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NAMIBIA FAMILY ADVENTURE DAY 11 – The Elephant Day

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art, Cronache e Storie d'Osteria, letteratura, news

APOLIDE

Sorge un sole magico fra le piccole alture che circondano il Lodge Damaraland. E’ un risveglio morbido, scevro da affanni. Siamo privi della solita lena organizzativa. Osserviamo gli zaini da ricostruire come fossero di chissà chi altro. Non sono ancora le otto e ci trasciniamo mollemente verso il buffet, che somiglia a un miraggio. La cucina propone piatti interessanti, tanto che la colazione si trasforma ben presto in pranzo. In effetti non avremo più fame prima di sera. Sento parlare italiano, e provo d’istinto un terrore vacuo, ma cerco di restare indifferente, imperturbabile, apolide.

Siamo rigenerati, ma Iri oggi ha una marcia in più. Quando si sveglia in queste condizioni diventa incontenibile, trasformandosi in una bomba di energia e ilarità per tutta la famiglia.

Vicky è sempre accanto a noi, e quando scoccano le nove ed è ormai ora di salutarsi, il dispiacere è reciproco. I suoi occhi buoni e luminosi sembrano quelli della Namibia. Li porteremo con noi. Non in senso letterale, naturalmente.

PETRIFIED FOREST

Oggi le nostre tappe sono disseminate lungo la C39, una strada sterrata, ma godibile. Dopo un’ora di marcia arriviamo nei pressi della Petrified Forest. I tronchi fossili che vi sono conservati risalgono a milioni di anni or sono, deposti da canali fluviali che da questo lato del tempo possiamo soltanto immaginare. Non sono molti, ma due di essi misurano fino a quarantacinque metri e hanno mantenuto la foggia originaria, nonostante siano in parte frammentati.

ARIZONA DREAM

Quindici anni fa io e Franci visitammo la Petrified Forest in Arizona. Il sito americano è molto più esteso di quello africano, ma non mi pare ci fossero tronchi fossili di queste dimensioni. Rammento quel luogo più che altro perchè fu la tappa intermedia fra due meraviglie americane: il Canyon de Chelly, sito nel cuore della Riserva Indiana Navajo, uno dei luoghi che più c’è rimasto nel cuore; il Meteor Crater di Wislow, un’enorme depressione nel deserto, il cui cratere fu generato dall’impatto di un asteroide del diametro di cinquanta metri.

Canion de Chelly

Canyon de Chelly

U.S. Petrified Forest

Meteor Crater

ATTRAVERSO LO SPAZIO E IL TEMPO

La Foresta pietrificata di Khorixas rende l’idea della genesi del fenomeno che qui si verificò 280 milioni di anni fa. Lo scioglimento dei ghiacciai che coprivano l’Africa centrale provocò inondazioni immani, che travolsero e trasportarono ogni cosa per centinaia di chilometri, incluse queste grandi conifere ormai estinte.

Quelle acque, ricche di minerali come la silice, sostituirono gradualmente la materia organica delle piante, pietrificandole. Ed oggi possiamo ammirare tronchi di cristalli di quarzo perfettamente conservati, come in un fermo immagine che attraversi lo spazio e il tempo, e trascenda il senso stesso delle cose. E’ in effetti impressionante riflettere sulla trasformazione della materia, sul quarzo che sostituisce la lignina e la cellulosa concedendo che le forme restino tutto sommato inalterate; sull’indefinita vastità delle ere che si sono succedute prima di noi, su quante ancora verranno dopo l’età dell’uomo; su questo tempo possente che pare inafferrabile; su quanto tutto sia infinitamente grande e infinitamente piccolo e perciò impossibile da concepire.

Il tempo è proprio qui davanti ai nostri occhi, allucinante, pietrificato.

WELWITSCHIA MIRABILIS

Qui abbiamo anche l’opportunità di osservare da vicino la Welwitschia Mirabilis, una pianta straordinaria, un organismo talmente antico da essere considerato un fossile vivente. Essa è uno dei simboli della Namibia: è infatti raffigurata nello stemma nazionale, per via della sua longevità e della sua tenace resistenza all’ambiente arido e alle condizioni avverse di un deserto che la bracca e cinge d’assedio da ogni dove. Alcuni esemplari di Welwitschia vivono su questa terra da migliaia di anni, e sono annoverabili fra gli esseri viventi più vecchi al mondo. Le foglie che la caratterizzano si snodano contorte ai lati del tronco tozzo che ne costituisce il cuore. La pianta si nutre grazie a una radice profonda e alla nebbia carica dell’umidità dell’oceano. Un capolavoro di ingegneria naturale.

PARALLELE

La prossima tappa è la vallata di Twyfelfontein. Dopo un breve tratto di C39 svoltiamo a sinistra per la D2612, che si rivela ben presto insidiosa. E’ una strada di terra e pietra, modulata su più livelli paralleli molto stretti, e con lastricati taglienti che impongono ben più di una preoccupazione. Più ci avviciniamo alla meta e più la strada diventa impraticabile. Mi sposto a destra, a sinistra, poi sopra e sotto per trovare la via migliore. Ma non c’è scampo. A un certo punto una jeep del parco mi sorpassa a velocità sconsiderata. Arriviamo a destinazione tirando un sospiro di sollievo.

URI-AIS o TWYFELFONTEIN?

E’ mezzogiorno. Parcheggiamo sotto un telo di stoffa leggera ma efficace e in pochi minuti siamo a spasso con la guida di turno. Andiamo alla scoperta dei dipinti rupestri e dei graffiti dell’età della pietra che hanno reso famoso questo posto. Il nome originario della valle è Uri-Ais (“sorgente che zampilla”). I primi coloni bianchi, non trovando traccia della sorgente citata dai Damara, ribattezzarono il luogo Twyfelfontein (“sorgente incerta”). Spesso le cose hanno nomi tanto semplici quanto significativi. E possono mutare al variare di determinate condizioni. Come nel caso di una fonte d’acqua prosciugata.

LAVAGNA PRIMORDIALE?

Il sole adesso inizia a picchiare forte ma il clima resta secco e gradevole. Le incisioni rupestri di Twyfelfontein sono state realizzate dagli antenati dei San, un popolo di cacciatori-raccoglitori che viveva nella zona. Queste incisioni, che raffigurano animali, figure umane e simboli risalenti a oltre 1000 anni fa, sono considerate fra le più importanti collezioni di arte rupestre in Africa. In certi casi gli animali vengono raffigurati vicino alle proprie impronte, come se si trattasse di una sorta di mappatura delle specie utile a collegare un dato animale alle tracce lasciate sul terreno. Chissà che non servisse a educare i più giovani? E’ una passeggiata molto gradevole, in cui Irene, che si era svegliata con un piglio positivo e travolgente, inizia a dare piccoli segnali di cedimento e follia. Ciò verrà confermato dalle performance attoriali nelle ore successive.

90 KM ORARI CONTRO L’ATTRITO

Tornati al rover, faccio due chiacchiere con un ragazzo del luogo. Vorrei visitare Organ pipes ma mi spiega che la strada peggiora ulteriormente poi. E così rinuncio. Mi chiarisce anche che per ovviare alle lastre che tagliano trasversalmente la carreggiata dovrei procedere a una velocità minima di 90kmh. Mi sembra una follia ma decido di provare a seguire il suo consiglio. La velocità è sostenuta per una strada simile, ma attutisce notevolmente l’attrito col terreno. Occorre fare attenzione in curva, dove il rover derapa allegramente, ma in effetti così è un’altra vita. Resta la paura di bucare, sempre.

Riusciamo a scamparla, e arriviamo sani e salvi al Twyfelfontein Elephant Drives & Campsite. Ho prenotato un’escursione nel deserto la sera prima. Una signora è lì ad attenderci. Nella zona vivono alcune famiglie di elefanti del deserto. Ho letto da qualche parte che avvistarli sia un’esperienza magnifica, e non ci lasciamo sfuggire l’occasione.

Mentre attendiamo l’inizio del tour, incrociamo la famiglia di italiani che avevamo percepito al lodge Damaraland. Hanno appena terminato l’escursione. Ci raccontano che in mattinata hanno bucato in due occasioni; che la prima volta hanno sostituito lo pneumatico e che la seconda hanno dovuto chiamare un gommista locale. Chissà poi dove l’avranno trovato? Stento a credere alle loro parole, e poi rifletto sui rischi che abbiamo corso in quelle strade assurde percorse pochi istanti prima, strade da cui i nostri connazionali (non sono più apolide) si erano peraltro tenuti alla larga. Bucare in Namibia spesso non rappresenta un’opzione.

GLI ELEFANTI DEL DESERTO

Arriva la nostra jeep. Ci piazziamo dietro, ma quattro turisti nord europei niente affatto simpatici chiedono con forza un cambio di posto. Per non mettere in difficoltà il giovane e sorridente autista, veniamo incontro alle loro richieste. D’altronde noi siamo viaggiatori, non banali turisti.

Accanto all’autista c’è un ragazzino di 10 anni al massimo. E’ un bimbo sveglio, che credo dia una mano al driver ad individuare gli animali di cui siamo in cerca. Girovaghiamo in mezzo al deserto entrando e uscendo da piccole alture circondate da arbusti, in cerca del giusto punto di avvistamento. Dopo pochi minuti notiamo i primi esemplari. E’ un gruppo di 4-5 elefanti. Sono a pochi metri da noi, e l’emozione di vedere da vicino e in libertà questi animali meravigliosi è unica.

Per Gim e Iri è la prima volta. Osservo i loro volti prima di perdermi nella contemplazione degli elefanti. Sono fiero dei sacrifici fatti per mostrare ai nostri figli il lato più autentico della natura. Spero conservino a lungo in memoria le immagini di queste creature libere e selvagge.

Gli elefanti sono un po’ infastiditi dalla nostra presenza, per quanto l’autista utilizzi tutte le cautele del caso. Sembrano di dimensioni minori rispetto a quelli avvistati in Sudafrica. Rispettiamo un silenzio sacro per non spaventare o innervosire i pachidermi. Gli giriamo un po’ intorno, senza mai impedir loro il passaggio.

AMALGAMA

Il loro amalgama con l’ambiente appare profondo, anche sotto il profilo cromatico. Li osserviamo ancora un po’ prima di lasciarli andare. Il nostro è un modesto drappello privo di vessilli, al cospetto del passaggio dei Re. Li vediamo allontanarsi come navi maestose sopra un desertoceano, oltre il cui orizzonte svaniscono, fondendosi con la sabbia e il sole.

V8 INTERCEPTOR

A questo punto Mad Max aumenta i giri del V8 Interceptor, segno che ci stiamo spostando in un’altra zona. La caccia entra nel vivo. L’uomo ci spiega che una comunità più grande di elefanti si è spostata altrove. Ne chiede conferma agli abitanti di minuti villaggi che troviamo lungo il percorso. Alcuni ragazzini gli fanno distintamente cenno con la mano di proseguire per la rotta che stiamo seguendo. Siamo circondati da fiumi di sabbia e piccole oasi verdeggianti. Poi il deserto si fa via via più selvaggio e desolato.

UNA GIRAFFA IN SOGNO

D’un tratto avvistiamo una giraffa, elegantissima e imperturbabile. Non sembra vera, come tutto il resto. Ci osserva curiosa, senza perdere compostezza. E’ un animale spettacolare. Sembra scivolare via davanti ai nostri occhi, tanto i suoi passi sono aggraziati e leggeri. Si è alzato il vento e la sabbia si solleva in leggeri mulinelli che danzano in controluce attorno al corpo della giraffa. Le colline perdono consistenza in lontananza. Sembra una magia, un frammento unico in cui il tempo si spezza e tutto tace alla vista di siffatta bellezza.

Nel frattempo il vento ha preso a tirare sempre più forte. E’ un fattore che non abbiamo calcolato. Iniziamo a patire il freddo. La jeep è aperta su tutti i lati e ci prendiamo quello che viene, nonostante il nostro alloggiamento sia più riparato rispetto a quelli degli altri passeggeri.

REGATANDO SULLA SABBIA

A un certo punto la strada inizia a salire e a ridursi in ampiezza. C’è roccia ovunque. La salita s’impenna, finchè scavalliamo e ci troviamo di fronte un panorama che lascia senza fiato. Dinanzi a noi dilaga una valle spettacolare. Sembra di essere in avanscoperta su un pianeta alieno, a bordo di un mezzo rudimentale e futuristico allo stesso tempo. Incrociamo un elefante solitario, che si lascia avvicinare senza problemi.

Mad Max a questo punto pare indeciso, prende una direzione, poi un’altra. Imbocca una pista immaginaria e poi sterza repentinamente. Si consulta a più riprese col socio di scorribande. Non sembra avere le idee chiare sul da farsi, e noi iniziamo a soffrire sempre più il freddo. Ci stringiamo, coprendoci coi foulard e con gli zaini, ma non basta. L’esplorazione del pianeta prosegue implacabile. Non ci sono tracce, e il vento ulula. Andiamo a vela adesso. Regatiamo fra le onde di sabbia dell’ignoto. I marosi ci sollevano in cielo per poi farci planare sul pelo del deserto.

Sono quasi le 16, e inizio a pensare alla strada di ritorno. Stanotte dormiremo nel Kunene, siamo distanti e dobbiamo rifare tutto questo percorso a ritroso, oltre al viaggio fino alla nostra nuova casa. Il sole cala rapidamente in Namibia, e viaggiare di notte non è mai una buona idea da queste parti.

LA SCORTA

Finalmente avvistiamo una parte della famiglia di elefanti che abbiamo cercato a lungo. Sembrano nervosi, e capiamo ben presto perché. Hanno un cucciolo con sè, e lo scortano in modo organizzato, proteggendo con cura il lato “debole” della missione.

LA VARIANTE UMANA

Avverto distintamente la sensazione di rappresentare una minaccia per questi pachidermi, e ripenso ancora una volta al modo in cui ci siamo illusi di uscire dal mondo naturale, di pensare ingenuamente di poter essere altro da esso, di ergerci ad archetipo fra le forme di vita, quando rappresentiamo soltanto una delle innumerevoli varianti dell’esistenza sul pianeta.

Siamo minute ed estemporanee scintille in un incendio che divampa dalla notte dei tempi.

PICCOLI COLPI DI TOSSE

Osserviamo ancora un po’ la famigliola compatta e poi filiamo via. Sarei rimasto a lungo ad osservarli, ma la strada da fare è tanta. Il nostro mezzo inizia a dare qualche segnale di malfunzionamento fra le dune. Piccoli colpi di tosse. Il giovane namibiano scende, da un occhio al motore, controlla il telefono, ma non c’è campo e ripartiamo. Mad Max si dimostra abile e rapido su un terreno totalmente dissestato. Procediamo a grandi passi, subendo anche meno il vento in questa direzione. Risaliamo la vasta conca e torniamo nella parte più guidabile.

PIT STOP

Sono quasi le 17 quando il V8 Interceptor inizia a perdere potenza. Sembra ingolfato. Borbotta, e poi si spegne in mezzo all’ennesimo sconfinato nulla. I nostri eroi riaprono il cofano, armeggiano un attimo e poi chiamano qualcuno. Sembra ci sia un problema con la batteria. Non ci voleva. Per fortuna, dopo un quarto d’ora arriva una macchina. Un tizio scende, attacca i cavi, e torniamo in sella. Il mezzo ora sembra procedere bene. Vedo a pochi km il ranch da cui siamo partiti, osservo il sole calare inesorabilmente. Il fuoristrada borbotta ancora, tira colpi di tosse a ripetizione, sembra sul punto di morire, ma tiene duro e ci conduce esanime a destinazione.

Sono le 17e30. Fuori tempo massimo. Siamo grati ai ragazzi che ci hanno accompagnato. E siamo anche gli unici a ringraziarli per l’impegno profuso con un piccolo extra. Non mi stupisco, visto l’altezzoso distacco degli automi che erano con noi.

CORSA CONTRO LA NOTTE

Sgommiamo via veloci verso nord. La nostra destinazione è nei dintorni di Palmwag, nella regione del Kunene. Per fortuna la C39 e la C43 sono ottime strade. Posso percorrerle a buon ritmo, pigiando sull’acceleratore ma senza mai superare certi limiti. Guidare di notte in Namibia è pericoloso per via della fauna e della visibilità pressochè azzerata. Quindi devo anticiparne le mosse.

Il navigatore impazzisce ma verso le 19 avvistiamo una sorta di sbarramento, in cui due uomini in tenuta militare fanno sostanzialmente da filtro. Gli chiediamo informazioni e il tizio ci spiega che siamo arrivati. Il Palmwag Camp sembra spartano al punto giusto. Qui ho prenotato una notte in tenda per vivere un’esperienza diversa. Ma un upgrade automatico e gratuito implica che dormiremo fra quattro muri anche stanotte. E’ tardi, abbiamo fame e accettiamo l’upgrade.

CAOS CROMATICO CREPUSCOLARE IN ZONA TORRIDA

Ci diamo una ripulita e andiamo verso il ristorante. Ceniamo in una bella terrazza in legno, affacciata sul tramonto del Kunene. Abbiamo davanti un’Africa diversa adesso, più verde e misteriosa. Ci immergiamo nel caos cromatico crepuscolare della zona torrida. In dieci giorni non avevamo mai visto una vegetazione tanto densa. Le palme aggiungono un tocco esotico al contesto: sembra di essere Altrove per l’ennesima volta, rispetto a ieri, rispetto a una settimana fa, rispetto a ogni momento vissuto.

L’unica pecca della terrazza è di essere all’aperto. Non c’è vento, ma il freddo è pungente e si fa un po’ fatica a godersi la cena, anche se il vino supporta quanto meno noi adulti.

“HOW MANY OF YOU KNOW THAT YOU’RE REALLY ALIVE? BULLSHITS!!”

Facciamo due passi e poi ci ritiriamo. Prima di rientrare osservo la chioma di una palma lattea che si staglia nella notte nera, con miriadi di stelle a far festa tutto intorno, lungo le distese interplanetarie.

Quella chioma somiglia a Val Kilmer nei panni di Morrison, quando sale sul tetto di una macchina davanti al Whisky a go-go e grida: “Quanti di voi pensano di essere vivi? Quanti di voi sanno di essere veramente vivi?”

Alzo la mano nell’oscurità, osservo la palma Jim ridere di me, e chiudo a chiave la porta del nostro rifugio, sigillando un’altra giornata di grande valore.

NAMIBIA FAMILY ADVENTURE Day 10 – The White Lady & Himba Day

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VENTO IN POPPA

Ci svegliamo poco prima delle 8. La giornata promette bene. La luce namibiana è un vento in poppa, una forza che infonde ottimismo e trascina i viaggiatori. Ho recuperato le energie, sto bene, e, ogni volta che capita dopo una giornata travagliata, la sensazione è quella di uno stato di grazia. Stare bene è qualcosa che tendiamo a sottovalutare, a considerare normale. Ma non sempre è così.

COLLINE DI STAGNO

Siamo nel Damaraland, fra le collinette di Uis, un villaggio nato intorno alle miniere di stagno che poi furono abbandonate all’inizio degli anni 90 del secolo scorso. Le colline candide e biancheggianti che si alternano a quelle naturali sono in effetti i cumuli dei resti della lavorazione dello stagno. Pensavamo fosse sale, invece era un calesse. Uis è sopravvissuta grazie al turismo, dato che è un punto strategico per visitare alcuni siti interessanti.

CACTUS CAFE’

Camminiamo verso il Cactus Cafè del Daureb Isib nella pace del mattino. Molti viaggiatori lavorano in silenzio, sistemando l’attrezzatura e richiudendo con cura le tende sopra i pick up. Fra questi, noto la famiglia milanese della sera prima. Sono tutti operativi, mentre noi camminiamo con passo rilassato. Ammiro la loro praticità e la loro capacità di adattarsi. Onestamente non avrei mai pensato che viaggiassero in questa modalità. I loro ragazzi hanno qualche anno in più dei nostri. Chissà se il futuro renderà possibili avventure più audaci di quelle che ci possiamo permettere adesso.

SOTTO LA SUPERFICIE

Facciamo colazione, torniamo alla capanna e prepariamo i bagagli. Alle 9e30 partiamo e ci fermiamo subito in paese. Lascio Franci e i ragazzi a fare spesa in un piccolo market e faccio benzina. Poi li vado a riprendere. Nel frattempo Franci nota due bimbe molto graziose che camminano a bordo strada. Mi chiede di fermarmi. Scende e si avvia di corsa verso di loro, regalandogli dei dolcetti. Le bimbe sorridono e l’abbracciano d’istinto, con trasporto. Francesca torna in auto commossa, perché nasconde un cuore tenero sotto un velo d’austerità. Anni prima consegnammo dei gadget ad uso scolastico a un gruppo di bambini dello Swaziland, e la sua reazione emotiva fu la stessa.

