolino a intermittenza, infilandosi fra le fenditure e rifrangendosi sui vetri a specchio in modo delicato, come se l’alba fosse sospesa a mezz’aria. Percorriamo poco più di due km a piedi per arrivare al negozio di noleggio bici convenzionato con il sightseeing pass. In cinque minuti ritiriamo le biciclette e ci avviamo verso Central park, che si trova a poche pedalate da lì.

Oggi le nostre mire non sono le stesse di ieri. Oggi intendiamo rilassarci, vivere il momento con la dovuta calma, goderci NY sotto un profilo diverso, senza farci prendere dal solito demone del viaggio che in certi casi ci spinge a superare l’asticella delle possibilità umane. Oggi è diverso, oggi non può essere come ieri, perché sarebbe impossibile reggere e perché ieri è una dimensione lontana nello spazio e nel tempo, vissuta con ritmo e intensità tali da essere irriproducibile. Oggi vogliamo goderci un po’ di natura senza affanni, e Central Park fa esattamente al caso nostro. Un nuovo viaggio nel viaggio.

Entriamo nel parco e per prima cosa cerchiamo di comprenderne la conformazione. Un circuito esterno circumnaviga tutto il perimetro del parco in senso antiorario. La città sonnecchia ancora, nel parco c’è poca gente e noi giriamo spensierati ma non proprio senza meta. Qua e là affiorano le splendide e primordiali rocce levigate dagli elementi che impreziosiscono varie zone del parco. Saltiamo a piè pari lo zoo, come da consuetudine, molliamo per qualche istante le bici e ci affacciamo su Sheep Meadow, uno dei grandi prati con vista di Central park. Qui, newyorkesi e non si rilassano, chiacchierano, prendono il sole, leggono, amoreggiano, si godono un picnic, giocano con ogni tipo di palla. E’ solo una rapida presentazione reciproca, perché è vero che oggi andiamo tranquilli, ma è altrettanto vero che non è il momento di fermarsi. Lo faremo poi.

Scopriamo presto che si deve scendere con frequenza dalla bici, dato che i luoghi da visitare nelle zone centrali del parco si possono percorrere soltanto a piedi. Salire e scendere dalle bici è un’operazione che eseguiamo con frequenza, fino al momento in cui inizieremo a fregarcene un po’, rimanendo in sella per tutto il tempo possibile, salvo i tratti di sentiero più stretti in cui sarebbe impossibile non travolgere i passanti.

Pedaliamo per un breve tratto e parcheggiamo le bici in prossimità di The mall and literary walk, un grazioso viale alberato che trascina indietro nel tempo. Il padre del romanzo storico è lì a vigilare. Sembra effettivamente un’ambientazione letteraria ottocentesca, e carrozze e dame d’altri tempi ci calzerebbero a pennello. Non disdegneremmo nemmeno un parasole, dato che le temperature sembrano giocare improvvisamente al rialzo. Bancarelle, ritrattisti e artisti vari guarniscono il percorso, e certi acquerelli somigliano ai quadri in cui saltarono magicamente Bert, Mary Poppins e i fratelli Banks. O forse la mia immaginazione è instancabile e cerca come sempre una via di fuga.

Ci sediamo ad ascoltare la voce incantevole di Maya, una giovanissima cantante che, accompagnata dal fratellino e supportata tecnicamente dal padre, propone vari pezzi musicali, in particolare dei Beatles. I fratellini sono bravi anche a suonare piccoli strumenti. La piccola ci intenerisce e decidiamo di regalarle il dollaro che ci ha consegnato Irene a casa, prima di partire. Lei lo aveva conservato dal precedente viaggio in America, che ricorda bene -nonostante fosse piccolissima- perché fu la prima di noi ad avvistare un orso. “Orcio! Orcio!” – gridò all’epoca a Yellowstone, senza che nessuno di noi intuisse all’istante che c’era un giovane Grizzly nelle vicinanze. Pensiamo che far passare simbolicamente quel dollaro dalle mani di Iri a quelle di Maya sia un’idea carina, e la mettiamo in pratica.

Proseguiamo lungo il Mall e finiamo proprio sotto il terrazzino del Bethesda, luogo frequentatissimo da modelle in cerca della posa e dello scatto giusti, a quanto pare, e da chi decide di farsi un giretto in barca nel laghetto più carino e scenografico di Central park. Il cinema si è valso a tal punto di questo specchio d’acqua e dei luoghi limitrofi che sembra di essere costantemente a spasso in un film. Kramer contro Kramer, La leggenda del re pescatore, Harry ti presento Sally, Hair, Autumn in New York, Il diavolo veste Prada, Wall street, Home alone, Elf sono i primi che mi vengono in mente, ma l’elenco è lungo.