VERSO IL BRANDBERG

Adesso si parte davvero, in direzione del massiccio del Brandberg. Abbiamo un’oretta di sterrato prima di arrivare a destinazione, il dipinto rupestre denominato White Lady. Lungo il tragitto, gli unici episodi da rilevare riguardano tre dame variopinte che invocano un’offerta in modo teatrale e una famiglia che ci corre incontro in modo scomposto nei pressi di una baracca. Siamo in ritardo e un tantino diffidenti, e non ci fermiamo.

NATHAN

Arriviamo al parcheggio verso le 11, dove ci accoglie un addetto del parco. In biglietteria ci assegnano una guida, che è indispensabile per attraversare l’arida gola che conduce fra le braccia della Dama Bianca. La nostra guida è un ragazzo poco più che ventenne di nome Nathan. Ha un viso pulito ed è piccolo di statura. Il gruppo è composto dalla nostra e da altre due famiglie (sudafricane), con parecchi bambini al seguito. Nathan ci spiega che abbiamo davanti un’oretta scarsa di cammino e che dobbiamo portare con noi una scorta d’acqua. Fa caldo ma la passeggiata è veramente piacevole sia sotto il profilo paesaggistico che della compagnia, che si rivela incline alle chiacchiere e alla condivisione.

Nathan ha il padre a Swakopmund e la madre lontana. Trascorre l’estate in queste zone a lavorare. Ci racconta alcuni avvenimenti, gli incontri coi leoni e con gli elefanti, la pioggia intensa che quattro anni prima rigenerò il fiume che un tempo scorreva proprio dove adesso passeggiamo; la vegetazione che poi esplose nelle settimane a seguire restituendo alla valle l’aspetto rigoglioso del passato. Mi piacciono la tranquillità, la purezza, l’assenza d’ansia che lo caratterizzano.

STORIE INTERCONTINENTALI

Mi colpisce la storia di una delle due famiglie con cui condividiamo il cammino. Sono due medici, lui scozzese e lei sudafricana. Si sono conosciuti in Australia, dove entrambi lavoravano in un ospedale di Adelaide. Si sono sposati lì, hanno avuto dei figli, e a un certo punto hanno deciso di trasferirsi in Sudafrica, dove lei aveva voglia di tornare per stare vicina alla sua famiglia. Hanno tre settimane di vacanze e ne hanno approfittato per venire in macchina da Cape Town. L’altra coppia di loro amici ha una storia meno curiosa da raccontare e anche meno giorni di vacanza a disposizione, tanto che questo è l’ultimo step che vivranno insieme prima di separarsi. Si ritroveranno a casa.

La passeggiata è bella e rilassante. I figli dei nostri amici temporanei sono sparpagliati lungo il percorso. Corrono a destra e a manca, scompaiono dietro massi e piccole alture, non hanno i timori o le barriere dei nostri, che invece restano sempre nelle vicinanze. Mi piace la loro attitudine selvaggia, ed è chiaro che sono educati a questo e che vivono in una certa armonia col mondo naturale. Io e Franci abbiamo sempre cercato di fissare nei nostri figli l’idea che la natura sia la nostra casa, ma siamo comunque condizionati da un retaggio culturale che ci rende fin troppo attenti e assistenziali nei confronti dei figli rispetto a buona parte del mondo. Se Gim e Iri si allontanano meno dei bambini sudafricani dipende da noi, non da loro. Poi uno dei ragazzini stranieri si farà male, ma nessuno inscenerà psicodrammi di sorta.

LIBERTA’

Nell’estate 2012, un anno prima che nascesse Gian Marco, io e Franci ci trovavamo in Sudafrica. Ricordo un’escursione bellissima al confine col Lesotho, sempre in cerca di dipinti rupestri. Salimmo e scendemmo per ore fra valli e montagne, il vento soffiava forte. Persi il foulard turco di Franci, ma fu un giorno bellissimo, pieno di luce e prospettiva. Visitammo terre primordiali, e poi un villaggio locale, incastonato ai confini del nulla. Assaggiammo gli intrugli delle anziane del posto. Dovevamo badare soltanto a noi stessi. La sensazione di libertà di quei giorni è ancora potente in me a distanza di anni. Ma mi sento altrettanto libero adesso, mentre osservo Franci e i nostri figli avventurarsi in una valle africana alla ricerca delle opere d’arte degli antenati.

LA DAMA BIANCA

Dopo un’ora di cammino arriviamo al complesso pittorico della Dama Bianca: per fortuna è riparato dal sole, che inizia a farsi cocente. L’opera è attribuita ai Boscimani San, e risale a qualche migliaio di anni fa. Nathan ci spiega che la Dama in realtà è una sorta di sciamano immortalato in una danza rituale. In effetti la Dama Bianca tiene per mano un individuo, come per avviarlo ad un rito iniziatico. I bambini osservano interessati. Oggi Gim e Iri sono più sereni e rilassati del solito. Gli ultimi giorni hanno concesso loro più possibilità di muoversi e di giocare, e anche la passeggiata che ci ha condotto a questo bel dipinto rupestre ha contribuito al loro benessere.

REPTILIA VERSUS MAMMALIA

Quando Nathan termina il suo racconto è ora di tornare. Continuiamo a familiarizzare con i membri di questo gruppetto inventato. Non nascondo che mi sarebbe piaciuto affrontare un altro pezzo di strada insieme. Ripercorriamo la valle a ritroso, avvistiamo delle lucertole multicolore immobili sotto il sole e dei curiosi roditori all’ombra delle rocce.

LA MANCIA

All’arrivo, pretendo le foto di rito con i ragazzi del gruppo. Acquistiamo una bella collana di frammenti di denti e ossa e poi cerco di lasciare il resto di mancia a Nathan. Non sono sicuro che il nostro pensiero sia arrivato poi nelle tasche giuste, perché ho annusato una certa sottomissione alla corpulenta signora che gestisce la baracca. Non saprò mai come sono andate le cose.

SEMPLICEMENTE SETE

Mentre torniamo al rover, una delle guide ci chiede un passaggio fino a un crocevia distante qualche km, e lo accompagniamo volentieri. Facciamo due chiacchiere, ci racconta qualcosa sui figli, e poi lo lasciamo in prossimità della baracca che avevamo intravisto all’andata. Ci racconta che quella famiglia vive lì, a bordo pista, anche grazie al supporto e agli aiuti di chi transita da quelle parti. La loro prima necessità è l’acqua. Quella che a noi era parsa una forma di aggressività in realtà era sete. Semplicemente sete.

OZOHERE

Abbiamo un’ora e mezzo di strada da percorrere fino a Khorixas, dove ho prenotato un bel lodge. Lungo il cammino faremo una sosta presso il villaggio Himba di Ozohere. Conosco bene i pro e i contro della situazione, ma credo che valga la pena correre il rischio e provare l’esperienza sulla propria pelle per saggiarne l’autenticità. Mentre guido, mi rendo conto di essere totalmente a mio agio qui in Namibia. Terra, pietra, sabbia, buche, dossi, avvallamenti non sono più un problema. Anzi. Nel frattempo, Franci sforna panini con maestria e rapidità, sfamandoci come solo lei in tutto il mondo sa fare. Senza di lei saremmo perduti.

HIMBA

Arriviamo al villaggio verso le 14e30 e la prima stranezza è una sorta di reception in cui ci accoglie una bella ragazza dagli occhi scuri e sfuggenti. Ci fa accomodare in un patio ombreggiato e ci illustra le dinamiche del villaggio che visiteremo a breve. Daremo una certa cifra ai membri del villaggio, la cui sussistenza è affidata ai viaggiatori e a parte degli uomini, che lavorano nei dintorni. Ci mostreranno le loro usanze, ci proporranno i loro manufatti e balleranno per noi.

L’ACQUA DI BUMBA

Siamo solo noi e gli Himba, e tutto è estremamente tranquillo. Ci avviamo a piedi, il villaggio è su una collinetta a 2-300 metri da lì. Da lontano il villaggio sembra vuoto, disabitato, ma -avvicinandoci- gradualmente iniziamo a scorgere le prime ombre in movimento. Questa immagine mi riporta alla mente Bumba, il protagonista di un bellissimo racconto di Roberto Piumini che ho letto per anni ai miei figli: vi si narrano le vicende degli Ihuallà, il popolo di un villaggio in cui donne e bambini affrontavano ogni giorno un lungo viaggio a piedi per rifornirsi d’acqua e combattere la perenne siccità.

“Non proprio all’equatore, un po’ più su, nell’Africa che cuoce al solleone, c’era un villaggio, con una tribù di trentasette o trentasei persone: il numero preciso non si sa, ma il nome sì, ed era Ihuallà. In quelle terre, come tutti sanno, l’acqua è davvero scarsa, quasi assente, e gli Ihuallà, per tutto quanto l’anno, mandavano le donne alla sorgente: ciascuna nella testa aveva un vaso, e lo portava indietro, pieno raso. C’era un bambino, fra gli Ihuallà, che si chiamava Bumba, piccolino, più piccolo degli altri alla sua età, allegro e svelto, col cervello fino, che insieme alla madre e all’altra gente, andava avanti e indietro alla sorgente”.…

OTJIZE

Qui a Ozohere ci sono per lo più donne e bambini, quasi tutti piccoli. A margine, vediamo anche tre giovani uomini. Ci presentiamo utilizzando le tre parole Himba che ci ha insegnato la guida: moro, perivi, nawa, vale a dire ciao, come stai, bene. Gli Himba ci mostrano i dettagli delle capigliature, i loro abiti e i fregi da cui sono decorati. Ci fanno fare un giro e poi ci invitano all’interno di una capanna dove ci mostrano come producono la pasta composta di burro, ocra rossa ed erbe che spalmano sulla pelle per vezzo e protezione.

ONDJONGO

Torniamo fuori, dove quasi tutti i componenti del villaggio si stanno disponendo in semicerchio. Ognuno di loro balla a turno, mentre gli altri battono le mani e lanciano grida e suoni di vario tipo. Ogni singolo passo rappresenta il tentativo di connettersi al suolo polveroso della Namibia. E’ uno spettacolo, a cui prendono parte anche i nostri bambini. Ridiamo, ci osserviamo reciprocamente senza comprenderci. Proviamo a guardarci dentro. Mi colpiscono in particolar modo gli occhi limpidi e puliti dei bambini.

PROVE D’EMPATIA

Come mi è già capitato in casi simili, ogni tanto ho la sensazione che gli Himba ridano di noi. Lo penso perché mi metto nei loro panni: a me verrebbe da ridere se qualcuno venisse a casa mia per vedermi ballare. Ma accetterei di buon grado, soprattutto se mi pagassero. Al di là delle mie sensazioni, è una bella esperienza di scambio.

IL TEMPO NON ESISTE

Osservo l’emozione e la sorpresa negli occhi di Gim e Iri, la loro interazione istintiva con gli altri bambini. E’ un piccolo documentario, che narra l’incontro di due realtà molto diverse fra loro: a tratti si ha l’effetto allucinatorio di osservare sè stessi nel passato o in una realtà parallela e concomitante in cui tutto sembra ribaltarsi. Cosa è davvero reale? Il tempo esiste davvero? E qual è il nostro?

GRAN CACIARA

Esco dalle grotte dei sogni dimenticati di Werner Herzog e mi ritrovo in una caciara improvvisa. Le donne del villaggio hanno tirato fuori i loro banchetti con gli oggetti in vendita e si è scatenata una certa isteria. Probabilmente questi incassi non vengono condivisi e fanno più gola degli altri. Franci e Iri acquistano un paio di monili in una selva di braccia, e poi lentamente ogni cosa torna al suo posto, e guadagniamo l’uscita.

MORO MORO

Due bambini ci seguono correndo fino al parcheggio, per poi salutarci col solito travolgente sorriso. Moro moro! Nonostante alcune piccole contraddizioni e il dubbio persistente se quel villaggio sia il luogo in cui queste persone effettivamente vivano, siamo felici di aver fatto questa esperienza. E se possiamo aver contribuito un minimo al benessere di questa gente, la felicità raddoppia.

LODGE DAMARALAND

Sono le 15e30, andiamo a Khorixas, dove ci attende forse la dimora più bella fra quelle in cui abbiamo alloggiato. E’ il Lodge Damaraland, l’ennesima struttura minimale immersa in modo armonico nell’architettura naturale di questa landa magnifica, a cavallo fra savana e deserto. Persino i colori dell’edificio richiamano l’arredo cromatico della terra dei Damara.

IL BALZO

I lodge sono molto accoglienti e hanno un affaccio privato sul mondo fuori. Una piccola piscina rappresenta il centro nevralgico della zona comune. E’ il classico luogo che induce al totale relax. I bambini si tuffano in acqua e curiosano in giro, Franci si concede un bicchiere di vino, io un margarita da urlo, che mi stordisce al punto da farmi smettere di pensare a quanto sia assurdo balzare, nell’arco di un’ora, da un villaggio polveroso a un alloggio sì confortevole.

VICKY

Vicky, una delle ragazze che lavorano al lodge, si prende cura di noi. Intuiamo subito che è una ragazza speciale. Entriamo presto in confidenza con lei. Ci facciamo qualche foto insieme e ci scambiamo i numeri di telefono. Anche adesso, a distanza di mesi, capita di scriverci o di vedere il suo cuore stampato sulle foto che pubblico sui famigerati stati di whatsapp. Galleggiamo leggeri fra dentro e fuori, leggiamo qualcosa, osserviamo il paesaggio e i colori che gradualmente cambiano forma e tonalità.

A FIOR DI PELLE

Arriva la sera, e con lei la solita brezza. Indossiamo una giacca e andiamo a cena. I tavoli sono illuminati appena. Il buffet è ricco e variegato, ci concediamo tanti piccoli assaggi. D’un tratto, lo staff del Damaraland si riunisce e inizia a cantare e danzare nella notte, mettendo in scena la consueta magia. Le loro voci sono caldi massaggi a fior di pelle.

L’oscurità ci culla e protegge, così prendo coraggio e ballo un po’ con la gente del posto. Perdiamo la cognizione dello spazio e del tempo. Non sappiamo più dove siamo esattamente, o che giorno sia. Non ha alcuna importanza. Non conservo altri ricordi di quella sera, che è una coperta calda e avvolgente sotto un oceano di stelle.

Namibia Family Adventure Day 8 – Sandwich Harbour Day

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FLUSSO CANALIZZATORE

Ci svegliamo di buon’ora come di consueto, ma mi avvisano via mail che l’escursione prevista al mattino è stata spostata a mezzogiorno per le avverse condizioni del vento e del mare. E dato che dovremo transitare lungo un tratto di spiaggia sottile che va e viene con le maree, ci adeguiamo senza protestare. Abbiamo fatto bene ad affidarci per una volta ad un tour locale. Non avremmo mai potuto prevedere problemi simili se avessimo tentato l’escursione in autonomia. Ancora una volta ho modulato i miei azzardi, convogliandoli nel flusso canalizzatore del buon senso.

THE WALKING DEAD

A quel punto rallentiamo e ce la prendiamo con calma, abbiamo tempo per bighellonare un po’. Mangiamo tranquillamente, per quanto la colazione (proprio oggi!) sia molto più scarna del solito. Andiamo a fare un giro. Prima portiamo i ragazzi in un parco giochi assai fatiscente: sembra più un bivacco che un luogo dedicato ai più piccoli. Notiamo un gruppo di non morti defilati fra gli alberi. D’un tratto svaniscono, assorbiti dall’ombra densa e ancestrale delle piante. Ci spostiamo lungo mare, in un punto in cui possiamo ammirare da vicino una quantità spropositata di flamingo.

THE WALKING POS

Torniamo al nostro appartamento e alle 12 l’addetta alla reception ci chiama. Un cowboy ci attende a bordo di un fuoristrada. Il suo nome è Andrew Strauss. Facciamo tappa nel punto esatto in cui eravamo stati pochi istanti prima. Le jeep sono tante. Una tizia si aggira fra i mezzi col pos. Non avevo mai visto un pos vagare fra i clienti in un parcheggio. Paghiamo mentre tutti gli autisti iniziano a sgonfiare gli pneumatici a pressioni mai viste. Andrew depressurizza fino a 0.7. Le gomme sono sostanzialmente a terra. Ci spiegano che è l’unico modo per arrampicarsi sulle dune, e non abbiamo ancora idea di quanto siano alte e di dove finiremo poi. I drivers eseguono dei test radio, per verificare se i walkie talkie di cui sono muniti funzionino bene. Scelgono la frequenza migliore e poi si parte a gruppi di 4-5 fuoristrada per volta.

ANDREW STRAUSS & JOHNNY CASH

Andrew Strauss ha più di 70 anni e un gran fisico. E’ sudafricano ma di origine austriache. Fu suo nonno ad emigrare in Africa all’inizio del 900. Ci racconta di essere un discendente del noto compositore. Io gli credo. Ascolta musica country, ed ogni sosta è buona per scendere a fumarsi una sigaretta. Lo fa con discrezione, dato che in tanti Paesi stranieri fumare è considerata abitudine desueta e gesto quanto meno esecrabile. Andrew ascolta ottima musica country. Riconosco chiaramente Johnny Cash (il suo timbro è inconfondibile) e Hank Williams. Gli spiego che nei miei tragitti a volte mi rilasso ascoltando “An American History” di Johnny Cash e mi guarda sorpreso. “Very strange for an italian man”- mi dice con la sua voce calda e corrosa dal fumo e dal tempo.

ARTEMIA SALINA

Attraversiamo immense saline, dove montagne biancheggianti e lunghi canali dominano il paesaggio. A un certo punto ci fermiamo in prossimità di canali in cui l’acqua assume colorazioni che vanno dal rosa al rosso. Andrew ci spiega che in quell’acqua vive un minuscolo gamberetto rosa di cui i fenicotteri vanno ghiotti. E sembra sia proprio quell’animaletto a munirli della tipica colorazione. Avvistiamo tantissimi uccelli lungo la costa, fra cui maestosi pellicani.

Dai frequenti contatti radio si capisce che il cammino della carovana è sincronizzato. Chi è davanti aggiorna gli altri sullo stato del percorso inventato che andremo a compiere. Inizialmente siamo su una grande spiaggia. Attraversiamo il bagnasciuga, schizzando acqua da tutte le parti, per la felicità di Gim e Iri.

NAMIB NAUKLUFT PARK

Ci fermiamo in prossimità di un cartello di legno che sancisce l’ingresso al Namib Naukluft Park. Penso al fatto che il giorno prima eravamo nello stesso parco, a cavallo delle dune che si trovano nell’entroterra, a centinaia di km da lì, e a quanto sia esteso quel deserto immane. La sosta serve per bere una bibita e per adunarsi. Una graziosa bimba francese si avvicina ai miei e subito scatta l’intesa istintiva che spesso sboccia fra ragazzini: privi come sono delle sovrastrutture tipiche del mondo dei grandi, i bambini hanno una predisposizione naturale a instaurare una concordanza tale da vanificare ogni barriera linguistica.

CASCATE DI SABBIA

Dopo qualche minuto si riparte. Andrew canticchia i suoi motivetti, mentre le dune iniziano ad avanzare e a moltiplicarsi tumultuosamente da sinistra e a spingerci su una striscia di sabbia sempre più sottile, finchè non ci sono a ridosso e la pista diventa poco più di un’idea strampalata. Ci fermiamo in un punto casuale dove ci arrampichiamo sulla duna per saggiare il vento impetuoso dell’oceano e ammirare il deserto dal suo ciglio estremo. Dicono che questo paesaggio sia unico al mondo, che non esista altrove una simile distesa di dune a ridosso del mare. Chissà se è vero.

GLI OCCHI DELLA MENTE

In alcuni tratti il mare sembra voler inghiottire la spiaggia, in altri concede più spazio e respiro. E’ un luogo bellissimo, che conservo negli occhi della mente. D’un tratto la spiaggia si allarga di nuovo e iniziamo a virare verso sinistra, in direzione delle dune. Siamo i primi della cordata, Andrew detta modi e tempi ai colleghi meno esperti.

SOPRAELEVATE IN POLVERE

Arriviamo in prossimità delle dune più grandi. Il nostro cowboy sceglie un punto con cura, poi si ferma, e subito dopo aver inserito le ridotte inizia la scalata. Da qui in avanti, produrrà uno strano sibilo nei tratti più impervi, come per concentrarsi o per esorcizzare il momento. Non abbiamo idea di come si orienti o di dove siamo diretti, non ci sono punti di riferimento. Saliamo, scendiamo e curviamo su queste sopraelevate in polvere. Ci rendiamo conto delle reali pendenze quando diamo un occhio ai fuoristrada che ci seguono. A bordo non si ha la sensazione di quanto sia profonda la tana del bianconiglio. E’ ovvio che sia Andrew a rendere tutto più semplice, con la sua abilità e quel suo mantra sonoro a rimorchio.

RIO DE JANEIRO

Arriviamo in cima e ci fermiamo. Il vento è sempre più potente, ma è un elemento d’arredo del deserto, come se fosse parte del paesaggio. Le dune qui sono straordinarie, morbide, avvolgenti. Davanti a noi l’oceano sterminato. Fra noi e Rio de Janeiro, fra l’Africa e il Brasile non c’è nulla a parte l’acqua. Sotto di noi una lingua di sabbia circoscrive uno specchio d’acqua blu cobalto. Fra le dune e il mare si stende una macchia di vegetazione di un verde elettrico. Percorriamo un crinale in stato d’ebbrezza, Gim e Iri corrono senza direzione, caracollano, sterzano improvvisamente e fanno salti e capriole. I loro sorrisi sanno di libertà. Fra le maglie del vento sento immancabilmente gridare: “Jiiiim!! Vieni a ballare con me!”.

FRA IL NAMIB E L’ATLANTICO

Pare che Sandwich harbour si chiami così perché la sottile striscia di terra che osserviamo dall’alto è stretta nella morsa fra deserto e oceano. Namib e Atlantico la cingono d’assedio da entrambi i lati, ma essa resiste, indomita, respingendo strenuamente i colpi dei giganti che mirano a sopraffarla. La sensazione di beatitudine che ci pervade somiglia a uno stato di grazia, a quando hai rotto il fiato e corri senza fatica, con la testa sgombra dagli impicci della quotidianità.

SALISCENDI E SEMICERCHI

E’ un peccato ripartire ma spesso la transitorietà rende più preziose certe esperienze. E poi bisogna accettare quello che viene quando affidi il timone a un altro. Continuiamo il saliscendi fra le dune, ci addentriamo un po’ nell’entroterra. Qua e là una rada vegetazione punteggia il paesaggio. Avvistiamo alcuni springbok rilassati fra i cespugli.

Poi scivoliamo in una piccola depressione fra le dune dove le 4 jeep del gruppo si fermano a semicerchio. Andrew e gli altri aprono i portabagagli e iniziano ad apparecchiare un tavolo da picnic. Tirano fuori da bere e da mangiare. E per quanto il prosecco che ci offrono sia di scarsa qualità, è un piacere tracannarne qualche bicchiere, visto il caldo stagnante che regna nella conca.

VIA DI FUGA

Mangiamo, beviamo, socializziamo un po’ con gli altri turisti, per lo più francesi. Poi smontiamo le tende, avendo cura di non lasciare traccia del nostro passaggio. Scendiamo di nuovo verso la spiaggia, dove notiamo che la striscia percorribile si è ristretta ulteriormente. E in effetti procediamo a passo spedito, probabilmente perché le maree conservano margini di imprevedibilità.

L’ACQUA ROSSA DEL CANALE

Usciamo dal parco e quando torniamo in prossimità dei canali rossi, ci fermiamo di nuovo. I bambini riposano dietro con Franci. La carovana si è via via dissolta. Andrew mi dice di scendere e di seguirlo. Prende l’acqua del canale e se la spalma sulle mani e sulle braccia.

Faccio come lui e dopo un minuto mi accorgo che, come mi aveva spiegato, la pelle è diventata liscissima. Mi sfrego le mani sul viso per sentirne l’incredibile morbidezza. Il mio amico cowboy mi aveva spiegato che è tutto assolutamente naturale, ma io inizio ad avvertire uno strano prurito al viso e alle braccia. Non ci bado più mentre torniamo a casa.

Mr Strauss ci lascia davanti al cancello, lo salutiamo. Gli stringo la mano perché non mi pare tipo da abbracci. Hi my friend – mi dice, andandosene. Avrò modo di ripensare a lui.

FITZGERALD

E’ stata una giornata leggera per i nostri standard e andiamo a cena senza la solita dilagante spossatezza. Seguiamo le indicazioni per un ristorante in riva al mare. Il posto non sembra promettere nulla di buono. Nei pressi del parcheggio insistono alcune baracchine che vendono oggetti di artigianato locale. I venditori sono meno aggressivi di quelli del giorno prima, e ci permettono di dare un’occhiata e di acquistare senza fretta i loro manufatti.

Procediamo verso il ristorante. E’ carino e accogliente, ci accomodiamo vicino al mare. Un altro bel tramonto è alle porte, lo attendiamo con morbidezza, come in un romanzo di Fitzgerald.

LA ISLA DEL VIENTO

Il sole ci culla mentre scende placido fra le imbarcazioni e le costruzioni in legno. I colori di questa sera raggiungono tonalità di rosa impensabili. Una luce simile me la ricordo probabilmente solo a Ca’ Mari, una spiaggia selvatica nel versante meridionale di Formentera, dove -sul far di una sera d’incanto- un sipario rosa calò senza preavviso, colmando ogni spazio disponibile.

Era il 2007, e dentro la nuvola rosa che ci colse alla sprovvista c’eravamo soltanto io, Francesca e la Isla del viento.

MAALOX PLUS

Dopo aver mangiato ci ritiriamo. Nel gran finale i ragazzi si concedono un bagno rilassante a casa, attratti dalla grande vasca, oggetto per loro semi sconosciuto. Andiamo a dormire, e nelle rotazioni finisco da solo in una camera da letto. La finestra è aperta, e inizio ad avvertire l’odore pungente della sera prima. Non ci faccio tanto caso finchè inizio a respirare male. Il reflusso è un mio compagno di viaggio quasi costante, così provo a placarlo col maalox. Chiudo la finestra. Ma continuo a respirare male, mi pare quasi di soffocare. Mi alzo per cercare di riprendermi. L’ultima speranza si chiama Refluxan: una volta mi salvò dalle polveri dell’Etna, che all’epoca mi avevano ostruito le vie respiratorie. Ma stavolta non funziona.

SALVIA DIVINORUM

A un certo punto avverto un blocco di stomaco. Cerco di scuotermi. Mi bagno viso e collo con l’acqua gelida. Ma comprendo ben presto che quel malessere è solo un accessorio prodromico alle montagne russe che ne seguiranno. E dopo qualche istante inizio a contorcermi, letteralmente. Sto male, la sensazione è quella di una girandola che volteggia incessantemente nello stomaco. Pare l’effetto lavatrice della salvia degli dei. Un moto incessante che mira a liberare materiale in entrambi i sensi di marcia. Trascorro ore interminabili fra il letto e il bagno.

DELIRIO PARANOIDE

E’ un delirio che aumenta con la devastazione e l’assenza di sonno. Sto male e sto ancora più male al pensiero del tragitto complesso che dovrò compiere fra poche ore. Ma non ho alternative, e l’idea mi terrorizza. Allo specchio vedo uno zombie. Bevo ma non trattengo più nemmeno l’acqua. E’ una dissenteria fulminante, che non fa sconti. Scatta una fase allucinatoria e paranoica. Partorisco sindromi da accerchiamento a castello. Forse mi hanno avvelenato al ristorante, o forse è in corso una fuga di gas chimici da qualche stabilimento in zona, oppure la colpa è di Andrew che mi ha fatto immergere le mani nel canale per farmi uno scherzo sadico, mortale.

LA METAMORFOSI

Avverto la presenza del microorganismo che ospito, lo visualizzo, lo sento ridere, dimenarsi e divertirsi in modo malefico, scuotere la coda rabbiosamente per liberarsi di me. Trattengo l’anima a stento. Sento la febbre salire. Vaneggio. Inizio a temere di cambiare colore, di mutare forma come nella Metamorfosi di Kafka, di trasformarmi in uomo-fenicottero, di diventare un mostro.

INLAND EMPIRE

Franci si accorge del mio stato, mi versa qualcosa in bocca, forse fermenti lattici, ma non ne so abbastanza perché non sono più presente. E’ l’ospite a comandare il traffico, a ragionare per me. E non mi molla fino all’alba. D’un tratto la baraonda sembra attenuarsi, l’Impero della mente placa la sua ingordigia. Svengo letteralmente pochi secondi prima che la luce timbri il cartellino.

Namibia Family Adventure Day 7 – Capricorn day

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Sveglia alle 7e30. Gim ha già le antenne dritte, come un cerbiatto. Iri ha ancora i sogni mezzi aperti, gli occhi liquidi e carichi di visioni notturne. Io e Franci ci muoviamo rapidamente dentro la capanna. Dobbiamo raccogliere le nostre cose, oggi lasciamo Sesriem per avviarci verso la costa atlantica. Il rover piazzato a un passo dalla porta di casa è un toccasana per chi, come noi, fa e disfa bagagli continuamente.

TRAIETTORIE DI VIAGGIO

Le nostre dinamiche di viaggio rappresentano pura follia per tante persone. Per noi è la norma. Facciamo così da prima che i bambini nascessero, abbiamo continuato a farlo quando i bambini avevano pochi mesi, e non abbiamo mai smesso. Non sapremmo impostare un viaggio diversamente, e, dal canto nostro, non riusciamo a capire chi si ferma a lungo in un posto. Il viaggio è una delle rare opportunità che abbiamo per metterci in gioco, per scoprire e inventare il mondo, ogni giorno. Capita di incontrare viaggiatori simili a noi lungo il cammino, di condividere racconti ed esperienze, o di provare a farlo, quasi che un certo approccio al mondo tracci un sentiero comune. Le traiettorie di certi viaggiatori sono destinate a incontrarsi prima o poi, in un dato luogo, momento o circostanza.

LE FORME DEL VENTO

Passiamo in reception, dove salutiamo i gestori o presunti tali e Franci fa notare loro che il vento non ha mai smesso di soffiare. “You’re in the desert”, risponde uno di loro, laconico. E in effetti avremo a che fare col vento anche nei giorni a venire. Non dimenticherò il Desert Quiver Camp: luogo essenziale, caratterizzato da architetture minimali, nate per ridurre al minimo l’attrito del vento. Somiglia a un set, e non mi stupirei se domani smontassero tutto per rimontarlo Altrove. Mangiamo senza risparmiarci al Sossusvlei Lodge, e poi ci mettiamo in cammino.

Oggi dobbiamo percorrere la C13 fino a Solitaire, e a seguire la famigerata C14, una delle strade che la società di noleggio ci ha segnalato il giorno del ritiro del mezzo. Il vento solleva la sabbia in ogni direzione, tanto che i granelli a un certo punto disegnano le forme, la direzione e i ghirigori del vento, gli danno corpo, lo rendono percepibile.

SOLITAIRE

Fra svolazzi e mulinelli aerei arriviamo a Solitaire, un crocicchio fatiscente noto per essere uno degli ultimi avamposti utili a far rifornimento prima della costa e per la McGregor’s Bakery, una botteguccia che sforna torte di mele leggendarie, a quanto si narra. Solitaire sembra l’insediamento di un film western. Uno di quei luoghi a ridosso del nulla, in cui rifornirsi di generi di prima necessità e far riposare i cavalli prima di avviarsi verso l’ignoto.

Lungo la breve lingua di sabbia che l’attraversa sfilano una pompa di benzina, un forno, un piccolo lodge, un negozio di souvenir e generi alimentari. Null’altro. Una girandola segnavento arrugginisce sotto il sole cocente. Qualche relitto automobilistico affonda lentamente nella sabbia: il deserto corrode e ingloba lentamente le lamiere di Cricchetto e di altri mezzi abbandonati. Fuori il vento imperversa, e le ragazze decidono di restare al riparo.

LO SPAZIO MAGICO

Io e Gim facciamo fatica a reggerci in piedi e a camminare. Ci facciamo incartare due porzioni di torta di mele, facciamo un giro nel negozietto adiacente e acquistiamo una specie di maraca per pochi spicci. In Africa ci è capitato di rado di restare da soli, ed è dolce il ricordo di quei pochi minuti con mio figlio a Solitaire, come fosse uno spazio magico, una nicchia mnemonica, la nostra oasi minuta nel tempo oceanico. Corriamo a zigzag verso la macchina, ridendo e derapando a causa del vento che disorienta e destabilizza. E’ un vento carico di follia, un vento infestante, che spazza un paesaggio surreale e stralunato.

TROPICO DEL CAPRICORNO

Riprendiamo il cammino. Dopo un’oretta superiamo il Tropico del Capricorno, entriamo nella zona torrida. Ogni tanto mi fermo e scendo per fare qualche foto. Verso mezzogiorno vediamo un po’ di gente passeggiare su un piccolo promontorio e decidiamo di scendere per andare a dare un’occhiata.

GLI SPECCHIETTI RETROVISORI DELLA MENTE

E’ il Kuiseb river viewpoint, ma del fiume Kuiseb ovviamente non sembra esserci traccia. E’ un altro corso d’acqua effimero, come questa terra, che sembra esserci e non esserci, che rappresenta un’illusione, un gioco di prestigio, un frammento onirico di spazio tempo, una dimensione che forse abbiamo soltanto sognato, un istante che nasconde un altro istante nuovo di zecca, lo specchio effimero della caducità della vita degli individui al cospetto della vita del cosmo. Vedo questo quando riguardo la Namibia dagli specchietti retrovisori della mente.

Il vento ci trasporta a destra e a manca, si insinua fra noi come fosse vivo, e gioca e spinge e ci agguanta e poi concede giravolte e ricomincia il giro, incessante, senza mollarci mai. La luce è travolgente, la camera del mio smartphone sorride quando inquadro il mondo illuminato dalla nostra stella. Ci arrampichiamo sulle rocce, scattiamo altre foto, facciamo scorta visiva della meraviglia che ci avvolge, e poi torniamo al rover per proseguire il cammino verso il mare.

La strada inizia a diradare verso la pianura, ma non richiede né sforzi né particolari abilità: la C14 è priva di asfalto ma doma, imbrigliata com’è dalle livellatrici e dai rulli stradali che la rendono docile e piacevole al cospetto delle strade ben più insidiose del recente passato. Chissà perché la inseriscono fra le strade a rischio.

DANZE AEREE

Alle 14 entriamo a Walvisbay. Prima di arrivare a destinazione ci fermiamo nella Flamingo lagoon, una baia stracolma di fenicotteri rosa. Li osserviamo nella loro elegante magnificenza. Si nutrono, chiacchierano, battibeccano, si sollevano concedendosi danze aeree prodigiose. Un immenso aquilone rosa che dispiega ali a profusione sopra le rive dell’Atlantico del sud.

APPENDICE INDUSTRIALE

Poi andiamo in città. Ci sistemiamo nel grande appartamento che sarà la nostra casa per due notti, ci rilassiamo un attimo e ripartiamo alla volta di Swakopmund, graziosa cittadina costiera a mezzora di macchina da lì. In effetti Walvisbay non ha alcun fascino, sembra una sorta di appendice industriale di Swakopmund, ma abbiamo scelto questa località per essere più vicini a Sandwich Harbour, la destinazione di domani. Col senno di poi, lo avrei evitato con tutte le forze, ma non è ancora il momento di spiegare perché.

L’ASSALTO

A Swakopmund parcheggiamo il rover nei pressi di un ristorante a picco sul mare. Ci avviamo a piedi verso l’Open Craft Market, un grande spazio in cui i locali vendono pezzi di artigianato. Il posto è carino, ma non siamo preparati all’assalto che avverrà di lì a poco. E’ impossibile fermarsi per più di pochi istanti a osservare la merce, perché i venditori ci assalgono letteralmente, con veemenza. Ci mettono in mano tutto quel che osserviamo o indichiamo, si ostacolano a vicenda, non ci consentono di goderci il momento, un po’ perché siamo quasi gli unici ad aggirarci fra i vari espositori e un po’ perché probabilmente per loro vendere non rappresenta un dettaglio, ma la vita stessa. Individuiamo una cornice di legno guarnita da  sculture filiformi. La acquistiamo e scappiamo via.

HEMINGWAY

Pochi passi e siamo sul mare. La forza dell’acqua è possente, la spiaggia bella e selvaggia. Tanta gente fa il bagno, cosa che stranamente i nostri bambini, che hanno già assaggiato le acque gelide dell’Atlantico del nord, si astengono dal fare. Il sole rosso fuoco incombe e furoreggia, scende verso la linea dell’orizzonte stendendo i propri raggi fra le onde e tutto intorno. E’ un luogo di pace e relax, che sa di Hemingway. Il frusciare e l’infrangersi del mare sono gli unici elementi sonori disponibili. Ci concediamo piaceri semplici. Gelato per i bimbi, flights di birra per mamma e papà.

Poi le animelle trovano il modo di litigare su una parete da arrampicata e per sbollire li trasciniamo verso la fine del molo, senza l’intento di gettarli a mare, ma per ripristinare la pace. E funziona. Osserviamo in silenzio il sole divampare e poi inabissarsi nell’oceano sterminato, in un gesto di pura contemplazione. Al cospetto delle forze immani che governano l’universo il tempo stesso pare fermarsi. Dentro momenti simili riesco a scovare l’unica accezione della parola “sacro” che sono in grado di concepire.

Decidiamo di tornare al parcheggio passando dalla spiaggia.

TERMINATOR

Osservo Franci e i bambini, i miei tesori più preziosi, mentre giocano sul ciglio del mare a rincorrersi con le onde. E’ un’immagine preziosa, che conservo ben stretta in memoria. Quei tre bei ceffi rappresentano il mio motore, il motivo per cui ogni sacrificio diventa accettabile, e ogni cosa sensata. Nell’esaltazione auto-celebrativa del momento, sento la voce di Sarah Connor dire di me: “Il terminator non si sarebbe mai fermato, non li avrebbe mai lasciati, gli sarebbe stato sempre accanto e sarebbe stato pronto a morire per loro”.

A volte penso che il motore delle nostre avventure sia una certa follia. Penso però  che sia una pazzia misurata e sotto controllo, e sento che questa sorta di dissennata leggerezza, mia e di Franci insieme, sarà utile a Gim e Iri in qualche maniera. Rifletto sul peso della responsabilità che ho avvertito nella settimana appena trascorsa, penso alle buche e ai crateri schivati e a quelli ancora da schivare, penso che non vorrei essere da nessun’altra parte, penso ai prossimi viaggi, a quanto ancora i nostri bambini ci seguiranno in giro per il mondo, penso alla vita e a quel ristorante a picco sul mare, che sarebbe il luogo ideale in cui cenare con la mia famiglia.

DAVID LYNCH – UNA STORIA VERA

La famiglia mi rammenta David Lynch, morto due giorni fa, proprio mentre rielaboravo i miei diari africani. Penso a uno dei suoi film, “Una storia vera”, che ieri ho rivisto insieme a Gim e Iri, che hanno ovviamente gradito, e alle parole del buon vecchio Alvin: “Quando i miei figli erano molto piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un bastoncino, uno ciascuno, e gli chiedevo di spezzarlo. Non era certo un’impresa difficile. Poi gli dicevo di legarli in un mazzetto e di cercare di romperlo, ma non ci riuscivano. Allora io gli dicevo: vedete quel mazzetto? Quella è la famiglia.“

REGGAEMAN

Siamo fortunati. Il Tug è quasi pieno, la terrazza a picco sul mare è stracolma, ma alle 19e30 rimediamo un tavolino perfetto per noi. Mangiamo del buon pesce, ma siamo stanchi e la branda chiama. Alle 21 usciamo. C’è un cantante reggae all’uscita.

Il suo sorriso è raggiante, la sua voce calda. Lo ascoltiamo per un paio di minuti. Lo abbraccio, ci facciamo una foto insieme e lo salutiamo. Mentre guido nella notte verso Walvisbay penso che non sono la stessa persona di sempre. Penso che il me viaggiatore compia azioni e scelte diverse da quelle del me di tutti i giorni. Penso che se avessi incontrato quel reggae man a Jesi non lo avrei degnato di particolari attenzioni. Mi chiedo perché in viaggio sono una persona migliore, o quanto meno più recettiva. Probabilmente, viaggiare mi rende in un certo senso libero di essere chi vorrei essere davvero, sempre.

Nel frattempo ci avviciniamo alla città e gradualmente avvertiamo un odore acre, chimico, che punge occhi e polmoni. Per fortuna in casa l’aria è pulita, ci addormentiamo rapidamente, cullati dai dubbi di sempre e dagli spiragli di bassa marea in cui ci infileremo domani.

Namibia Family Adventure – Day 6 Dune’s Day

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NAMIB-NAUKLUFT NATIONAL PARK

Ci svegliamo prestissimo al Desert Quiver Camp, anche perché il vento non ci ha mai mollato e al mattino è persino aumentato di intensità, scuotendo la nostra dimora e i nostri sogni. Andiamo a fare colazione al Sossusvlei Lodge, dove non ci risparmiamo, come di consueto. Ma cerchiamo di fare in fretta, stamattina abbiamo appuntamento con le dune più alte al mondo. Per arrivarci dobbiamo entrare nel Namib-Naukluft National Park, percorrere circa 45 minuti di strada, e poi parcheggiare l’auto per attraversare l’ultimo tratto di strada con i mezzi del parco. Bisogna arrivare presto a destinazione, perché scalare la duna è faticoso e non ci possiamo permettere di farlo con il sole a picco.