A me pare un quadro di Monet, su cui il pennello si appoggia con leggerezza, tracciando linee chiare ma rapide: la luce è al centro di ogni cosa, i dettagli sembrano scappare via, ma il momento nel suo complesso viene catturato, imprimendosi per sempre nelle distese di colore che popolano il parco.

La mole di gente cresce via via che passano i minuti, ma questo luogo trasmette una sensazione di pace, di tregua. Qui sembrano tutti tranquilli e lontani dalla frenesia del centro, che pure è lì a ridosso a scuotersi, mordere e sbuffare. Osserviamo le barchette muoversi placide e incorporee sulle acque del lago, e sembra di essere in un altro tempo, un tempo letterario, un tempo di candidi segreti e storie sussurrate, un tempo denso di parole raccontate con cura e dovizia di particolari. Qualche anno fa in Svezia abbiamo fatto un tentativo con una barca a remi, ma non è andata bene per una questione di equilibrio, e non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di riprovare. Central park è una vera e propria oasi, una parentesi verde ricavata dall’uomo per ricordarsi di sé. Provo una punta di invidia per tutti quelli che possono correre in un posto come questo. E sono tantissimi.

Torniamo verso le bici mentre una piccolissima violinista si esibisce con grazia. Riprendiamo il circuito principale e a questo punto il traffico aumenta vistosamente. Avvisto due risciò davanti a me. Alla guida ci sono due ragazzi di colore vivaci e super sorridenti, a bordo due signori sulla cinquantina, apparentemente inglesi. Qui vorrei un attimo divagare sulla differenza fra ragazzi sulla cinquantina e uomini sulla cinquantina, ma mi limito a rivendicare il fatto di appartenere in modo piuttosto evidente alla prima categoria. Ma torniamo a noi, sono ormai a ridosso dei due risciò, e sulla loro scia sento un odore che mi è capitato di sentire anche a Manhattan. E’ odore d’erba, e per la prima volta vedo anche distintamente da dove proviene. In città quell’odore è ad ogni angolo, ma forse a causa della mia vista di talpa, o del fatto che a NY hai altro a cui pensare, è più difficile intercettarne la provenienza. Prima di partire ho letto quanto basta per sapere che da un paio d’anni la cannabis è legale a New York, ma non pensavo a un utilizzo tanto palese dell’ameno espediente ricreativo. Da buon forestiero di provincia stupefatto, chiamo Fra -che è defilata rispetto a me- per mostrarle i tizi che di prima mattina se la ridono a bordo dei risciò, e la cosa buffa è che non mi risponde lei ma un ragazzo in bici che ridendo mi dice in romanesco spinto: “L’hai visti sti sacchi demmerda??”. Mi fa ridere, riguardo Franci, mi giro di nuovo verso di lui che mi sorride prima di scomparire in mezzo al classico gruppone di inseguitori al Tour de Parc.

Subito dopo, forse per rimanere in tema di alterazioni percettive, perdiamo tempo a cercare una statua raffigurante Alice in Wonderland, e la troviamo grazie al solito intuito di Franci. Alice nel paese delle meraviglie è una storia di gran voga a casa nostra. Scatto qualche foto alla statua, che raffigura Alice, il bianconiglio e il cappellaio matto, che è il mio personaggio preferito, a maggior ragione dopo che il maestro di visioni Burton scelse Johnny Depp per interpretarlo. Riprendiamo la tournèe, finchè -dopo una manciata di minuti- Franci si accorge di aver dimenticato lo zaino, con dentro passaporti, portafogli e altri effetti personali. Mentre io vado in blocco e do già per scontato che ci dovremmo recare presso l’ambasciata italiana, lei sgrana gli occhi e senza pensarci si getta a capofitto fra le bici che sfrecciano in senso opposto. La seguo, ma è dura starle dietro, e a un certo punto taglia la pista verso sinistra e si butta in discesa sopra un prato e poi in slalom fra gli alberi, violando presumibilmente tutte le norme del parco in una volta sola. La perdo di vista, dev’essere di certo un film di cui lei è la protagonista alata, la trama è avvincente ma la situazione è tesa, impossibile capire come finirà. Poi la vedo risalire la china sorridente e sollevata. Lo zaino è di nuovo sulle sue spalle, dopo averlo recuperato nelle profonde cavità della tana del bianconiglio. Siamo salvi, Alice è stata fedele alla sua strampalata amica. Sono certo che non sarebbe stata altrettanto magnanima se lo zaino fosse stato il mio.