FRANKLYN “TOPO” FINBAR

Alle 8 siamo già in macchina. Entriamo, paghiamo e procediamo speditamente verso il parcheggio indicato. Alle 8e45 siamo arrivati a destinazione. Avremmo potuto procedere oltre con il nostro Rover, e affrontare a viso aperto il suolo marziano, ma stavolta qualcosa mi ha indotto a cedere. E col senno di poi credo di aver avuto ragione. Saliamo a bordo di un 4×4 rialzato, piazzandoci in fondo, e subito ci rendiamo conto di quanto la sabbia sia profonda in certi punti. Il nostro driver – Franklin “Topo” Finbar- è un pazzo completo, procede a zig zag a velocità smodata, probabilmente per non restare incagliato sui fondali di questo oceano di sabbia.

L’ANIMA DI UN PAGLIACCIO

C’è una buona energia a bordo. Ridiamo a crepapelle, siamo in preda a un’euforia rivitalizzante, c’è una chimica positiva fra noi e gli altri passeggeri. Fra un salto e l’altro la mia anima di pagliaccio prende il sopravvento e pronuncia in mia vece, a voce alta e ben scandita -per evitare che si possa evitare di ascoltarle- le seguenti parole: “Entro due o tre balzi la mia colazione sarà qui con noi!”, e quelli che siedono davanti a noi ridono, il che mi rende felice come poche cose al mondo. Veder ridere gli altri per causa mia è un fenomeno a cui non ho mai saputo resistere: credo che nulla sia più gratificante. E far ridere persone sconosciute che provengono da chissà dove in un lingua che non è la mia lo è ancora di più.

“HANNO INIZIATO A SPINGERE, E HO INIZIATO A SPINGERE ANCH’IO”

Dopo poche curve l’autista si ferma: una ragazza dello staff è rimasta impantanata con la sua jeep e i turisti al seguito. Topo Finbar ci fa un cenno, e noi uomini scendiamo per dare una mano. Due spinte vigorose e la ragazza è di nuovo in pista. Vediamo altri mezzi in difficoltà lungo la strada. Da queste parti vige una diffusa predisposizione al mutuo soccorso, ma sono veramente felice di aver evitato di guidare. Affidandoci al nostro avatar Franklin “Topo” Finbar, ci siamo divertiti senza correre rischi reali, proprio come fossimo dentro Jumanji. Se avessi guidato, non sarei riuscito a mantenere quella velocità su un terreno tanto irregolare, e il rischio di arenarsi, o, peggio ancora, di cappottare, sarebbe stato consistente.

VIE TRAVERSE

Franklin ci invita a scendere dalla jeep, ma mentre tutti vanno in una certa direzione, gli chiedo qualche consiglio su un percorso più isolato e scenografico rispetto a quello convenzionale. Topo capisce al volo e ci invita a risalire, conducendoci qualche centinaio di metri più in là. Ci indica la direzione e noi ci avviamo fiduciosi. Non c’è nessuno in questa zona, ma lui ci assicura che è la scelta giusta per evitare la folla che spesso rallenta il cammino. Tutto vero, ci dirigiamo verso il punto d’approccio a Big Daddy, di cui non si intuisce la sommità.

PICCOLO CERVINO

Ci cambiamo e rinforziamo la protezione di viso e capo, per proteggerci dal sole e dal vento, e iniziamo a salire. Iri si piazza davanti, con Giamma subito a ruota. Grazie al loro peso esiguo, i bambini fanno meno fatica di noi adulti: i nostri passi affondano pesantemente nella sabbia, e a tratti si ha la sensazione di rimanere incagliati sempre nello stesso punto, di fare tanta fatica per nulla. Il silenzio qui regna indisturbato. L’unico sibilo è quello del vento, che trasporta a gran velocità granelli di sabbia invisibili che picchiano forte sulla pelle. Una sensazione simile a quella vissuta insieme a due miei amici del cuore in cima al Piccolo Cervino, quando ci colse una tempesta di ghiaccio e neve. I granelli di ghiaccio ticchettavano allora su di noi come quelli di sabbia adesso.

IMMAGINI IN DISSOLVENZA

Lo spettacolo che ci si fa innanzi è via via più imponente. Percorriamo le creste delle dune che curvano una dopo l’altra disegnando trame eccezionali. Siamo circondati da una bellezza inaudita, le tonalità ocra e rossastre della sabbia disorientano, e contrastano col bianco accecante della depressione che ci attende sull’altro versante. Questo luogo non ha inizio né fine, e sarebbe impossibile orientarsi se la via non fosse tracciata dalle orme di chi ci ha preceduto all’alba. Salendo, incrociamo alcune persone in difficoltà, fattore che desta in noi un pizzico di preoccupazione, che presto svanisce come immagini in dissolvenza. Il ferro ossidato presente nella sabbia tinge il deserto di rosa e di arancione. Più le dune sono scure e tendono al rosso, e più sono antiche. Gruppi di arbusti e pozze d’acqua effimera punteggiano il paesaggio rendendolo ancor meno realistico.

FREMEN

Adesso siamo Fremen, e cerchiamo l’acqua della vita di Arrakis. Il Naukluft è un sogno ad occhi aperti, uno dei più belli mai sognati. Camminiamo sul ciglio di questo mondo che si sgretola sotto i nostri passi. A tratti ho una sensazione assimilabile al mal di mare, perché questo luogo tanto remoto sembra avere a che fare con l’acqua, per quanto ciò possa sembrare assurdo. Il vento disegna sulla sabbia le stesse linee che regala in mare aperto: qui cambiano i colori e per quanto il vento stordisca senza pause, le onde e le linee delle creste sembrano immobili, immortalate in un fermo immagine vita natural durante. Eppure è un mondo di polvere, di cumuli di centinaia di metri di polvere che si accalcano e poi diradano e frastagliano in linee tanto dolci da rinsaldare il legame profondo che regna fra arte e natura. L’arte non avrebbe alcun senso senza la natura. E’ un posto inconcepibile, che non credo esista oltre i suoi confini onirici.

BIG DADDY

Continuiamo ad ascendere i 390 mutevoli metri di Big Daddy, che dicono sia la duna più alta al mondo, e, come spesso capita dove la magia regna, non avvertiamo più la fatica oltre l’incessante ticchettio dei granelli sugli indumenti e sulle rare porzioni di pelle concesse agli elementi. L’euforia del mattino non si placa e ci trascina in cima incuranti e leggeri, prima del tempo di arrivo previsto. Ci facciamo qualche foto, conosciamo un uomo che lavora nel parco, una di quelle persone di cui avverti subito e istintivamente l’energia. Credo alle cosiddette sensazioni di pelle senza alcun tentennamento. Nathan ha un modo di ridere contagioso, incontenibile e roboante, come quello di Eddie Murphy. La sua stretta di mano è forte e sincera. Ci facciamo una foto. Gli chiedo se per caso sia lui Big Daddy, se sia il risvolto umano della montagna di sabbia su cui ci troviamo. Nathan ride nel suo modo unico di ridere, come se avessi scoperto il suo segreto.

PRECIPIZIO DI FELICITA’

A quel punto osserviamo lo strapiombo che ci separa dalla pozza effimera di Deadvlei. Ora inizia il divertimento: ci togliamo le scarpe, guardiamo giù per un attimo, contiamo fino a tre e iniziamo scendere a valle a capofitto, chi saltando, chi rotolando, chi ballando, chi, forse, volando. I bambini gridano e ridono, io e Francy idem. Qui possiamo concederci il lusso di essere tutti bambini e di giocare liberamente. E’ un precipizio di felicità. Anche Big Daddy in persona scende con noi e con lo sparuto gruppo di turisti che ha accompagnato. Sembra che lo faccia per la prima volta, e invece è lì da sempre, la Duna è lui, e gode del divertimento che procura a quelli che corrono giù solleticandogli il dorso.

DEADVLEI

Arriviamo a valle e il paesaggio sembra persino più sorprendente. Il fondo è simile a quello della Death Valley, ma questo è più compatto e regolare rispetto a quello della depressione americana, nonostante le ovvie screpolature. Il suo colore è di un bianco che acceca e stordisce, tanto è carico di salinità. Da quaggiù, e solo da quaggiù, si intuisce la maestosità di Big Daddy, un vero e proprio muro di sabbia che incombe sulla superficie albina. Procediamo lungo la spianata ellittica, dove percepiamo in lontananza le ombre sghembe e spettrali degli alberi che un tempo qui vivevano. Camminando, osservo le linee dritte alla mia sinistra. Il primo strato è la linea bianca abbacinante del pianoro su cui ci troviamo. La seconda è quella arancione delle dune. La terza è quella azzurra del cielo. Qui l’artista non si è risparmiato, e la sua opera visionaria lascia senza fiato.

SERGIO LEONE

Procediamo sul fondo di questo lago effimero, seguendo i solchi tracciati dal fiume Tsauchab, un corso d’acqua timido, che si manifesta di rado, quando la pioggia scroscia e imperversa e lui si sente meno osservato. Le ombre che ammiravamo da lontano si avvicinano, sono ceffi scuri e poco raccomandabili, trasandati e sporchi per la loro incessante esposizione al calore e al freddo, al sole rovente e alla rara pioggia. Sembrano pistoleri sul set di un film di Sergio Leone, raffigurati nella loro ultima sparatoria, quella decisiva, che li consegnò alla leggenda. Oppure spaventapasseri, o esseri mostruosi e contorti, scolpiti dagli elementi, illusi dalla vana speranza di sopravvivere alle lande aride del Naukluft.

COSA E’ DAVVERO REALE?

Questi arbusti in realtà (ma cosa qui è davvero reale?) sono i resti fossili della foresta di acacie che qui un tempo prosperava, prima che i movimenti delle dune deviassero inesorabilmente il corso dell’acqua, tramutando l’oasi in una sorta di museo naturale a cielo aperto. Tali proiezioni del tempo rappresentano l’ultimo tocco dell’artista, quello che conclude e suggella l’opera, grazie al contrasto intenso che crea con lo sfondo.

SCHEGGIA FOSSILE

Restiamo vigili al cospetto dei gringos, mentre Iri non resiste e fa quel che non si deve fare, arrampicandosi su un’acacia per pochi istanti, prima che le intimiamo di scendere e che una scheggia le si conficchi in un dito. Ho pensato poi molto a quella scheggia infida, la scheggia del tempo, della memoria del mondo, conficcata per sempre nella mano di mia figlia, come fosse un monito a stare alla larga, a non avvicinarsi a quelle creature che, si, sembrano morte, ma non vogliono essere disturbate e possono mordere ancora, tante ne hanno passate. Ne hanno viste di cose che noi uomini non possiamo immaginare.

TRE CIME

A quel punto due ragazzi del posto, avendoci probabilmente visti arrivare dai piedi della Grande Duna, mi chiedono: ma siete andati su con i bambini? Voi siete pazzi! Ormai siamo abituati a circostanze simili: se non hai determinati tratti somatici e capiscono che non provieni da certe zone del pianeta, all’estero si stupiscono se fai certe cose. Se fossimo stati australiani o sudafricani, nessuno avrebbe fatto caso a noi. Avrei potuto e voluto spiegare a quei tizi, spinto da smisurato orgoglio paterno, che i miei figli hanno circumnavigato le Tre Cime e attraversato l’altopiano di Landmannaugar quando erano persino più piccoli, ma vai un po’ a spiegarlo a due giovani namibiani.

JUMANJI

Ci dirigiamo verso l’uscita “facile”, quella pianeggiante, percorsa dalle persone pigre e da quelle che hanno reali problemi di deambulazione. E’ comunque un bel tratto di strada, in cui si alternano sabbia e strati di crosta salina dalle forme più strane, che forniscono l’illusione ottica tipica del bassorilievo. Arriviamo al parcheggio principale, quello in cui Topo ci aveva lasciato col resto della comitiva. Il nostro Franklin merita una menzione ulteriore. Mi piace scriverne perché lo lego al remake di Jumanj, che ricordo con piacere perché non ho mai sentito ridere tanto i miei figli, ridere da spaccarsi, da cadere dal divano, da pisciarsi addosso, ridere di quelle risate che poi fanno ridere anche tutti quelli che ti stanno intorno

SESRIEM CANYON

Ci accodiamo a un gruppetto in attesa e di colpo rispunta il nostro avatar preferito. Ci riporta al parcheggio dei 4×2, dove paghiamo e riprendiamo il Rover. Siamo stati rapidissimi, come spesso ci capita. Sono soltanto le 11e30 e dobbiamo decidere il da farsi. Potremmo tornare alla capanna e fare uno spuntino, rilassarci un attimo, vista l’alzataccia del mattino, ma non è da noi, e dopo qualche foto panoramica decidiamo di dirigerci verso il Sesriem Canyon, una piccola ma affascinante gola profonda qualche metro e lunga un paio di km. Arriviamo verso le 13, dopo aver percorso una carrettiera dilaniante, e fatichiamo un attimo a trovare l’ingresso al canyon, perché non esiste segnaletica e ovviamente non c’è nessuno a cui chiedere.

ALMANNAGJA

Poi d’un tratto compaiono dal nulla una guida e il suo sparuto drappello e troviamo la fenditura attraverso cui scendere. Il canyon è un incanto, paragonabile per foggia e dimensioni ad Almannagjà, un piccolo canyon islandese che all’interno del parco Pingvellir conduce alle Oxararfoss, una delle miriadi di cascate locali. Qui non c’è traccia d’acqua e la roccia è chiara, e si potrebbe concludere che no, in effetti non c’azzecca una mazza, eppure la discesa graduale e le dimensioni del canyon e delle pareti mi hanno ricondotto per un attimo in quella cavità del Regno di Ghiaccio, che adesso sembra così distante, soprattutto concettualmente. L’Islanda è forse l’esatta antitesi della Namibia.

I PIRATI DI BENAGIL

Ma noi siamo qui, adesso. Percorriamo la gola con passo blando, godendo dell’ombra che occupa gran parte della superficie di nostra competenza. Le pareti ricalcano le forme più strane, di orchi elfi nani giganti e altre figure mostruose e deformi che mostrano il proprio volto forgiarsi e uscire gradualmente dalla roccia. E per tornare alla rubrica Corsi e ricorsi del Viaggiatore Indomito, sono costretto ad annotare che questi volti minacciosi somigliano in modo sconcertante a quelli che avemmo modo di osservare un anno fa in Algarve, dove raggiungemmo a bordo di una barca le grotte di Benagil. Facce piratesche, poco raccomandabili, facce truci, da contrabbandieri filibustieri assaltatori di carovane. Facce erose dal vento e dal mare, dal sole e dal sale.

MOSTRI

Saliamo e scendiamo dalle rocce abbarbicate sui margini del canyon, proseguiamo finchè la gola si apre fino a non apparire più tale e a perdere il suo fascino “stringente”. A quel punto torniamo indietro, e ci accorgiamo che c’è una biforcazione. Andiamo verso destra, dove il canyon sembra stringere le sue maglie e avvilupparsi su sè stesso, tanto che le facce di roccia, che qui si accalcano, sembrano osservarsi vicendevolmente in modo guardingo e circospetto, come se ogni personaggio si aspettasse la mossa dell’antagonista di turno da un momento all’altro. Inutile negarlo, transitare fra i menti e i nasi bitorzoluti di quei mostri fa sentire dannatamente osservati. Il canyon a quel punto ci inghiotte.

PAURE PRIMORDIALI

Mentre i mostri incombono su di noi, avvistiamo un serpente minuscolo e dei piccoli scarabei che fanno impazzire Irene: è terrorizzata in modo tale che capisco subito quel tipo di paura, che è inconscia e legata a una sfera misteriosa e ancestrale della memoria condivisa dagli uomini. Non c’è paura di ciò che è adesso, questa è una paura che arriva da lontano, una paura che si è depositata nella memoria di qualche nostro antenato primordiale, risalente a quando grande e piccolo avevano un’altra relatività e a quando magari quegli scarabei erano giganti, e predatori dell’uomo, a quando gli scarabei, nelle altalenanti e romanzesche vicende dell’evoluzione, eravamo noi. Il che peraltro non esclude che continuiamo ad esserlo, in diversa misura. L’indole artistica e svagata di mia figlia deriva da tale fenomeno: credo che lei abbia accesso ad alcune informazioni che non sono comunemente fruibili, credo che lei intuisca qualcosa delle profondità della natura umana e della vita in generale. Credo che le sue porte della percezione lascino intravedere uno spiraglio che resta precluso ai più. Un po’ come capitava a Zia Gina. Per questo motivo Irene è disinteressata a gran parte delle vicende ordinarie che la quotidianità impone. Le auguro di preservare questo dono a lungo.

ACQUA

Procediamo inerpicandoci fra le rocce, risalendo poi attraverso una fenditura abbastanza stretta, fino ad avvertire uno strano odore legato a un fenomeno raro da queste parti, soprattutto a quest’ora: l’umidità. C’è una piccola pozza riparata all’ombra di una grotta, una delle rare che avremo modo di ammirare così da vicino. Immagino quanto sia preziosa per le forme di vita che si aggirano da queste parti.

“YOU’RE IN THE DESERT“

Torniamo indietro e per le 14e30 siamo nuovamente in macchina. L’idea, a quel punto, è di andarsi a rilassare in piscina, godendoci un pochino il luogo fantastico in cui alloggiamo. Facciamo benzina e torniamo al Desert Quiver Camp. Scopriamo con dispiacere, soprattutto per i bimbi, che la piscina è chiusa a causa del vento, e che aprirà non appena questo diminuirà la sua portata. Il tempo a disposizione è poco perché poi dalle 17 inizia a farsi freddo, e la speranza che la piscina apra rimarrà tale. Francy passa in reception e chiede come mai il vento non cessi mai. Il tizio la guarda e le risponde, laconico: You’re in desert. Ne approfittiamo per riposarci e rimetterci in sesto prima della cena. Stasera andiamo al Sossusvlei Lodge, che credo sia l’unico ristorante della zona.

TANTO TUTTO E’ TROPPO

Il buffet offre vari tagli di carne e talmente tante pietanze da far confusione: la mia visuale è limitata quando il campo visivo offre troppe informazioni in uno spazio troppo piccolo, e così improvvisamente quel tutto diventa niente. In proposito, continuo a non capire come facciano tante donne a individuare oggetti interessanti in mezzo a pandemoni quali bancarelle, bigiotterie ed ognuna di quelle botteghe strapiene fino all’inverosimile di cianfrusaglie di ogni tipo. Il mio cervello non è in grado di elaborare immagini singole al cospetto di inferni simili, in cui non esiste spazio o respiro fra un oggetto e l’altro. Comunque, se qui al Sossusvlei il cibo che riesco a selezionare è buono, il problema è che si mangia all’aperto, e che sembriamo gli unici in difficoltà a cospetto del freddo del deserto, i soli probabilmente che chiedono coperte per non morire congelati.

LOST HIGHWAYS

Dopo cena andiamo a bere una cosa intorno a un falò che sta sul retro della struttura. I divanetti sono posizionati in direzione di alcuni siti illuminati, in cui transitano varie razze di antilopi per bere o sgranocchiare qualcosa. Parliamo un po’ con i membri di una famiglia tedesca in vacanza. Ci raccontano che dormono lì e che non vedono l’ora di trasferirsi, l’indomani, al Desert Quiver, il nostro posto. Mi piace immaginare che abbiano preso il nostro posto in struttura, l’indomani. Sono le 21e30. E’ notte, notte fonda, la stanchezza si fa sentire. Decidiamo di tornare. La strada è deserta e priva di illuminazione, la notte limpida, le stelle fanno festa in cielo. Buio e silenzio ci accompagnano a braccetto verso casa. Come è nostro costume, non opponiamo resistenza.

Namibia Family Adventure – Day 5 – Martian Day

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Cronache e Storie d'Osteria

Avremmo dovuto svegliarci prima, dato che oggi abbiamo parecchia strada davanti, ma non riusciamo a presentarci a colazione prima delle 7e30. Siamo lenti e rilassati, troppo rilassati! Io sono persino accartocciato, dentro, nel groviglio disorganico dei pensieri del mattino, che non sono mai elaborazioni fluide o sensate, e fuori, sul viso segnato da una notte probabilmente tormentata e sulla scia dei monosillabi gutturali che la mia natura primordiale impone prima che il caffè mi faccia tornare -per così dire- normale.

AUS – KOLMANSKOP – SESRIEM

Chiacchieriamo tranquillamente, ripassiamo le tappe e il percorso del giorno, e confermiamo la scelta di andare a vedere la città fantasma di Kolmanskop, che comporterà una deviazione importante, non per la distanza che implica in sè, ma perché si somma alla strada che verrà dopo. Quindi da Aus andremo verso Luderitz, a ovest, percorrendo la B4 prima in un senso e poi nell’altro. Sono circa 250 km di ottima strada che però anticipano la deviazione successiva: anziché proseguire sulla strada canonica per Sesriem, tappa finale di giornata, noi imboccheremo la meno frequentata D707, una pista di sabbia e pietra che attraversa un altopiano incastonato fra il deserto del Namib a ovest e la catena dei Monti Tiras a est. Dopo di che la C27 ci condurrà fino a destinazione. Oltre le due ore e mezzo iniziali, avremo altre 5 ore abbondanti di strada davanti, sperando che tutto proceda regolarmente e senza intoppi.

SOPRAELEVATE DEL MATINEE

La giornata è bellissima, la prospettiva emozionante, partiamo. La strada verso Luderitz sembra un quadro di zio Gino, chi l’ha disegnata aveva mano leggera e tocco d’artista. Anse sinuose si susseguono armonicamente seguendo il saliscendi delle alture che ci accompagnano su entrambi i lati, sopraelevate inventate sprofondano nei falsopiani per poi riemergere altrove. Lo spettacolo del matinèe lascia progressivamente intuire l’oceano. Avvertiamo la presenza del mare, la sentiamo negli occhi, puntando l’orizzonte. Queste strade scivolano via per terminare la propria corsa in mezzo all’Atlantico. Oggi dobbiamo accontentarci dell’idea dell’acqua. Avremo modo di assaggiare l’oceano nei prossimi giorni.

Arriviamo al box per le registrazioni di Kolmanskop alle 9e30 circa. Fra le cose fatte la sera prima, avevo anticipato il pagamento, così mostro la mia prenotazione agli addetti, che scannerizzano il ticket e ci fanno entrare al volo. Giamma ha qualche problemino intestinale, potrebbe aver preso freddo il giorno prima nell’entra ed esci dalla piscina. Lo monitoriamo ma, conoscendo bene il nostro polletto, notiamo i sintomi di un generale affaticamento.

LONTANI DAL PASTORE E DAL GREGGE

Un nutrito gruppo di turisti si accoda a una guida. Comprendiamo nell’arco di pochi secondi che non possiamo in alcun modo stargli dietro: tempi troppo compassati per una platea estremamente comoda, che cozzano sia con la nostra pazienza che con il programma serrato del giorno. A me e Franci ormai basta uno sguardo in circostanze simili, l’intesa è istantanea e non c’è nemmeno bisogno di dire “Andiamo”. No, le nostre gambe ci hanno già condotti altrove. E la scelta è azzeccata, perché avremo modo di visitare la maggior parte delle costruzioni in totale solitudine, lontani dal pastore e soprattutto dal gregge.

BEVERLY HILLS

Ci dirigiamo prima verso le dune più alte, le Beverly Hills di Kolmanskop, dove vivevano il direttore, il contabile, l’architetto Herr Ziegler, l’insegnante (l’inflessibile signorina Hussmann), il Quartiermastro, un sottufficiale incaricato degli approvvigionamenti, e l’ingegnere minerario Kolle. Sembra impossibile che qui, all’inizio del 1900, vivessero a un certo punto fra le 2000 e le 3000 persone, eppure è così.

Da quando -nel 1908- un operaio di nome Zacharias Lewala trovò un diamante mentre lavorava in questa zona e lo mostrò al suo supervisore, l’irreprensibile ispettore ferroviario August Stauch, molti minatori tedeschi si stabilirono qui a caccia di diamanti. E’ una storia comune a tante città minerarie di tutto il mondo. I campi di diamanti di Kolmanskop crearono una ricchezza tale che il villaggio ben presto divenne una città in perfetto stile architettonico tedesco, dotata di ogni comfort e servizi, tra cui un ospedale da ben 250 posti, una sala da ballo, una centrale elettrica, una scuola, un teatro, un casinò, un impianto di produzione di ghiaccio. Qui vide la luce anche il primo tram africano. Una linea ferroviaria di circa 10 km collegava Kolmanskop alla città portuale di Luderitz.

ARRAKIS

Nella parte più alta della città fantasma il clima è distopico, sembriamo naufraghi alla fine del tempo, siamo su un pianeta alieno, unici sopravvissuti a un disastro di proporzioni bibliche. Entriamo e usciamo dalle case vuote, siamo noi i fantasmi forse. Ci aggiriamo fra le rovine in silenzio, immaginare la vita del passato è un esercizio complesso.

La sabbia che invade ogni superficie disponibile rende comunque l’idea della lotta impari e incessante dell’uomo col deserto, che avanza senza sosta e senza poterlo arginare. Questo luogo lascia intuire anche quanto il deserto potrebbe contenere, quanto possa aver fagocitato e poi nascosto nel corso del tempo. Quanta vita è sepolta laggiù? Possiamo provare a immaginare le vicende quotidiane della gente che un tempo viveva qui, ma non possiamo sapere quante storie e vite e oggetti abbia inghiottito il deserto nei secoli. Sabbia ovunque, sabbia sulle scale e nelle scarpe, sabbia nel vento e fra le idee, sabbia che pervade ogni spazio, che corrode materiali e ricordi, che racchiude in sé e poi annulla il passato nelle sue profondità, digerendolo come i vermi di Arrakis.

FALLOUT

E’ il 2046, è un film di fantascienza, in cui noi siamo comparse che si muovono sul set per la prima volta, senza un copione o indicazioni di sorta. Gli interni dalle tinte pastello sono fermi immagine temporali, finestre affacciate su un mondo estinto, in cui immagino aggirarsi le bambole urbane di Francesca Tilio, un’amica ed eccellente fotografa delle mie parti. Bambole di una città spettrale fra il deserto e l’oceano, bambole coloniali di un ovest immaginario.

E’ un luogo evocativo: il passato è un fantasma che si aggira fra le tavole dissestate e il legno che scricchiola e resiste e mugola sotto i passi di coloro che si muovono dall’altro lato. E’ un mondo franato, che continua a sprofondare dolcemente ma in modo inesorabile. Eh si, questa sabbia somiglia al tempo, è la polvere di una clessidra cosmica, è il futuro che si affaccia e sgretola il presente.

VASCA DA BAGNO A VELA

Proseguiamo il nostro giro, scivoliamo a valle a bordo di una vasca da bagno a vela, mentre Giamma continua a manifestare sintomi di malessere che ci costringono ad alcune peripezie. Visitiamo le case dei dottori Kraenzle e von Lossow: il primo fissato con il vino anche come strumento terapeutico (la casa aveva una cantina ben fornita in effetti) e l’altro che aveva una vera passione per aglio e cipolla, fattore che pare utilizzasse per tenere lontani i pazienti.

Buttiamo un occhio alla stazione, ai vecchi negozi, alla piccola fabbrica di ghiaccioli Wonka, e poi lasciamo Kolmanshop, come fecero gli ultimi residenti nel 1956, dopo che la città aveva subito un graduale e costante spopolamento a partire dalla fine della prima guerra mondiale, a causa dell’esaurirsi delle miniere locali e della scoperta di altri giacimenti più redditizi.

Sono le 10e30 quando riprendiamo la macchina. Il viaggio è lungo e insidioso e il serbatoio va rimboccato. Tocca fare un’altra sosta ad Aus, ultimo avamposto prima del dilagante nulla diretto a Sesriem. Stavolta troviamo un tizio più sveglio del cacciatore di foche canadese del giorno prima. Facciamo il pieno, ci facciamo sgonfiare gli penumatici il tanto che basta per attutire l’impatto con la roccia che ci farà compagnia per le prossime ore, e ripartiamo.

D707 – CRONACHE MARZIANE

Nei pressi di Aus lasciamo la B4, imbocchiamo la C12 verso nord est, proseguiamo per qualche chilometro e poi, poco prima del Tirasberg Conservancy, viriamo a sinistra di 90 gradi per imbucare finalmente la D707, la pista che sogno da alcuni mesi, quella che mi ha regalato stravaganti fantasticherie ad occhi aperti mentre percorrevo le sterminate vallate della creazione. In strada si alternano roccia e sabbia rossa. Il paesaggio è una visione allucinante, sembra il pianeta Marte dipinto da Bradbury nelle sue Cronache marziane, o quello che poi ci hanno mostrato i rover Curiosity e Opportunity. I colori mutano in sequenza, il fondo stradale si trasforma rapidamente, passando dalla roccia alla sabbia e viceversa.

Oscillo alla guida, procedo in un moto ondoso e confuso da una riva all’altra della strada in piena, senza mai tenere una traiettoria precisa. Non dobbiamo forare, sia perché è meglio evitarlo a prescindere sia perché il nostro tempo è risicato, e non dobbiamo arenarci nei tratti in cui la sabbia si accumula, perché non c’è nessuno a parte noi, da queste parti, per provare – nella tragica eventualità- a trarci d’impiccio. Questa strada è assai poco frequentata in genere, tanto meno a giugno. Il “grosso” dei viaggiatori più arditi arriverà a luglio. Quindi cerco di evitare i massi più acuminati e i cumuli di sabbia e terriccio, ma questo esercizio richiede un livello di attenzione massima. Il sole picchia forte, e ho la sensazione che i miei occhi stiano per sanguinare a causa dello sforzo profuso. A tratti la prendiamo a ridere, a tratti la concentrazione è tale per cui Franci diventa un navigatore a tutti gli effetti, aiutandomi a scegliere il lato giusto della carrettiera e ad evitare le insidie maggiori. Di tanto in tanto avvistiamo gazzelle, struzzi, gnu, orici, kudu e altre antilopi. Non sembrano reali, tanto sono immerse in questo paesaggio ai limiti della credibilità: gli animali sembrano ombre sghembe di se stesse o figure proiettate da un proiezionista in vena di scherzi, disegni neri stilizzati che acquisiscono forma reale solo nel momento in cui la prospettiva si accorcia.

FURY ROAD

A un certo punto la strada non è più una strada ma una semplice pista dai margini sempre più blandi e incerti, non ha quasi più confini e disorienta ulteriormente chi l’attraversa. Incontriamo un gruppo di orici in prossimità di una roccia, e ci fermiamo ad osservarli. Uno di essi si staglia elegantemente su questo grosso masso piatto. La sua posa è regale, altezzosa, e si rivolge ai suoi simili dall’alto in basso, come se avesse qualcosa di importante da comunicare in nome della sua nobile stirpe. Forse è il loro re, o forse chissà. Alle sue spalle, la regina osserva ogni dettaglio con attenzione, come se avesse scritto lei stessa il discorso e ne stesse testando l’efficacia.

Riprendo a guidare sul suolo marziano, fatichiamo a parlare per le vibrazioni del fantastico mezzo a nostra disposizione, un rover Fortuner in buone condizioni fornitoci da coloni marziani di seconda generazione, un gruppo di mercanti e cacciatori di taglie pronti a tutto in cambio di qualche credito interplanetario. I bambini non hanno la nostra stessa soglia di attenzione e la nostra curiosità, e gli accordiamo un film, nonostante il frastuono e la febbricola di Gim. La varietà dei colori è indescrivibile, i contorni di ogni oggetto sono linee confuse e incerte che mutano forma e direzione lungo il cammino. Di punto in bianco avverto una stanchezza che va oltre la stanchezza: se la causa non è la rarefatta atmosfera marziana, lo è senz’altro la tensione nervosa, dovuta al senso di responsabilità nei confronti della mia famiglia, cui volevo regalare l’ebrezza della libertà nell’assoluto nulla che stiamo attraversando, ma che pure vorrei sapere al sicuro, in salvo dalle incognite dell’indeterminatezza e dell’ignoto.

Non posso mollare, allentare la tensione, e guidare qui è faticoso anche fisicamente, perché tocca tenere una velocità di crociera non inferiore agli 80 km orari per annullare almeno parzialmente l’attrito con il fondo disconnesso, e bisogna stringere e mollare continuamente il volante per contrastare la resistenza da un lato ed evitare ostacoli improvvisi dall’altro. Per lunghi tratti mi lascio scivolare via, proprio come se il rover venisse giù dal Piccolo Cervino. Le esse che disegno sul terreno mi divertono ma diventano estenuanti dopo oltre due ore di rally. Sono le 15 quando usciamo dalla D707. Esulto per aver superato una prova simile, e finalmente mi rilasso. Adesso avverto dolore alle braccia, alle spalle e sul collo, ma ho portato a termine la missione. Non trattengo una punta di orgoglio, che si sprigiona in un sorriso idiota a fine corsa.

SPES BONA

Facciamo un attimo fatica a capire dove andare perché le mappe off line non ci sostengono più nel Namib. Ma poi l’intuito di Franci prevale e ci riporta sulla retta via, ma con una sorpresa. Inizia una brutta C, il terreno intorno si fa più brullo e scuro, molto simile ad alcuni territori dell’entroterra islandese, ma la strada sembra persino peggiorare, perché i solchi si fanno via via più profondi e la strada più dura, tanto che le gomme andrebbero sgonfiate ancora un po’, se Spes Bona non fosse soltanto il nome di un crocevia, un non luogo a cavallo di altri non luoghi.

HAN SOLO

Così andiamo avanti, finchè facciamo il callo ai solchi. Ora ho superato la stanchezza, vago in quei territori che si stagliano al di là di essa, dove regna la bestialità. Monto il grugno del montanaro del Tiras, mi imbruttisco alla rassegnata ricerca della meta, guidare è il mio destino e non posso fare altro. Non solo, poche cose mi riescono meglio, e questa è la mia missione: pilotare il mio mezzo attraverso queste lande desolate, condurre la mia famiglia al di là del guado, che è poi quello che cerca di fare un padre ogni giorno. Tengo duro e via via i solchi si ammorbidiscono. Le alture in lontananza sembrano sommità di iceberg meticci o isolotti neri che galleggiano in mezzo a una distesa d’acqua che è solo un miraggio. La posa drammatica assunta per interpretare Han Solo, un contrabbandiere prestato al trasporto di esseri umani, mi ha fornito la forza residua per andare avanti, quella che non sai di avere finchè non ti serve.

DESERT QUIVER CAMP

Sono le 17e30 quando saltiamo nell’iperspazio con il Millennium Falcon, arrivando a destinazione, il Desert Quiver Camp, un altro luogo difficile da ipotizzare, con una dozzina di bungalow disposti a mezzaluna alla periferia di Mos Eisley, noto porto spaziale del pianeta Tatooine. Questa sarà la nostra casa per ben due giorni. Al check in Rafa Leao ci consegna le chiavi, ci spiega che -se abbiamo bisogno di un ristorante- possono prenotarci quello del Sossusvlei Lodge, con cui sono convenzionati. Diciamo di si, ma senza rendercene perfettamente conto. In questo momento diremmo si a tutto, probabilmente.

SCENE DI VITA QUOTIDIANA

Portiamo il rover al lodge. Stavolta siamo nel primo, quello più vicino alla reception, al bar e alla piccola piscina della struttura. Svuotiamo la macchina, poi ci buttiamo sotto la doccia. Svengo per qualche istante mentre Franci e le animelle discutono di qualcosa e armeggiano fra dentro e fuori. Li sento dire che vorrebbero cenare nel tavolino che abbiamo in veranda: farci un piatto di pasta in tranquillità è un’ottima idea, sembra prepararsi un bel tramonto e accetto di buon grado di riprendere la macchina e andare in paese a fare una piccola spesa. Le quasi otto ore al volante sono soltanto un vago ricordo. Il paese è poco più di un incrocio, arriviamo al discount indicato, un tizio all’ingresso ci fa capire che il negozio di alimentari sta chiudendo. Accompagno i miei al market, e ne approfitto per fare il pieno e guadagnare tempo per l’indomani. Poi raggiungo Franci e i ragazzi. Hanno già trovato pasta, olio e pomodoro. Io mi occupo del vino. Paghiamo e torniamo al bungalow, molto soddisfatti.

Franci si reca in reception per annullare la prenotazione della cena, poi torna e iniziamo ad apparecchiare. Cerchiamo le vettovaglie vicino al frigo, poi di lato, e poi sotto, e sopra, scrutando ogni angolo del nostro curioso lodge, ma non c’è traccia di piatti, pentole e quant’altro serva per cucinare. Ci siamo ormai arresi al fatto di prendere la via del ristorante, e Franci torna in reception per l’ennesima volta. Ma anziché con l’orario della prenotazione, torna con un box nero bello grande, che contiene tutto il necessario per cucinare. Siamo felici di poter restare lì. Il tramonto è magnifico, la pasta è più che decente e a noi piace allestire una propaggine di casa durante i nostri vagabondaggi, e quando il luogo lo concede Franci ci supporta con la sua abilità in cucina. Anche stavolta ha fatto tutto il possibile con gli ingredienti a disposizione.

IL COYOTE E LA VIA LATTEA

Poi la notte ci abbraccia col suo mantello nero, le stelle mettono in scena uno spettacolo indescrivibile, la via lattea è luminosa e sembra indicarci la vita segreta degli astri. A un certo punto, mentre ci avvicendiamo ad osservare il cielo col binocolo, Franci ci chiama e dice: ragazzi, venite, c’è un cagnolino! Andiamo e vediamo un coyote a un metro di noi. Se ne sta lì, pacifico, silenzioso, immobile. Ci osserva, in attesa di qualcosa. Poi le animelle gridano per la sorpresa e lui caracolla via senza fretta, nelle profondità della notte. Ma sento che è lì nei paraggi, ne sono sicuro, magari in attesa dei piccoli resti della nostra cena, magari solo per fare conoscenza. Ma adesso mi aggiro con minor rilassatezza nei dintorni della nostra baracca, osservo le profondità vacue del cielo stellato ma con un occhio a terra, in cerca del coyote, che ho sempre considerato un animale magico, che tra l’altro non avvistavo dai tempi del Sudafrica. Mi piacerebbe ballare con lui, prima di ritirarmi. Ma non ce n’è più traccia, e decido che è ora di congedarmi dalla veglia. Inizia a montare un vento impetuoso, che avanza senza ostacoli sulla superficie piatta del deserto. Il vento scuote la nostra tenda indiana e rimescola i pensieri prima del sonno, che poi prevale sul resto, consegnandoci al silenzio delle tenebre.

CALEIDOSCOPIO

La città fantasma e i suoi spettri, la chimera dei diamanti, le sopraelevate fra le dune e l’oceano, la pista selvaggia e le sue sorelle, il rover marziano, la terra rossa, i regali orici, i neri altopiani e i miraggi delle ombre, le baracche a mezzaluna nel deserto, la via lattea, il coyote nella notte scura, il vento del deserto. E’ stata una giornata incredibile, forse soltanto sognata, che difficilmente potrò dimenticare. Spero sia lo stesso per i miei cari.

NAMIBIA Family Adventure – Day 4 – Fish River Canyon Day

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Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Storie, Viaggi

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Cronache e Storie d'Osteria

La notte è stata eccellente. Ogni giorno riprendiamo gradualmente smalto e freschezza. Mi alzo verso le 7e30, poco prima dell’alba. Esco senza far rumore per non rovinare l’idillio di respiri tenui e candide lenzuola che regna nelle nostre stanze. Ora che la notte si è dissolta vedo finalmente dove siamo davvero. Il nostro bungalow è il penultimo prima del deserto sconfinato.

E’ fresco, ma non freddo, il vento è tagliente e scorbutico ma impercettibile alla vista, se non fosse per la sabbia che di tanto in tanto gorgoglia in leggeri mulinelli. Micro ballerine evanescenti danzano sulla superficie brulla per poi dissolversi nell’etere. La vegetazione è composta da coriacei e taciturni arbusti, da qualche solitario albero faretra e da altre specie ad esso riconducibili.

LESOTHO

La solitudine del momento mi ricorda un’alba in Lesotho di qualche anno fa: io e Franci all’epoca trovammo alloggio in uno sgangherato e caleidoscopico Backpapers, dopo un’escursione di un giorno fra pitture rupestri e villaggi nelle splendide vallate del minuto Paese africano.

I fiori rosa dei ciliegi punteggiavano un territorio prevalentemente arido, e il panorama complessivo offriva una visione diversificata del mondo conosciuto, quasi ci trovassimo a galleggiare fra le pennellate di un maestro impressionista. Anche allora mi ero allontanato per andare incontro all’alba, e ricordo il disco rosso fuoco davanti a me e l’illusione di essere solo, quando invece alle mie spalle un bus in disuso ospitava parecchi giovani in cuccette simili ad arnie.

LUNA LIBERA TUTTI

Qui in Namibia l’alba è più luminosa ma algida, di un azzurro freddo e surreale. La luna – attonita- sembra immobile, quasi si fosse persa, e si guardasse intorno per ritrovare il sentiero di casa. O forse è amareggiata, vorrebbe giocare l’ultima volta a nascondino, ma gli amici si sono ritirati dopo l’ultimo giro. Tana libera tutti, e una volta divincolati, i corpi celesti hanno riconquistato le proprie orbite con un guizzo cosmico. Robusti dorsi d’aragosta contrastano col blu cobalto del cielo ed esaltano il pallore estatico del nostro desolato satellite.

THE PROGRAM

E’ un altro luogo magnifico e penso sia un peccato non potervi ammirare il tramonto, dato che il programma di viaggio è serrato e non prevede notti supplementari nel profondo sud.