Terminate le manovre acrobatiche, procediamo fino al lago più grande di Central park, dove ci concediamo una breve pausa e prendiamo una decisione abbastanza improvvisata. Pedalare non ci pesa affatto, nonostante la stanchezza accumulata il giorno prima, abbiamo già percorso un buon tratto del parco, Harlem sembra lì a due passi, anzi è lì a due passi, e così decidiamo di farci un salto, prima di ridiscendere il parco dal lato opposto. Così, quando è circa mezzogiorno, entriamo ad Harlem.

Cerchiamo soltanto per curiosità una chiesa per assistere a un ritaglio di messa gospel. Le strade sono semivuote, e dal buon numero di automobili parcheggiate anche in doppia fila in prossimità degli edifici di culto intuiamo che la popolazione locale dedichi la domenica alla funzione con assiduità e partecipazione. In effetti solo nei minuti successivi Harlem inizierà ad animarsi. Nel frattempo incontriamo un ragazzo di origini senegalesi simpaticissimo e assai loquace. Mi pare si chiamasse Sam. E’ un programmatore, lavora a New York e a Milano, abita da quelle parti e parla un italiano perfetto, ci da qualche indicazione, ci consiglia -scherzando ma non troppo- di unirci a un folto gruppo di ciclisti che stanno di là della strada: “vi mettete in coda e nessuno si accorge che non fate parte della comitiva, e con loro vedete la messa e tutti i luoghi più famosi di Harlem”. Lo ringraziamo, ma rifiutiamo il pacchetto: autonomia e indipendenza rappresentano i nostri fiori all’occhiello, e le gite organizzate, in tal caso persino abusive, proprio non fanno per noi.

Andiamo avanti, troviamo una chiesa, Franci si informa ma la signora all’ingresso ci fa capire che la messa butta de fori. Non è un problema, non reggerei mai due ore di funzione e so che rimarrei comunque deluso perchè mi aspetto di trovare fra i banchi Bono e gli U2 che intonano insieme ai presenti “I still haven’t found what i’m looking for”. Continuiamo il giro senza patemi. Tentiamo la sorte anche da Sylvia’s, un ristorante noto per il gospel brunch e per essere una delle location di “Jungle fever”, un bel film di Spike Lee. Purtroppo anche presso la regina del soul food inizia ad accalcarsi una discreta folla, e, come il lettore avrà ben compreso, a noi non piacciono i percorsi prestabiliti, né tanto meno le folle accalcate.

Puntiamo le bici verso l’Apollo Theater, che ci interessa per lo più da un punto di vista simbolico. L’Apollo infatti è uno dei più importanti club musicali d’America, un vero e proprio crocevia della cultura musicale afroamericana, dove si affacciarono alle scene artisti eccelsi come Ella Fitgerald, Billie Holiday, James Brown e i Jackson Five. Ci limitiamo a dare un’occhiata al locale dedicato al dio greco delle arti e ad affacciarci sul foyet, un po’ come ci capitò di fare nel 2010 al Whisky a Go Go di Los Angeles, altro locale iconico, in cui Morrison e i Doors mossero i loro primi passi. A onor del vero, all’epoca ero alla ricerca espressa di Jim e dei suoi luoghi. E il Whisky era uno di questi.

Tributato il doveroso omaggio a questo monumento della musica, piazziamo sul navigatore la cattedrale di St. John The Divine, che Franci vorrebbe visitare. Non calcoliamo che il percorso prevede una bella salita e che il caldo a quest’ora inizia a farsi opprimente, e ci costringiamo a una faticaccia imprevista. Non a caso siamo in Upper west side. Arriviamo in prossimità della chiesa ma diciotto dollari pro capite ci sembrano troppi per visitarla, e così la pensano anche altri turisti che fanno dietro front in blocco. Nel gruppo ci sono tre ragazze, una delle quali dice: “Ahò, manco fosse San Pietro”. Come non concordare?

Qua e là zampilla acqua dal sottosuolo, e anche questa è un’immagine evocativa di altre immagini ormai sbiadite, che i miei occhi hanno visto in chissà quale cinema del passato. Ci fermiamo a osservare gli attrezzatissimi campi sportivi in serie in cui si gioca a basket e a baseball, e poi facciamo tappa in una birreria ben fornita, dove posso gustarmi una Smithwicks, la rossa più buona al mondo. Rifocillati, ci lanciamo in discesa per riconquistare il parco sul fianco occidentale, poco più a nord del museo di storia naturale, che non rientra nei nostri piani, forse perché inconsciamente speriamo di tornarci coi bimbi. A Giamma piacerebbe un sacco, ne sono certo. A proposito, anche l’Upper sembra un buon posto in cui vivere.

Rientriamo nel parco, troviamo un cono d’ombra davanti a Sheep Meadow, posiamo sull’erba un foulard, che è l’unico giaciglio disponibile, ci mangiamo una mela e ci stendiamo a contemplare in silenzio quello scorcio fantastico che proiettano innanzi a noi. E’ pieno di gente ma l’ingresso è gratuito. Uomini, donne e bambini punteggiano l’ampia distesa verde che ci circonda, ma lo spazio abbonda e le voci delle moltitudini restano distanti e assumono la consistenza di un lieve e sommesso brusio che si amalgama al vento, rimescolando le idee e gli idiomi di tutti gli abitanti del pianeta New York. Si sta davvero bene e ci lasciamo andare, allentiamo ogni tensione, molliamo gli ormeggi e ci spingiamo alla deriva fra le nuvole e gli alberi e il fulgore dei giganti assiepati ai confini del parco.

In ogni grande città abbiamo tentato e trovato una fuga nel verde. Lo Stanley park a Vancouver, Villa Borghese a Roma, i piccoli e graziosi parchi collinari a san Francisco, l’infinito Phoenix park a Dublino, il parco delle Table Mountain sopra Cape Town, il Jardim de Morro a Porto, il parco senza nome in cui ci addormentammo a Copenaghen, o infine il piccolo parco di periferia in cui ci rifugiammo a Reykjavik prima di lasciare l’Islanda. Ed ora Central Park a New York. Sono solo i più fulgidi e immediati esempi che mi vengono in mente, luoghi di mezzo che per noi rappresentano spesso i ricordi più luminosi di un contesto urbano, perchè le opere dell’uomo sono belle ma quelle della natura di più, anche quando la mano dell’uomo è intervenuta in modo tanto evidente.

Siamo in contemplazione, pensiamo a tutto e a niente, veleggiamo in dormiveglia finchè ci guardiamo e ci scuotiamo da quel dolce torpore. Siamo a New York, ci eravamo quasi dimenticati, abbiamo tante cose da fare. Riprendiamo le bici e seguiamo il mio capriccio di vedere il Carousel, una giostra coperta vecchia più di un secolo che si trova sul nostro tragitto di rientro. Nel mentre, il colpo d’occhio mi propone un grattacielo che pare il camino di una fornace. Le nuvole in cielo sembrano uscire dalla sua sommità. Allora dev’essere vero quel che mi rispose un indiano nell’Antelope Canyon quando gli chiesi cosa producesse l’ecomostro che sputava fumo dall’alto delle sue ciminiere. “It makes clouds”, mi disse accennando una timida smorfia. Ma basta divagare, ora la gente è tantissima, si cammina a stento, per noi è ora di cambiare aria.

Ci infiliamo di nuovo fra i grattacieli e in breve riportiamo le bici. Ormai sono le 16. Mentre torniamo in hotel a piedi, facciamo tappa alla cattedrale di Saint Patrick, la più grande chiesa neogotica cattolica degli Stati Uniti. E’ in corso la messa in spagnolo. L’acustica è incredibile e i canti fanno venire la pelle d’oca. Il prodigio di voci e melodie riempie ogni angolo della cattedrale e genera un’atmosfera solenne e coinvolgente. Ci aggiriamo fra i banchi e le icone di questo maestoso luogo di culto con il dovuto rispetto e una certa emozione.

Arriviamo in hotel, ci rinfreschiamo e ripartiamo al volo, dopo aver preso una decisione clamorosa: per la prima volta prenderemo la metro, dato che l’ingresso si trova a pochi metri dal Marriott, e che il Fanelli Cafè, che abbiamo scelto per cena, si trova a Soho. Scendiamo in Penn Station, ricarichiamo la metro card utilizzata per l’air train ed iniziamo ad attendere la linea C che ci porterà fino a Washington Square. Da lì cercheremo un posto carino per fare un aperitivo prima di cena. L’attesa è più corposa del previsto e io inizio già a mostrare i primi segni di squilibrio e insofferenza. La situazione precipita pochi istanti dopo, poichè la fermata di Washington è la West 4th Street in realtà, e noi la saltiamo con disinvoltura. Attendiamo due o tre fermate ma di Washington nemmeno l’ombra.