“Il programma di stasera è un ripasso, l’avete visto e rivisto passo per passo. E’ la vostra nascita, vita e morte, ricorderete ogni parte. Avete avuto un buon mondo morendo? Abbastanza da farci un film?”.

Continuo ad aggirarmi nei dintorni di me stesso. Cerco qualcosa fuori, o forse dentro di me. Il viaggio è incessante ricerca, come la vita stessa. Si cerca per aggiungere, o per sottrarre, ma anche per ricordare e ritrovare la memoria condivisa della specie e del pianeta, e riscoprirsi come individui diversi in seno alla Madre Terra. L’unico rumore è quello dei miei passi, qui regna una quiete che non nasconde o prepara tempeste. E’ pace reale, percepibile, ben salda sul dominio della nuda pietra. Il sole inizia a fare capolino, e regala regali sfumature di rosa e d’arancio. Abbiamo dormito nel vecchio west, la nostra baracca è una casa nella prateria, e fra i cespugli e le rocce iniziano a spuntare le animelle ancora mezze addormentate.

ANIMELLE ISTRIANE

Nel 2011, io e Franci girammo la Croazia a zig zag, da sud a nord, dalla costa all’entroterra, dall’entroterra alla costa. Risalendo, facemmo sosta in Istria per l’ultima tappa balcanica. Il gestore della struttura immersa nel verde era un ragazzo parecchio loquace e simpatico. I suoi bambini erano liberi e selvaggi, correvano da un non so dove all’altro senza sosta: li vedevamo spuntare da un cespuglio, o salire e scendere dagli alberi come baroni rampanti.

La loro corsa era rapida e leggera, e ogni tanto sentivamo il padre dire: “Dove sono le animelle?” o “Ecco le animelle!”. Io e Franci, senza sapere quale sarebbe stato il futuro, concludemmo che, se mai un giorno avessimo avuto figli, sarebbe stato carino chiamarli “animelle”, un modo leggero e volatile di definire un bambino che interpreta se stesso. La voce di quell’uomo di cui non ricordo il nome, insieme alla bellezza dell’Istria e al suo ottimo vino, è un ricordo tuttora vivido, una di quelle piccole cose che ti rimangono addosso oltre ogni previsione.

E proprio adesso, mentre scrivo, a casa nostra, a Jesi, mi chiedo cosa facciano le animelle: sento Irene ridere in giardino mentre gioca con le amichette e vedo Franci che aspetta Gim dalla finestra, di ritorno dalla casa dell’amico del cuore. Il tempo è un’illusione che la scrittura può raggirare. Il tempo è nel pensiero, e nell’acqua, e nello spazio tutto. Nella scrittura il tempo si perde e diventa ora e sempre. La comunicazione annulla il tempo e ciò che una mente legge e ciò che una mente scrive nella condivisione diviene pura eternità. Le parole rubano tempo al tempo.

LA GIOSTRA

Dalla Croazia e dalle curve paraboliche della memoria faccio ritorno in Gondwana. Le animelle escono silenziosamente. Si stropicciano gli occhi, si guardano intorno con sorpresa cercando di comprendere i trucchi che combina la luce quando si sostituisce al buio. Ogni particolare è diverso dalla sera prima, anche per loro. Giamma e Iri salgono e scendono dalle rocce: lo fanno sempre, come se lo dettasse l’istinto, o la memoria, come se non potessero resistere a quel moto indotto. La natura è una giostra per chi non l’ha dimenticata. Ma ecco arrivare Franci, facciamo qualche foto, ci riempiamo ancora un po’ gli occhi della bellezza che divampa tutto intorno, e poi andiamo a fare colazione con passo blando.

BIANCANEVE

La zona buffet, pervasa com’è dalla luce del sole e dal canto degli uccellini che, incredibile a dirsi, volano liberi fra dentro e fuori con grazia incontaminata, sembra qualcosa di assimilabile a una fiaba. Qui Biancaneve si sentirebbe a casa. Chi ha costruito questo luogo ha avuto l’accortezza di appoggiare il villaggio sulla roccia, al limitare di essa, quasi a lasciar intendere con l’evidenza dei fatti che siamo ospiti della terra e delle sue evoluzioni, che non possiamo fare finta di nulla o ignorarla, che il suo dominio è persino troppo evidente, che fuori e dentro non esistono realmente. O forse, oltre ogni concessione poetica, lo hanno fatto perchè quelle rocce sono indubbiamente magnifiche. Ma scelgo la prima ipotesi, anche a costo di prendermi in giro.

Mangiamo col solito appetito del mattino, pianifichiamo la giornata, facciamo gli zaini e sistemiamo l’automobile, per poi dirigerci al Fish River Canyon. L’ingresso è a soli venti minuti, il punto informazioni è spartano, le indicazioni dell’addetta scarne, ma il percorso è quasi obbligato e proseguiamo oltre senza indugio. Siamo patiti di mappe e cartine, ma in tal senso avremo poche soddisfazioni in Namibia.

IL FU POSSENTE FIUME FISH

Il canyon si estende per 160 km e sprofonda oltre i 500 metri in alcuni punti. Generato da sismi primordiali devastanti e dall’attività erosiva ed escavatrice del (fu) possente fiume Fish, oggi è un luogo prevalentemente arido. L’impatto visivo è potentissimo e lascia senza fiato: uno spettacolo dirompente, che racconta il passato e descrive il presente in modo inesorabile. Non sembra infinito come il Grand Canyon, ma la sensazione che ho avuto è di poterlo percepire meglio, più compiutamente, rispetto al gigante americano, che in alcuni tratti è talmente vasto da sembrare inconcepibile per i sensi umani.

L’ILLUSIONE MAGNETICA DELL’ATTRAZIONE

Ci fermiamo in un paio di view point, osserviamo i dettagli del canyon con i cannocchiali, restiamo a bocca aperta a destra e a manca. E’ un luogo eccitante, che trasmette grande energia. Le dimensioni delle spaccature sono maestose, è un mondo collassato per strati successivi che si mostra prima per gradi e poi tutto insieme. I consigli di John (a proposito, chissà dove sarà finito?) si sono rivelati azzeccati. A un certo punto lascio la macchina in uno dei punti panoramici e scorgo il sentiero che mi aveva indicato. Decidiamo così di raggiungere i vari punti di avvistamento a piedi, così da sgranchirci le gambe e respirare l’aria fresca del mattino. Camminare sul ciglio di quei precipizi è divertente e spaventoso, e le vertigini creano l’allucinazione magnetica dell’attrazione.

Mentre cammino mi torna ancora in mente il South Rim, il versante sud del Grand Canyon, quello a cui si accede nei pressi di Flagstaff, in Arizona. Nel 2010 io e Franci eravamo scesi fra le sue fauci per un bel tratto, e non mi era mai capitata la sensazione provata allora: testai un senso di vertigine al contrario, dal basso verso l’alto. Più scendevamo e più quelle pareti levigate mi davano l’illusione di essere sottosopra, di camminare sul ciglio rovesciato di un lago di roccia, forse anche a causa del riverbero del sole che picchiava fortissimo su di noi. Qui al Fish River invece non possiamo scendere, non perchè non vorremmo, ma perchè le regole parlano chiaro. Si può scendere in determinati orari e solo con una guida ufficiale. Si tratta di discese impegnative che prevedono di stare fuori uno o più giorni, così ci accontentiamo di osservare da fuori le viscere del mostro.

JUST MY IMMAGINATION

La mia immaginazione corre a ritroso verso le enormi masse d’acqua che qui – in un tempo tanto remoto da non riuscire a capirlo – coprivano ogni cosa come un tappeto fluido e foriero di vita. Penso all’acqua che inesorabilmente e nei secoli si è insinuata e ha scavato laddove ha scovato friabilità, laddove avvertì che il terreno avrebbe ceduto, laddove capì di potersi gettare a capofitto e andarsi a nascondere, disegnando ogni volta le traiettorie più strane, imprimendo sul mastodontico negativo della superficie residua le tracce indelebili del suo violentissimo passaggio.

Chissà dov’è adesso quell’acqua pensante, dove è andata a infilarsi, a scorrere, a generare nuova vita. Sembra il resoconto di una fuga leggendaria: l’acqua è scappata chissà dove, inafferrabile, impossibile da arginare, e si è rimescolata nelle profondità terrestri ad altri elementi, ad altri corsi sotterranei, contribuendo a produrre nuovo caos e infinita vita, che del caos e del caso è diretta conseguenza.

WILD HORSES

Ma lasciamo la mente dello scrittore vagare nel brodo primordiale del pensiero primigenio e torniamo a noi. Ci concediamo una foto nel punto che segna l’inizio del sentiero verso il fondo del canyon, come per immortalare l’inizio di un percorso mai percorso, e poi torniamo indietro. Sono le 12e30, è ora di andare. Abbiamo tre ore scarse di macchina e oggi vogliamo rilassarci ancora un po’, anche perché l’indomani prevede con ogni probabilità la tappa più pesante del viaggio. Siamo diretti ad Aus, dato che alloggeremo nei paraggi, al Klein Aus Vista Desert Horse Inn, così chiamato perché nei paraggi ci sono pianure popolate da cavalli selvaggi, pronipoti dei cavalli che arrivarono insieme ai coloni tedeschi e che hanno saputo adattarsi e riprodursi in queste terre.

Il viaggio è piacevole, guidare è divertente, e il tempo scorre leggero. Poco prima di arrivare, ci fermiamo a fare rifornimento di benzina ad Aus. Manco a dirlo, anche in tal caso trattasi di un centro abitato appena accennato. Una bozza da rivedere coi soliti binari a correre a bordo pista.

GHOST STATIONS & JAMIE FOXX , THE CANADIAN HUNTER

Ci fermiamo presso l’unica stazione funzionante della zona. Si, perché ci siamo resi conto fin dal primo giorno che la Namibia è piena di Ghost Stations, un modo di dire da me coniato che, per l’assonanza con Gas Station, faceva parecchio ridere le persone a cui ne parlavo. Avremo mille difetti, ma noi italiani abbiamo un talento formidabile per le amenità e i giochi di parole. La pompa presso cui ci fermiamo funziona, ma a modo suo. Fuori fa caldo, ma l’addetto indossa un pesante cappello rosso, con tanto di para orecchi. Vai a capire perché.

La pompa carica lentamente, e devo attendere il mio turno, perché lui è persino più lento della pompa, e fa una cosa alla volta, tanto che quando il mio turno arriva, più di dieci minuti dopo esserci poszionati, mi sono mezzo appisolato. Non solo, lui non mi fa alcun cenno di avanzare. Mi guarda con un sorriso quieto, e aspetta. Se non mi fossi riavuto, avrebbe aspettato ore, forse giorni, col suo berretto rosso da cacciatore di foche canadese. Che tipi strani popolano il mondo. Franci e i bambini ne hanno approfittato per andare in bagno e fare un po’ di spesa, e si stupiscono quando tornano e mi trovano ancora lì, con Jamie Foxx che continua a fissarmi. Già, perché il tizio -fra le altre cose- è anche il sosia sputato dell’attore texano, e la sua performance compassata, che invece ricorda Servillo ne Il divo, è da oscar, a mio modo di vedere.

La sosta ci fa perdere mezzora: Jamie mi ha mostrato ancora una volta quanto il tempo sia relativo. L’ennesima lezione di cui far tesoro.

LA FORTEZZA

Il Vista Desert Horse sembra un fortino, carico com’è di legno possente e di presunti bastioni difensivi. Lo cingiamo volentieri d’assedio. Il gestore ha un viso da pazzo, alla Malcolm McDowell, ma sembra simpatico. Ci indica un bungalow, dove ci andiamo a rimettere in sesto. I bambini vanno di fretta, e anche noi. Gim e Iri vogliono farsi un tuffo in piscina, mentre io e Franci vogliamo goderci il pomeriggio bevendoci qualcosa di fresco.

L’acqua è gelida, ma i ragazzi se ne fregano, e si tuffano in sequenza. Entrano ed escono rapidamente, non sono abituati a quelle temperature. Noi ci piazziamo in un angolo in cui sole e ombra si alternano in scena senza bisticciare. Si sta bene, sono felice che la mia famiglia si possa rilassare, ancora una volta. Queste mie concessioni per due giorni consecutivi andrebbero messe agli atti! Leggo qualche appunto di viaggio, segno alcune note sulle guide e sulla cartina stradale. Passa un po’ di tempo, e Franci e i ragazzi si ritirano per stendersi un attimo e rimettersi in sesto.

LA MORBIDEZZA

Io mi concedo un altro cocktail, una specie di mojito, e provo la lieve ebrezza del viaggiatore alticcio all’estero. Sono distante da ogni preoccupazione, il clima è godibile, la dimora con i miei affetti è proprio davanti a me; con la macchina oggi ho chiuso, nessuno mi conosce qui in Messico, ci sono tutti gli ingredienti per starmene tranquillo a fare le mie cose con discreta flemma. Poi su questa bella torta farcita arriva la ciliegina: un gruppetto di artisti locali si posiziona a pochi passi da me, e inizia a produrre il solito incanto sonoro, che infonde al quadro ulteriore pace e rilassatezza. Le loro voci, calde e suadenti, conducono lontano, a un livello successivo e più intenso del viaggio. Il tramonto si avvicina e decido di alzarmi. Mi siedo sulle scalette a godermi le effusioni dei due bei cani che vivono lì, e poi raggiungo i miei, fotografando i tanti angoli interessanti della casamatta, che cambiano forma e colore in base alle diverse inclinazioni dei raggi solari.

Ci rinfreschiamo e andiamo a cena verso le 18e45. Il sole scappa lasciando dietro di sè scie dalle tinte sublimi.

Il ristorante è proprio sopra al bar. Il personale è come sempre attento e disponibile, soprattutto nei confronti dei piccoli. Annaffiamo con del buon rosso il nostro pasto, che, come spesso accadrà, è composto da soup of the day (suona meglio di zuppa del giorno) e un po’ di carne. Ce la ridiamo, sia tra noi che con le gentilissime ragazze che si occupano di noi, con cui poi tentiamo di farci una foto.

MALCOLM & FRIENDS

Dopo aver assaggiato l’Essenza della Namibia, Francesca, che si era un attimo allontanata, mi chiama, dicendo di raggiungerla di sotto. Malcolm McDowell (si vedeva che era simpatico) ci ha invitati ad assaggiare la carne che sta cuocendo a fuoco lento assieme a due suoi cari amici, una coppia sudafricana che passa a trovarlo ogni anno.

E’ fantastico poter stabilire una connessione intorno a un braciere con persone di cui non sai nulla ma che emanano un calore umano incontestabile. E’ una connessione immediata, spontanea, favorita di certo dal vino ma anche dalla nostra naturale predisposizione a condividere. Viaggiare non avrebbe senso se non potessimo vivere momenti simili, sarebbe un atto fine a se stesso. Fra l’altro ci offrono un vino eccezionale proveniente dalla regione sudafricana di Stellenbosch, una zona non troppo distante da Cape Town, che io e Franci visitammo anni addietro, proprio per degustare i prodotti locali.

SHARING

Parliamo di viaggi, dei figli, di ciò che cerchiamo di trasmettere loro mostrandogli quanto il mondo sia vario e diversificato, parliamo della fatica che comporta impostare viaggi in questa maniera, che impone la rinuncia a certe comodità ma include poi nel pacchetto la scoperta del volto più autentico delle terre e della gente che incontri lungo il cammino. I nostri amici hanno figli già grandi, ma ci raccontano che anch’essi hanno girato il mondo insieme a loro, e che sono ricordi indelebili ed esperienze uniche da rievocare e condividere, anche perché poi i figli a un certo punto ti mollano e si rifiutano di seguirti. Condividiamo anche il concetto che il viaggio sia il più grande investimento possibile, il regalo più prezioso da fare, quello che offre più crescita e felicità, perché su di esso costruisci ricordi e memoria che contribuiranno alla costruzione di una persona infinitamente più di qualsiasi bene materiale. Viaggiare ci insegna a capire chi siamo, fissa ogni volta nuovi paletti, aggiorna le nostre possibilità e i nostri limiti, induce alla condivisione continua di storie, informazioni, curiosità.

La curiosità è alla base della cultura di ciascuno di noi, senza curiosità non saremmo nulla, non faremmo nulla, se non percorrere lo stesso stradello per una vita intera. E quanto mi piace l’espressione “to share”. Sta bene su tutto, è adattabile a tantissime azioni della vita, muta e caratterizza la filosofia di vita di una persona, l’approccio che l’individuo ha nei confronti di quanto la vita gli propina. Leggo e ascolto informazioni di chi sa condividere, e poi viaggio e condivido lungo la via, per poi tornare e condividere ciò che il viaggio ha rappresentato per me, nella speranza che qualcuno ne resti incuriosito, e ammaliato, e non possa resistere, e decida quindi di partire a sua volta, con quello stesso spirito e lo stesso desiderio di scoprire. Questo è il giro circolare che compie una storia, è cultura in formazione. Nel momento in cui le mie parole inducono anche una sola persona a partire, o a pensare di farlo, il mio scopo è raggiunto. Non si racconta per raccontare, ma per dare un senso ulteriore e una continuità alle esperienze vissute, e alle ricchezze nascoste che si portano dietro.

DON’T WORRY

Ci abbracciamo, ci facciamo qualche foto, ringraziamo di cuore queste persone così gentili che hanno scelto noi per condividere un tempo di grande valore, ci congediamo e in pochi passi siamo a casa. Quando viaggio con la mia famiglia al completo, casa è ovunque siamo noi quattro. Tiriamo le tende sulla giornata sorprendente appena trascorsa.

Faccio un pochino fatica a dormire, avverto più di un brivido per il giorno che verrà, che impone un percorso piuttosto complesso. Dovremo attraversare una terra desolata e selvaggia, su un altopiano a cavallo fra i monti Tiras e il deserto del Namib, che mi preoccupa, perché ho letto su diversi diari di viaggio che quella strada comporta delle insidie. Poi ripenso ai nostri nuovi amici, che poco prima mi hanno rasserenato in proposito: “Don’t worry, it’s a great choice and a wonderful road, you will never forget!”. Mi fido di loro, e so che sarà così. Posso lasciarmi andare alla notte di Aus.

NAMIBIA Family Adventure – Day 2

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Kalahari Day

NOTTE INTERCONTINENTALE

La notte in aereo si conferma piuttosto tormentata. Il freddo glaciale e la scarsa possibilità di muovermi diventano presto un problema. Spazio ce ne sarebbe anche, ma il mio e quello di Franci risultano limitati dalla priorità di far riposare i bambini in vista del primo giorno in Namibia, in cui dovranno essere freschi e riposati, onde evitare crisi di sorta. In effetti il primo giorno in terra straniera per il viaggiatore rappresenta sempre un test importante. Ci si deve ambientare in una nuova terra, si deve prendere confidenza con strade e macchina nuove nel modo più rapido e funzionale possibile. I bambini in questa fase devono essere a posto. Avremo modo poi di torturarli a dovere. Magari persino prima del previsto.

L’APPRENDISTA ESPLORATORE

Ulteriori elementi di insonnia aerea mi vengono forniti da un tedesco alto due metri, con un viso grande e squadrato e uno sguardo indagatorio: indossa pesanti scarpe da trekking, dei pantaloni cachi da esploratore e una maglia rosa, come parecchi ragazzi a bordo; è probabilmente a capo di una comitiva, o forse di una setta, e per gran parte del viaggio se ne starà in piedi davanti a me, rivolto verso i ragazzi che siedono alle mie spalle, perlustrando con gli occhi tutta la superficie disponibile, così da poter dissipare i sospetti di cui la sua natura si nutre. La sua posa è curiosa, dato che è costretto a inclinare leggermente il capo per posizionarsi in uno spigolo incastonato fra il bagno e le cappelliere. Non apre mai bocca, non cambia espressione, scruta il perimetro in modo rigoroso e persistente alla ricerca di chissà che cosa, ma a lungo andare s’intravede un che di stolido e inanimato nella sua espressività, tanto da farmi pensare che sia un ripetente trentennale alla disperata ricerca di quel diploma da esploratore che gli sfugge sul campo da una vita. Forse stavolta ce la farà.

HOSEA KUTAKO

Verso le 7 del mattino del 21 giugno atterriamo all’aeroporto Hosea Kutako di Windhoek, che è poco più di una pista in mezzo al deserto. Scesi dall’aereo, il percorso per entrare nel minuto aeroporto ci viene indicato da una decina di operatori dislocati fra l’aereo e l’ingresso. Questa segnaletica umana -non particolarmente sorridente peraltro- sostituisce i bus di collegamento aeroportuale, le insegne luminose, e i percorsi obbligati cui siamo abituati. Nel frattempo un gruppetto di circa 30 uomini vestiti in tuta da lavoro blu e gilet giallo catarifrangente corre accanto a noi intonando un motivetto in stile Full metal Jacket. Credo faccia più o meno così: “Crepi Ho Chi Minh, Viva il corpo dei Marines!!” Che sia un’esercitazione? Troppo causale per avvenire in concomitanza dall’unico atterraggio previsto per qualche ora. Più probabile che i ragazzi si dirigano in modo folkloristico a ritirare i bagagli dei passeggeri. Ma questo lo capirò soltanto poi, quando mi renderò conto di quanto sia scarso il traffico aereo da queste parti.

IL BIGLIETTO D’ORO WONKA

Non appena entrati, ci accolgono il suono delle percussioni e il canto e le grida di un gruppo di donne del luogo. Poi la musica prende forma e si mostra nel trambusto danzante e nel colore fucsia dello sparuto drappello che intrattiene i nuovi arrivati in Namibia. Effettuiamo i controlli piuttosto rapidamente, e anche qui ci chiedono il famigerato certificato di nascita, che però non è in lingua inglese. Indichiamo loro i nomi nostri e dei nostri figli sul magico lasciapassare, un pezzo di carta che per noi vale quanto un biglietto d’oro Wonka. Passiamo oltre e i bagagli stivati tornano rapidamente nella nostra disponibilità. Un altro vantaggio del dover liberare le viscere di un solo aeroplano alla volta.

KEEP CALM

Cerchiamo poi il banco dell’Avis, la compagnia di noleggio scelta in base al solito e unico criterio, il rapporto qualità/prezzo. Il ragazzo con cui effettuiamo le pratiche di ritiro è gentile e sorridente, e non esercita il consueto pressing per rifilarci un upgrade non appena gli spiego che siamo già assicurati oltre misura. Andiamo fuori, dove ci mostrano la macchina, una splendente Toyota Fortuner bianca.

Prima di andare, ci chiedono 15 minuti per mostrarci delle slide in ufficio: ci spiegano che l’85% delle strade è dissestato, che gli incidenti (anche mortali) sono enne volte più frequenti che in Europa, che le strade sono classificate da A a D a seconda dello stato in cui versano, che le probabilità di bucare qui sono tra le più alte al mondo, che non avremo mai rete né possibilità di comunicare se non abbiamo un satellitare (e non abbiamo un satellitare), che ci sono 5 strade dannatamente insidiose (a una rapida occhiata, dovremo farne necessariamente 3, ma me lo tengo per me), che dobbiamo andare piano (ma non troppo), che dovrò fare molta attenzione ai tir che arrivano sparati da dietro.

Insomma ci forniscono solo belle notizie e ci tranquillizzano prima di salire a bordo del nostro nuovo mezzo.

La Fortuner è molto più grande del mezzo con cui mi muovo di norma nella dorata campagna marchigiana. Prendo un attimo mano con la guida a destra (è la mia terza volta), e nell’arco di due rotatorie il rodaggio è completo. Oggi dobbiamo precorrere una strada molto buona, una B, per circa 3 ore e 30. Ho studiato un percorso facile per ammortizzare le fatiche del viaggio. Andremo verso ovest fino a Windhoek, dove potremmo fare un giro a piedi, e poi proseguiremo verso sud, fino a una fattoria nel deserto del Kalahari, dove ho riservato un breve tour esplorativo sulle dune.

LA SVOLTA

Questo approccio soft alla Namibia, studiato per evitare traumi il primo giorno, subisce una battuta d’arresto imprevista dopo pochi km. Premetto che utilizziamo Google map con le mappe off line, scaricate giorni prima sul mio smartphone. In questa declinazione, la app funziona bene comunque, ma è prudente evitare deviazioni consistenti. Ebbene, Francesca nota che il navigatore ci suggerisce un percorso alternativo: si tratta di svoltare prima di Windhoek, per la C23, con un risparmio netto di oltre un’ora sul tempo di percorrenza previsto. Non sono d’accordo, e lo ribadisco con forza due volte, per i motivi già espressi. Ma Franci si impunta, non vuole sentire ragioni, siamo stanchi e un’ora in meno di strada è un vantaggio da sfruttare. Così, quando arriviamo alla svolta e vediamo che la strada è asfaltata, cedo ma con preoccupazione, perché una C può essere insidiosa al battesimo. La strada procede regolare per circa 45 minuti, finchè non deviamo brevemente su una strada di terra per fare rifornimento d’acqua.

Riprendiamo la via principale e d’un tratto la strada diventa di rocciosa. Dapprima è una roccia abbastanza levigata e piatta, poi frastagliata da solchi orizzontali via via più profondi; infine la strada si trasforma in un dilaniante percorso a ostacoli per evitare buche e massi d’ogni tipo. A quel punto il navigatore impazzisce, e di colpo il tempo di percorrenza aumenta fin quasi a raddoppiare. Mi fermo accanto all’unica jeep che incrociamo per km e un uomo mi spiega che ho imboccato una parallela della strada principale (ma questo lo sapevo già), una via più immersa nel Kalahari, che la strada è tutta così, e che ormai è troppo tardi per tornare indietro: devo proseguire il mio calvario fino a destinazione.

FAR WEST

Ora, cari lettori, capirete bene che uno che si è fatto un volo transcontinentale dormendo poco e male, con le magagne patite in aeroporto a Bologna, la scarsa lucidità e gli oltre 30 gradi su una pista dissestata, al volante di un mezzo nuovo con guida a destra e le corsie che in quella strada sono solo un’idea, possa scoppiare improvvisamente come una bomba a orologeria. Ed è proprio ciò che capita, perché sono nervoso e provato e guidare senza preavviso su quella superficie immersa nel nulla mi crea ansia e difficoltà. E continuo a ripetere che l’avevo detto e che non bisogna mai andarsele a cercare.

E così per un’ora scatta una specie di Far west in macchina, un tutti contro tutti che non vede né vincitori né vinti, nè caduti o feriti sul campo di battaglia, finchè finalmente la strada diventa più dolce grazie a uno strato leggero di sabbia e alle buche in graduale diminuzione. Franci continua a scusarsi e a ripetere che ha rovinato la vacanza (non ci riprenderemo più! Il viaggio è rovinato!!), io sono stanchissimo, vedo doppio e non parlo più, i bambini sono frastornati, ma poi superiamo la soglia del dramma quando capiamo che il navigatore si è stabilizzato, e che la nostra fattoria non è più lontana. Il panorama ci regala scorci più colorati e scoscesi, i nodi si allentano per poi sciogliersi definitivamente in prossimità della meta.

IL RANCH

Arriviamo quando sono le 15e30, con un paio d’ore di ritardo, e in un istante tutto è calma e quiete, come al termine di una poderosa tormenta. Ci rassereniamo, facciamo pace (facciamo sempre pace), solleviamo una sbarra ed entriamo nella Janssen Kalahari Guest Farm come fosse il nostro ranch, nel modo che mi è spesso capitato di sognare a bordo di un libro che mi ha spinto a veleggiare al confine fra Montana e Wyoming, o più verosimilmente -in tal caso- fra Arizona e New Mexico. Come ogni struttura che ci ospiterà in terra selvaggia, anche questa è pressochè invisibile ad occhio nudo, tanto è immersa nel paesaggio. La intuiamo gradualmente, fra piccole dune e scalcagnate insegne di legno. Scesi dall’auto possiamo avvertire il silenzio, profondo come il deserto che digrada all’orizzonte. Qui il tempo sembra rallentare improvvisamente, o cambiare direzione e girarti intorno, una sensazione frequente in queste lande desolate. Qui il rapporto fra spazio e tempo è in certo senso tangibile.

IL DELIQUIO

Una solare namibiana ci accoglie alla reception, ci indica il lodge, ci rifornisce di acqua e birra. Sistemiamo le nostre cose, ci rinfreschiamo, e io affondo nelle cavità più profonde dell’incoscienza, fino a perdermi in un sonno che è morte pro tempore, in un modo e in un mondo che mi rammenta la scena in cui uno dei protagonisti di Trainspotting viene inghiottito nel pavimento dopo un brutto viaggio. Il risveglio è altrettanto cinematografico: mezz’ora dopo, ma sembrano due giorni, uno dei miei mi scuote e mi dice: dobbiamo andare! E io mi vedo come Jim a LA nel film di Stone, quando Ray o chi per lui lo scuote dal sonno dicendogli: Jim, così perderai l’aereo! Non c’è nessun aereo, ma una jeep che alle 17 ci condurrà nel Kalahari.

SUL PICK UP

Saliamo sul cassone di uno dei due pick up insieme a una coppia svizzera con cui avremo modo di condividere il nulla assoluto. La luce è calda e avvolgente, e il colore della sabbia attraversa tutte le tonalità del giallo, dell’arancio e del rosso, adeguandosi mutevolmente all’inclinazione dei raggi solari e ai nostri gusti calcistici.

Mister Janssen guida uno dei pick up, noi siamo sull’altro in coda. Facciamo un po’ di strada immersi in un vento piacevole e rigenerante, e di tanto in tanto ci fermiamo all’ombra di un albero per ascoltare i racconti del padrone di casa sulle origini della fattoria, sugli allevamenti e sulle coltivazioni possibili grazie a una fonte sotterranea di acqua dolce che rappresenta la fortuna degli Janssen, una delle tante famiglie tedesche che vive in Namibia da generazioni, in certi casi dagli inizi del 900.

Avvistiamo gazzelle, zebre e una giraffa, e poi ci fermiamo sotto un nido di uccelli enorme, abbarbicato come altri a un grosso ramo. Questi nidi contengono uccelli a centinaia, e i piccoli passaggi posizionati nella parte sottostante somigliano al ventre gravido di una specie aliena. I volatili producono un concerto celestiale, composto di suoni e motivetti che inducono all’allegria e alla spensieratezza. Ce li godiamo per qualche istante, prima che il motore venga riavviato. Ci hanno raccontato che questi nidi durano finchè il ramo non cede sotto il peso eccessivo. Capiterà poi di vederne tanti accasciati qua e là nei giorni a venire.

IL TRAMONTO DELLA SCIALBA RAGIONE

La gita è rilassante, per una volta è stupendo lasciar guidare altri e andare a passo d’uomo senza pensieri. Quando il tramonto si avvicina ci fermiamo sul crinale di alcune dune dorate, da cui la vista del deserto sconfina oltre l’impercettibile. Mentre Mr Janssen e il suo collaboratore allestiscono un piccolo banchetto, noi contempliamo e perlustriamo a piedi quel luogo magico. I bambini corrono su e giù nella sabbia soffice: è bello vederli sorridenti e leggeri dopo una giornata complessa. Ma ormai lo sappiamo, il viaggiatore è incline alle turbolenze, alle frequenti oscillazioni che rendono il cammino imprevedibile. Senza quella imprevedibilità saremmo semplici turisti, indaffarati soltanto a riempire uno spazio recintato da altri.

Il viaggiatore ha giornate buone e altre meno, ma quando sbuca dall’ennesimo banco di nebbia, la sensazione di libertà è impagabile: poter sbagliare è un privilegio enorme, soprattutto in terra straniera, a maggior ragione quando i punti di riferimento si diradano, quando le certezze sono poche. A quel punto, rientrare la sera in una zona di comfort assume i contorni di una conquista, di qualcosa che si è guadagnato sul campo, a furia di scelte indipendenti e improvvisate. Penso quindi, mentre brindiamo con un vino un po’ dolciastro per i nostri palati avvezzi al Verdicchio dei Castelli di Jesi, che la scelta forse poco lucida di Franci alla fine abbia avuto senso, regalandoci l’ennesimo brivido. Ci confermiamo viaggiatori poco convenzionali, che privilegiano (quasi sempre) l’istinto al calcolo. La scialba ragione separa l’infinito da noi.

OMBRE DEL PASSATO

Torniamo nella notte e i fari delle jeep disegnano figure allungate e spaventose sulle dune circostanti, utili ad alimentare i misteri ancestrali della terra che ha dato i natali alla specie umana. L’Africa sembra nascondere qualcosa, come se tante delle risposte che cerchiamo siano scritte qui, da qualche parte, fra gli elementi. L’aria adesso è fresca, il cielo terso. Arriviamo direttamente per cena.

Osserviamo la famiglia Janssen al completo, con figli e nipoti giunti dai 4 angoli nella Namibia per le ferie estive. Sembrano persone semplici e ben amalgamate a questa terra. Il personale namibiano si occupa di noi con rara gentilezza, forse perché anche qui i nostri sono gli unici bambini, come spesso capita. Ma chissà cosa nasconde la storia, chissà cosa c’è alle origini di questo coacervo di culture ed etnie?

Ci penso mentre osservo un cielo stellato che illumina a giorno le mie elaborazioni. Penso al tempo, a come si costruiscano e si sviluppino le storie e le vicende fra le sue maglie, a come il presente sembri spazzare via tutto, a come invece tutto in realtà sia ben visibile nei segni della terra e nei comportamenti e negli usi delle persone e dei popoli che la abitano. Arrivo in camera senza accorgermene. Cediamo al sonno immediatamente, con l’Africa a dilagare tutto intorno e dentro ognuno di noi. Siamo ansiosi e fiduciosi per domani. Chissà come sarà.

Non lasciarmi – Never let me go

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“Sono passate due settimane da quando l’ho perduto…vengo quì e immagino il luogo dove sia raccolto tutto ciò che ho perso fin dagli anni dell’infanzia. Se fosse così, non faccio altro che ripeterlo, forse, in fondo al campo,all’orizzonte, apparirebbe una figura…dapprima minuscola e poi sempre più grande…fino a che non riconoscerei Tommy…Tommy che mi saluta, che mi chiama…ma non voglio che la fantasia prenda il sopravvento, non posso permetterlo Continuo a ripetermi che comunque sono stata fortunata a passare del tempo con lui, quello di cui non sono sicura che le nostre vite siano tanto diverse da quelle delle persone che salviamo…tutti completiamo un ciclo… forse nessuno ha compreso veramente la propria vita, nè sente di aver vissuto abbastanza”

6 DAY IN NEW YORK Mezzogno di finestate a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria

DAY 5

Martedì 5 settembre. Stamattina partiamo a rilento, come due diesel affidabili ma provati. La giornata è ancora da costruire, almeno in parte, ma lo è quasi sempre in realtà, perché in questa città i punti di riferimento sono mutevoli, e una meta può restare tale o tramutarsi in miraggio a lungo termine, perché non sai mai cosa ti riserverà la strada. Facciamo colazione con una certa flemma, e butto un occhio sulle crociere serali. Ne trovo una interessante su “Get your guide”, e la prenoto al volo. La partenza è fissata per le 18e30 al pier 36, nei pressi del ponte di Manhattan. Ci sembra un buon compromesso per fare un giro nella baia e ammirare la statua della libertà da vicino e NY dall’acqua. Ci spiace non poter visitare Ellis Island e il suo museo, ma le escursioni turistiche che conducono là sono delle vere trappole per topi, e non abbiamo alcuna intenzione di perdere ore in fila. Abbiamo tutta la mattina per fare un salto alla Public Library e poi dedicarci con cura al MOMA, il museo che ci attira di più insieme al Guggenheim. Quest’ultimo mi interessa soprattutto perché anni fa ci espose mio zio Gino Sampaolesi, artista straordinario e mio eterno mentore, scomparso nel 2018. Oggi avremo persino tempo di riposarci un attimo in hotel e di ripartire con calma. Un vero lusso per noi scalmanati globetrotter.

New York di mattina è una meraviglia che non mi stanco di ammirare. Mentre scrivo penso che mi manca perdermi nelle prime ore di NY, perché questa città totalmente fuori norma trasmette la sensazione che tutto sia possibile, che possa avvenire qualsiasi cosa, che in qualche modo ti sorprenderà. Mentre cerchiamo piccoli souvenir da regalare ai bimbi, facciamo una deviazione verso il Madison Square Park, l’ennesima imprevista parentesi verde immersa nella giungla antropica. Dirimpetto c’è il Flatiron, un palazzone strettissimo dal disegno molto particolare, simile a un ferro da stiro, che purtroppo in questo periodo è cinto da un cantiere che ne soffoca il respiro. Sembra una mummia che attende di essere liberata e tornare a giganteggiare in libertà. Al suo cospetto la Quinta e la Broadway si biforcano. Prima di andarmene cerco di capire su quale piano risieda il quartier generale del Daily Bugle, il giornale in cui Peter Parker lavora come fotografo freelance. Ma non è mai semplice rintracciare Spider Man.

Risaliamo la quinta e l’Empire si mostra in tutto il suo splendore: è la stella polare di NY, e la sua sommità stamani rifulge come un faro abbagliante. Lo capisci subito che è lo strumento di orientamento perfetto, una bussola da consultare ogni volta che si teme di essersi persi. Nessun altro edificio possiede un simile magnetismo, e in questi giorni lo abbiamo ammirato ad ogni ora, da tutte le prospettive possibili. L’Empire caratterizza NY, ma abbiamo deciso che non serve entrarci dentro o imbragarci per risalirne la vetta. Ci conforta che sia sempre lì, ovunque posiamo lo sguardo. La nostra nave è tornata in porto ogni sera, anche grazie a lui.

Oggi avvistiamo con frequenza le caratteristiche cisterne sui tetti, gli antichi serbatoi che servono a dotare anche i piani più alti degli edifici più datati di acqua corrente alla pressione corretta, grazie alla ingegnosa collaborazione della forza di gravità. E’ questo un altro elemento tipico di NY, grazie alle sue forme e al legno non trattato, che dona loro un aspetto vetusto e un po’ datato. E così anche la cisterna diviene elemento decorativo e pittorico, nonché naturalmente cinematografico, in un luogo in cui ogni cosa assume una valenza ulteriore.

Risaliamo la corrente fino alla Public Library, dove entriamo per un giro veloce. L’ingresso è gratuito. Per prima cosa facciamo una telefonata dal sottoscala sommerso in cui Sam Hall (Jack Gyllenhaal) chiamò il padre Jack (Dennis Quaid) per chiedergli un consiglio su come salvarsi la pelle. Noi chiamiamo una fonte che non riveleremo per chiedere come difenderci dal caldo abnorme che imperversa a NY. In un certo senso anche noi siamo sommersi, dato che non riesco ad essere completamente asciutto da un paio di giorni. Ci muoviamo senza orientarci dentro la Public Library, che è una sorta di labirinto in cui le indicazioni risultano approssimative.

Il cuore dell’edificio è la biblioteca pubblica, in cui tanti studenti e lettori entrano con ordine, rispettando il silenzio che il luogo merita. Osservo con particolare curiosità il chiosco centrale, quello in cui l’addetto di norma orienta il lettore nei giusti compartimenti, o in cui si prende e si restituisce un libro. In quanti film le indicazioni di un bibliotecario sono state utili a risolvere un mistero o a scoprire un indizio rivelatore? Senza quei chioschi certi film non sarebbero mai finiti. E’ sempre un piacere visitare simili templi analogici, carichi di storia fissata su carta. Proseguiamo e ci ritroviamo sopra le scale del grande ingresso, e davanti ai vetri infranti dalle masse d’acqua oceaniche di “The day after tomorrow”. Una sorta di assalto del mondo digitale a quello analogico, in estrema sintesi.

Usciti, ci facciamo una foto fra i possenti leoni che custodiscono il sapere di NY e saliamo a fare l’ennesimo giro sulla giostra di Times Square, che è un luogo etereo in un certo senso, che non appartiene alla luce o alle tenebre ma a entrambe insieme, quasi fosse una dimensione transitoria e di congiunzione fra realtà contrapposte. Qui giorno e notte sembrano convergere.

Il colore del cielo in particolare è indefinibile, forse perché le luci dei cartelloni pubblicitari confondono i nervi ottici di noi lillipuziani a spasso, forse perché è un arguto gioco di prestigio che lascia soltanto intuire l’inganno. Se guardo lassù in cima vedo quel cielo fra la notte e l’alba che caratterizza il finale di “Blade runner”, ma non saprei definirne la tinta, dato che tutto si muove impercettibilmente fra la luminosità accennata dell’alba in embrione e le sfumature plumbee dell’oscurità morente ma ancora aggrappata alla vita. Un Nexus 6 di ultima generazione si sta spegnendo, lassù da qualche parte.

Ma eccoci alla tappa principale di questa mattinata. Non potevamo commettere l’abominio di non visitare almeno uno dei luoghi d’arte della città, e abbiamo scelto il MOMA, il museo d’arte moderna, che è probabilmente il più simbolico e rappresentativo fra i tanti. O almeno così abbiamo concluso noi due ragazzi di campagna. Dedichiamo più di 4 ore ai quattro piani espositivi, ma in certi frangenti ci rendiamo conto di riservare troppo poco tempo ad opere d’arte significative. Cerchiamo di gustarcelo, ma a volte facciamo bocconi troppo grossi, senza però ingozzarci mai. Non abbiamo l’occhio o la conoscenza dei critici, e quindi ci affidiamo all’istinto e alle emozioni, che ci trasportano con leggerezza fra dipinti, fotografie e sculture di ogni tipo. Non so o mi rifiuto di saper leggere le cartine o le mappe, ma grazie a Franci non perdiamo nulla, nemmeno un padiglione di questa bizzarra creatura polimorfica. Forse noi europei siamo abituati all’arte, e ci stupiamo relativamente sul momento. Mi rendo conto soltanto ex post, osservando con cura le foto che ho scattato, della bellezza che è scorsa sotto i nostri occhi senza che ne cogliessimo a pieno l’essenza. Il tempo ha fatto la differenza, e forse avremmo dovuto scegliere alcune portate invece di assaggiare tutto il menu. Non importa, mi stupisco adesso, allestendo la mia selezione delle opere esposte al MOMA negli angusti spazi d’Osteria.