Chiediamo a una signora a bordo, che gentilmente ci mostra sulla sua app che siamo andati lunghissimi. Scendiamo a One World, e ci posizioniamo in attesa della C per tornare verso nord. L’idea è di scendere a Canal Street, sempre per aggiungere due passi e un cocktail al nostro tragitto. Ma l’attesa è lunghissima e snervante, io avverto la fiacchezza accumulata e sono stanco di aspettare, la temperatura e l’umidità sono insopportabili, ho voglia di tornare all’aria aperta e di godermi la città ma i minuti passano inesorabilmente. Lo ammetto, non tollero concettualmente i tempi e le modalità del trasporto pubblico, che interpreto esclusivamente come barriere limitanti le libertà individuali.

Penso che se fossimo andati a piedi, saremmo già arrivati a destinazione, e divento presumibilmente insopportabile. Franci accetta di buon grado un errore che può capitare ma io invece no, non l’accetto e non tollero la mia disattenzione. Aspettiamo quasi mezzora prima che passi il nostro treno e uscire fuori è un vero sollievo. Non abbiamo più tempo per l’aperitivo e andiamo direttamente a cena.

Il Fanelli, a dispetto del nome e delle graziose tovaglie a quadretti bianchi e rossi, è un locale tipicamente americano, in cui cucinano preminentemente carne. La tizia che gestisce il posto sembra una cowgirl del Wisconsin, il locale è frequentato da persone di età media inferiore alla nostra, ma abbiamo voglia di un luogo informale e accogliente, dove sentirci a nostro agio, e il Fanelli è perfetto in tal senso. Dunque assaggiamo carne, come da copione, in un’atmosfera che mi trasporta indietro di tanti anni, quando io e Franci mangiammo paella in una fumosissima trattoria sita nella parte più alta e vecchia di Granada. Tutto continua a tornare, nell’incessante confusione che spazio e tempo propinano a noi esseri fugaci.

Finiamo di cenare e usciamo in strada disorientati, camminiamo un po’ ma siamo stremati, svaniamo nella notte di Soho, come fossimo assorbiti dall’oscurità. Il mio ultimo ricordo è un orologio da stazione ferroviaria, oltre il quale non mi è concesso dire se e come siamo tornati a Midtown. Eppure siamo tornati, risputati chissà come dal regno d’ombre o dagli angusti sotterranei di Gotham.

Ciao Ray

21 martedì Mag 2013

Posted by osteriacinematografo in Manzarek, Raymond Daniel, Morrison, James Douglas, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria

Cronache e Storie d’Osteria

 

Stamattina, la notizia della scomparsa di Ray Manzarek mi ha provocato un’emozione fortissima, indescrivibile. E’ un dolore paragonabile a quello scaturito dalla perdita di una persona cara, per quanto Ray ha fatto per me, per i miei amici, per milioni di persone in tutto il pianeta.

Ray Manzarek

Correva l’anno 1965 a Los Angeles, quando Ray e Jim Morrison si incontrarono alla UCLA University, decidendo di intraprendere un sodalizio musicale che avrebbe ben presto condotto alla nascita del gruppo musicale dei Doors. Ray e Jim, Jim e Ray, questi due signori hanno fondato The Doors, creando un sogno che io e i miei amici abbiamo sognato in giovanissima età, quando le nostre macchine correvano spensierate attraverso i giorni e le notti di un passato che non se ne va.

The Doors 2

 

 

La voce di Jim e la musica di Ray ci hanno plasmati in modo irreversibile, e continuano a pervadere, venti anni dopo, lo spazio circostante, e a colorare i momenti speciali della nostra vita. I Doors rappresentano in modo fedele la nostra storia di amici, perchè ci sono sempre stati, e ci sono ancora. Jim era l’anima del gruppo, ma Ray era la mente dei Doors.

The Doors in concert

 

 

Manzarek suonava un organetto elettrico, il mitico Vox Continental, con una postura e una partecipazione indimenticabili; per sopperire alla mancanza di un bassista nella band, prese a dettare le linee di basso con un Fender Rhodes Piano Bass: così suonava l’organetto elettrico con la mano destra, e il basso, poggiato sul top del Continental, con la sinistra, regalando quelle sonorità così particolari da contribuire in modo decisivo a rendere celebre e “riconoscibile” ovunque la musica dei Doors.

Jim e Ray

 

Ray fu un grande amico di Jim, anche nei momenti più duri, e nei suoi scritti trapela la malinconica nostalgia per il tempo che condivise con Morrison, quel tempo che non finisce e che attraversa lo spazio, anche adesso, mentre ascolto “The end” , uno dei prodigi musicali che contribuiranno a rendere Jim, Ray, Robby e John immortali.

Grazie Ray, grazie davvero, ricambierò con amore e fedeltà eterni questi tuoi inestimabili doni.

Tutto è connesso – Odissea nella Coscienza Unificata

11 lunedì Feb 2013

Posted by osteriacinematografo in film, Jung Carl Gustav, Lynch, David Keith, Morrison, James Douglas, Pensieri, Poesie

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Titoli di testa

L’Atlante delle Nuvole

Blade runner

“Il tempo e l’umanità sono attraversati da un solo respiro, da una sola anima che connette il destino di ciascuno di noi, tra passato, presente, futuro e post-futuro. La vita è un turbinio incessante di trasformazioni che fa diventare un assassino un eroe, e tutto è ispirato da una spinta al cambiamento, alla rivoluzione, alla crescita. Tutto è connesso.”

 

Cloud atlasDopo aver visto “Cloud Atlas” -film da cui tale frase è tratta- ho iniziato a pensare agli innumerevoli motivi di interesse che ne scaturiscono. Come la vita di ogni creatura è connessa all’altra, come ogni singola particella dell’universo è legata intrinsecamente all’altra, molti concetti che ispirano la mia visione della vita è profondamente connessa all’idea di fondo di “Cloud atlas”. Tenterò dunque di fornire un quadro dettagliato di questa “intuizione”, con l’ausilio di concetti  di varia natura e provenienza.

 

David LynchAnzitutto, in fase preliminare, riporto un breve brano tratto dal libro “In acque profonde” di David Lynch:

« Le idee sono simili a pesci, se vuoi prendere un pesce piccolo puoi restare nell’acqua bassa. 
Se vuoi prendere il pesce grosso devi scendere in acque profonde ».

Queste parole forniscono la chiave di lettura di “Cloud atlas” e un buon metodo d’approccio a tutto quanto si celi sotto la superficie “fisica” ed ingannevole delle cose. E’ necessario immergersi in profondità se si desidera comprendere il meccanismo che regola la coscienza e quindi la vita stessa.

Se non si compie un lavoro simile su se stessi, è del tutto inutile “immergersi” nelle acque di “Cloud atlas”.

Ma tutto nasce dal desiderio.

L’Odissea prosegue lungo la rotta segnata sull’Atlante delle Nuvole

 

Sono tornato

30 mercoledì Nov 2011

Posted by osteriacinematografo in Morrison, James Douglas

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Sono tornato nella terra dei giusti e dei forti e dei saggi.

Fratelli e sorelle della pallida foresta.

Oh figli della notte,

chi tra voi correrà alla caccia ?

Arriva la notte con la sua legione porpora.

Ritiratevi ora nelle tende e nei sogni,

domani entreremo nella città della mia nascita.

Voglio essere pronto.

Le poesie hanno i lupi dentro

30 mercoledì Nov 2011

Posted by osteriacinematografo in Morrison, James Douglas

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Le poesie hanno i lupi dentro

salvo una,

la più meravigliosa di tutte.

Lei danza in un cerchio di fuoco

e si sbarazza dalla sfida con una scrollata.

The crystal ship

30 mercoledì Nov 2011

Posted by osteriacinematografo in Morrison, James Douglas

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Before you slip into unconsciousness
I’d like to have another kiss,
Another flashing change at bliss,
Another kiss, another kiss.

The days are bright and filled with pain
Enclose me in your gentle rain,
The time you ran was too insane,
We’ll meet again, we’ll meet again.

Oh, tell me where your freedom lies,
The streets are fields that never die,
Deliver me from reasons why
You’d rather cry, I’d rather fly.

The crystal ship is being filled,
A thousand girls, a thousand thrills,
A million ways to spend your time,
When we get back, I’ll drop a line.

Retrobottega d’Osteria

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