Usciamo dal Moma affaticati, gambe e schiena sono a pezzi. Sono le 15e30 ormai e facciamo due passi. Abbiamo tempo prima della crociera serale, e ci sediamo un attimo. Ragioniamo sul da farsi. Frattanto, do un’occhiata alla mail della prenotazione per salvare il punto di ritrovo sulla mappa. Non ci faccio caso immediatamente, ma dopo aver messo a fuoco leggo con un misto di terrore e incredulità che il ritrovo è fissato per le 16 e la partenza per le 16e30. Hanno anticipato l’orario di due ore! O forse qualcosa in fase di prenotazione è andato storto. Poco importa, abbiamo mezzora per prendere la metro e imbarcarci. Mentre camminiamo in cerca dell’ingresso più vicino, studio il tragitto. Dobbiamo prendere la linea arancione verso Chinatown e sperare che la metro passi subito. Tento persino di inviare una mail alla società per chiedere di partire più tardi, ma nessuno risponde. Il numero di riferimento non funziona. Arriviamo ai cancelli e la metro card è esaurita. E’ la fine, o quasi. Non saliremo mai su quella barca. Tuttavia proviamo, ricarichiamo la metro card e per la prima volta non va, non si ricarica! Perdiamo le staffe, e poi pensiamo che sia destino, che non c’è niente da fare. Il vento soffia in senso inverso oggi. Poi -d’un tratto- un signore ci chiama. Apre dall’interno il cancello laterale agli ingressi e ci dice: come on! Lo ringraziamo, ha intuito la nostra disperazione, e ci ha concesso un gesto di generosità. Scendiamo le scale due a due. Pochi istanti e arriva il nostro treno. Lo prendiamo e scendiamo a East Broadway alle 16. Ci fiondiamo fuori e camminiamo svelti verso il pier indicato. Ne abbiamo ancora per 15 minuti. Il caldo è devastante. L’umidità è al 200%. Grondo rabbia e sudore. Arriviamo alle 16e15, l’imbarcazione è ancora lì. Chiedo spiegazioni. Il tizio mi dice che la crociera delle 19 è stata annullata, che devo salire a bordo. Nemmeno mi controlla il pass, cosa che quasi mi offende ulteriormente. A bordo è una sauna finlandese, non trovo loco, ogni superficie disponibile è appiccicosa. Ce l’abbiamo fatta ma mi girano lo stesso perché avevo prenotato una crociera al tramonto. Il nostro ultimo tramonto a New York. E non ho alternative. Devo mandare giù il boccone amaro e guardare avanti.

Partiamo verso le 16e45, probabilmente per attendere altri disperati come noi. Ritrovo il respiro quando il personale di bordo apre un accesso a prua, dove io e Franci ci sistemiamo. L’aria della baia è fresca. Il vento mi asciuga e ci rilassa. L’escursione è gradevole. Oltrepassiamo il ponte di Manhattan e quello di Brooklyn. Superiamo l’East River ed entriamo nella baia. Downtown è bellissima vista da qui, ronziamo intorno alla Statua della libertà mentre incrociamo da vicino i traghetti arancioni che fanno la spola con Staten Island. Intravediamo Ellis Island. Il numero degli elicotteri turistici che partono da Manhattan è impressionante. Sembrano sfiorarsi e sfiorare i palazzi fra cui si sollevano con eleganza.

Ci scambiamo foto e impressioni con una giovane coppia di Bangkok. Me ne accorgo solo una volta tornato: i due simpatici thailandesi ci hanno fotografato fuori posa, mentre aspettavamo che passasse un traghetto dietro di noi. E ci hanno fatto le foto più belle che potessero fare. E’ un regalo inatteso, che abbiamo scartato poi, e che sembra contenere la storia di due che si conoscono nella baia di NY, su un battello sudaticcio. Lei ha un cappellino rosso della Emirates, lui una vistosa t-shirt islandese. Sembrano divertirsi, forse si piacciono. Magari si innamoreranno. Chissà. Dalle foto la storia sembra andare discretamente, ma non abbiamo idea di come prosegua, per fortuna.

Torniamo da questa parte dello schermo. L’incidente di percorso di poche ore fa è dimenticato, si è perso nell’oceano degli avvenimenti e dei colpi di scena. New York guarisce in fretta le piccole ferite del viaggiatore sprovveduto.

Sono quasi le 18 quando scendiamo dal traghetto. La temperatura si fa di nuovo rovente. Facciamo un po’ di strada lungofiume. E’ stupendo ammirare Brooklyn e i ponti da lì. Tagliamo verso Chinatown, con il ponte di Manhattan alla nostra destra. Sul nostro percorso si susseguono impianti sportivi, il Murry Bergtraum, in cui oggi si allenano atleti professionisti di football, e il Coleman, dove tanti ragazzini giocano a baseball.

Chinatown oggi ci appare degradata. Mi viene da definirla lercia, non trovo termine migliore. Anche le persone che incrociamo sembrano relitti alla deriva. Un odore acre invade le strade, l’aria è carica di smog. Un cinese con indosso solo i pantaloni giace in terra in stato di morte apparente ma nessuno ci fa caso. Cerchiamo un appiglio e lo troviamo in un bar, dove ci concediamo un bicchiere di vino per riaverci dalle fatiche del giorno e per montare un filtro gradevole a quel tratto fatiscente di città.

Riprendiamo il cammino e percorriamo a piedi quasi un’ora di strada fra Chinatown e l’East Village. New York torna ad essere gradevole e pulita, ci sentiamo di nuovo a casa. Ma siamo in fase di decompressione. L’imprevisto di oggi ci ha costretto ad accelerare in piena fase di stanca, abbiamo accusato questo contropiede fulmineo e adesso iniziamo a pagare il conto. I muscoli non reagiscono più dopo 5 giorni di tour de force. Ci lasciamo accalappiare da una bella birreria. L’insegna è scura, la luce all’interno è rossastra ed estraniante. Entriamo nella Bronx Brewery e ci beviamo una pinta di ottima Ipa.

Chiacchieriamo un po’ e guardando la mappa mi accorgo che siamo a due passi dalla Risotteria Melotti, un ristorante italiano che propone risotti in tutte le salse. Tentiamo la sorte e andiamo lì. L’osteria è carina, e un tavolo minuscolo, l’unico libero, sembra attendere noi. Non vogliamo deluderlo. Ci accomodiamo. Il cameriere che si occupa di noi è gentilissimo, il che non guasta. Scegliamo i nostri piatti, lui ci propone un buon bianco, lo assecondiamo. Siamo in un dolce stato di resa e accettiamo tutto di buon grado. Mangiamo e beviamo bene, ridiamo ripensando alla convulsa giornata appena trascorsa. Siamo sull’orlo di una crisi di sonno ma questa è la nostra ultima notte a New York, e non vogliamo mollare.

La notte scende sulla città. Usciamo e le andiamo incontro. Le ultime energie disponibili mi concedono un’idea. Torniamo in hotel con la metro e andiamo a fare un salto nel roof sito proprio in cima al nostro albergo. Non siamo mai riusciti ad andarci e questo è il momento. Adesso o mai più. Ma prima dobbiamo risolvere l’ultimo rebus. Dobbiamo prendere la linea arancione e poi cambiare nella fatal Washington Square e prendere la blu verso uptown. Arriviamo a West Fourth Street. Siamo appannati dal vino, ovattati dal neon estraniante dei treni, e ci infiliamo in un lunghissimo corridoio sotterraneo, in cui un incantesimo ha posizionato soltanto uscite in direzione downtown. Non sembra possibile, un tizio ci sorride e ci dice di proseguire e noi andiamo ma pare di non arrivare mai. In fondo a questo percorso infernale arriviamo come fosse un miracolo allo scambio per Uptown. Saliamo sul treno ridendo a crepapelle del nostro stato confusionale. Incredibilmente a Penn Station azzecchiamo persino l’uscita per il nostro hotel. In effetti a NY le uscite dalla metro sono una lotteria se non si possiede buona memoria. E noi l’abbiamo azzeccata una volta sola, proprio quella notte.

Entriamo in hotel e saliamo direttamente al rooftop. Pensiamo immediatamente a quanto sia assurdo non esser mai saliti prima. Eppure di possibilità ne abbiamo avute, e bastava pigiare un tasto. Entriamo nell’ennesima dimensione onirica. Capisco dalla qualità delle foto che ho scattato che le mie condizioni non erano delle migliori. Prendo un margarita per me e un cocktail leggero per Francy, che resta sospesa fra la veglia e il sonno.

Penso sia tardissimo, penso a quanto abbiamo vissuto anche oggi. E’ un miracolo essere ancora in piedi a quest’ora. Dopo aver danzato in un cerchio di fuoco, ci siamo sbarazzati dell’ennesima sfida con una scrollata. Poi guardo l’ora, e mi accorgo con stupore che sono le 21e30. Eppure a me sembrano le 2 di notte di dopodomani, arranchiamo ma non cediamo per rendere onore alla meraviglia che ci circonda. E’ pur sempre una circostanza rara. Ci aggrappiamo coi denti a questa notte magnifica sui tetti di NY. Il nostro sguardo si perde al di là del vetro che ci separa dal vuoto.

I grattacieli si mescolano al riverbero degli arredamenti luminosi del roof creando l’illusione che Godzilla e i suoi fratelli si stiano avvicinando a passo felpato. Mezzosogno al cloro. Una pioggia purpurea scende sul viso di Francy, che è costellato dal riflesso delle luminescenti spire del rettile che si fa sempre più vicino e ormai incombe su di noi. Sulle sue scaglie scorre tutta la storia del mondo. Chiudiamo gli occhi per non vedere. E’ un sogno denso che vivo ancora adesso, ma sul momento ci sfugge via fra le mani e non riusciamo a trattenerlo, tanto è viscosa e malferma la nostra presa.

Per noi è l’ultima notte qui, è una notte senza pari, una di quelle che ci resteranno addosso come una seconda pelle. I mostri tentano di riportarci indietro, sono i mostri inviati dal domani, che è pur sempre un giorno da vivere. Siamo immagini sulle scaglie di serpenti alati, sembriamo proiettati da chissà dove sul tetto del Marriott. Siamo i nostri incorporei avatar, volatili e senza peso. Siamo guerrieri Na’vy in cerca di un’oasi, di una connessione con il pianeta che pare lontanissimo eppure è tutto intorno a noi. Ci nascondiamo all’ombra dei giganti, fra le foreste d’acciaio in cui ci riscoprimmo liberi e selvaggi, per non farci trovare.


“O fratelli e sorelle della pallida foresta.
O figli della Notte.
Chi di voi parteciperà alla caccia?
Arriva la notte con la sua legione porpora,
ritiratevi ora nelle tende e nei sogni.
Domani entriamo nella città della mia nascita. Voglio essere pronto”.

James Douglas Morrison

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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Cronache e Storie d'Osteria

DAY 4

Lunedì 4 settembre. Lo schema si è dimostrato vincente, e le dinamiche mattutine non cambiano. Mangiamo giusto un pochino meno del solito. Usciamo e tentiamo di nuovo la sorte con la metro. Sono preoccupato, considerata l’esperienza della sera prima, ma siamo diretti a Coney Island e non abbiamo scelta, perché per arrivare all’estremità sud di Brooklyn la strada è lunga. Stavolta fila tutto liscio, prendiamo la linea espressa per Coney Island e Brighton Beach e in circa tre quarti d’ora arriviamo a destinazione. La metro esce presto allo scoperto e possiamo goderci una nuova porzione di New York dal treno. La novità del giorno è un cielo carico di umidità che rende l’aria quasi irrespirabile fin dal mattino. Siamo presi in contropiede dal rapido e imprevisto mutamento meteorologico, con cui dovremo fare i conti per i prossimi due giorni.

Usciamo dalla stazione di Stillwell Avenue anticipando come di consueto il turismo di massa. Coney island in realtà è una penisola sita proprio davanti all’Oceano Atlantico, una striscia di terra con cinque km di spiaggia e una storia travagliata alle spalle, fatta di saliscendi simili a quelli che dominano il suo skyline. In effetti l’isola dei conigli è un enorme luna park, un parco giochi dall’aspetto retrò e un tantino decadente, dominata dalla Wonder wheel, una delle ruote panoramiche più famose al mondo. La popolazione che incrociamo sembra prevalentemente di origini ispaniche, dato che mi somiglia più del solito. Pare un’umanità un tantino trascurata, dall’aspetto consunto e dagli abiti trasandati. D’altronde questa è la gloriosa base dei Guerrieri della notte.

I palazzoni che si stagliano dietro il parco giochi sono fatiscenti e contribuiscono a un certo degrado estetico. La meccanica contorta delle attrazioni e alcune icone dal ghigno malefico aggiungono risvolti horror al contesto generale. Pennywise o il Joker potrebbero essere di casa da queste parti. Persino i bagnanti non sembrano al mare ma in una tendopoli improvvisata nel deserto. L’acqua dell’Atlantico però è fresca e tanto basta per allietare una giornata che si avvia a diventare rovente.

Certo, forse oggi abbiamo raggiunto la nostra prima tappa persino prima del previsto, perché la gente in giro è poca, la luce non è delle migliori, e i baracconi sono ancora chiusi o stanno muovendo pigramente i primi passi verso l’apertura. L’atmosfera è compassatissima, dominata da una malinconia che probabilmente si acuirà col finire della stagione estiva. Siamo in una località di mare, una delle preferite dai newyorkesi, ma dai movimenti dei gestori s’intuisce che siamo in fase di stanca, che sono le ultime aperture prima del letargo, e le persone sembrano trascinarsi più che camminare.

Percorriamo uno dei moli fino in fondo, c’è gente che pesca, e la dinamica -nella sua semplicità- mi ricorda il ponte di Galata a Istanbul, che però, al contrario di questo, era un totale e irrefrenabile bordello, un bazar a cielo aperto sospeso sul Corno d’oro. A dire il vero, questo parallelismo è una forzatura palese, ma non è malizioso. Nasce d’istinto, e credo meriti una chance. Qui regna il silenzio, le persone parlano poco e a voce bassa, forse per non spaventare i pesci. E’ anche uno dei tanti moli visti al cinema, uno di quelli che puoi collocare ovunque, anche fosse il molo sul Pacifico di “Un giorno di ordinaria follia”, che mi viene in mente senza forzare.

Desideravo vedere questo posto e saggiarne l’atmosfera, e avevo già capito in fase di pianificazione che sarebbe stato difficile collocarlo senza sacrificare altro. Ma non ho mai pensato di lasciarlo fuori dal nostro piano di viaggio. Non avevamo alcuna intenzione di adagiarci sulla ruota delle meraviglie di Allen o di rivoltarci le budella sulle montagne russe, ma è facile immaginare che questo luogo circense acquisti fascino quando è a pieno regime, e quindi di notte, quando le luci e i suoni del luna park la fanno da padroni. Ma Coney Island conserva indubbiamente fascino anche in questa modalità. Certo, sarebbe sufficiente una luce diversa per mostrarne lo shining, l’intrinseco scintillio che poi è dentro ogni cosa e dentro ogni luogo, ed emerge soltanto se irradiato in modo adeguato. Basti pensare all’arte in tal senso, e a quanto sia importante valorizzarla con la giusta illuminazione.

Mi guardo intorno e penso che il tono sbiadito e l’aria immobile e pesantissima di oggi non rendano giustizia alla costa sud di Brooklyn, che sembra soltanto una pallida idea di quel che potrebbe essere in circostanze diverse. Poi, non so come, mentre passeggio per questo lungomare un po’ desolato mi assale dal passato un ricordo imprevisto: ero piccolo e con la famiglia andammo dagli zii a Roma, forse per un matrimonio. Eravamo tanti per l’occasione, e non potevano ospitarci, non tutti per lo meno, e così alloggiammo in un albergo di Ostia Lido. Credo fosse inverno, quanto meno non era estate. La desolazione era un po’ quella di adesso, e c’era qualcosa nella fotografia di quel giorno a Ostia che mi riconduce al film che danno oggi, qui a Coney Island. Una sensazione strana, perché mi riporta a galla un ricordo nel suo complesso, come fosse la somma percettiva e incorniciata di tutti i sensi insieme, come se non fosse passato un giorno, come se fossi bambino adesso, o fossi stato adulto allora. Cercavo qualcosa del genere a Coney Island, ma non sapevo esattamente cosa. Questa terra di passaggio ha spalancato una porta mnemonica nella mia mente, e non mi è dispiaciuto affatto dare una sbirciatina oltre la soglia di una dimensione sì nostalgica e poetica.

Alcuni tizi, dall’aspetto truce e niente affatto atletico, giocano a fronton. Due coppie colpiscono la palla più forte che possono, chi a mani nude chi con la dote di un supporto, e la sparano sul muro di fronte, a una distanza breve e con uno spazio assai limitato. Devono essere lesti a prenderla senza scontrarsi, ma il gioco sembra piuttosto violento e doloroso. Una versione hard dello squash. Cerco fra i chioschi il mefistofelico mago Zoltar, quello che realizza anche i più strani desideri, ma temo di aver sbagliato luna park. E poi sono già grande, e non saprei cosa chiedere. Dietro l’angolo c’è Nathan’s, che dicono faccia gli hot dog più buoni di tutta NY, ma a quest’ora del mattino è impensabile mandarne giù uno. Ci riserviamo la possibilità di mangiarne uno nei chioschi mobili che si spostano dentro Manhattan, se avremo la fortuna di incontrarne uno.

Il sole adesso impazza, e il caldo è opprimente, ci sediamo sotto una pensilina che pare una fermata del bus. Una tizia che vende bibite abusivamente gioca a nascondino con la polizia utilizzando la colonna che sta alle mie spalle per nascondere il frigo portatile quando passa la pattuglia: se si fermano potrebbero anche concludere che sia mio, dato il mio aspetto vagamente centro-americano. Questo timore è probabilmente il retaggio di una vecchia esperienza. Anni fa io e Franci, sempre noi, ci trovammo nel cuore della notte di Yuma, nel profondo sud dell’Arizona, a poche miglia dal confine col Messico. Ci imbattemmo in un mega posto di blocco. Esercito schierato, controllo capillare dei documenti con pile sparate in faccia, cani a bordo, interrogatorio con il classico “Do you like America?” come ciliegina finale. Fu un’esperienza elettrizzante e formativa. Mi chiedo da allora se i militari pensino che qualcuno possa realmente rispondere “No, non mi piace l’America” in condizioni tanto stringenti.

Dopo aver bighellonato avanti e indietro lungomare, ci addentriamo a Little Odessa, una parte nota per ospitare una nutrita popolazione di origine russa. Qui la sopraelevata dei treni domina ogni cosa e crea un ambiente particolare, una sorta di sottomondo un po’ cupo e malandato, un luogo assai poco luminoso e ospitale, e niente affatto raccomandabile. E anche la gente sembra poco propensa alla solarità e alla leggerezza. Ma sono sensazioni estemporanee, che lasciano il tempo che trovano. E a Little Odessa di tempo ne dedichiamo davvero poco.

Risaliamo verso la sopraelevata dei treni e riprendiamo la metro fino al cuore di Brooklyn. Scendiamo a Prospect park. La prima cosa che ci colpisce uscendo è il numero ingente di agenti di polizia schierati in zona. Alcune strade sono chiuse, molte sono le deviazioni e altrettanti i percorsi obbligati, in cielo volano vari elicotteri, forse perché entriamo nelle zone di competenza di Henry, il più avido e debole fra i Bravi Ragazzi di Scorsese. Temiamo sia accaduto qualcosa di grave, ma a ben vedere i volti degli agenti del NYPD sembrano distesi, lo spiegamento di forze è notevole ma forse stanno allestendo il terreno per un evento di una certa portata. La seconda cosa che notiamo è che il Prospect è senz’altro un parco bello e molto frequentato dalla cittadinanza, ma non gode delle stesse cure di cui beneficia Central park, di cui sembra il fratello intrigante ma un po’ trascurato.

Scopriremo con un pelo di ritardo che oggi è il labour day, la festa dei lavoratori che negli Stati Uniti si tiene il primo lunedì di settembre. Una sorta di festa di fine estate, anche se la temperatura adesso è torrida e l’estate sembra in piena enfasi. Quest’anno alla festa è abbinato il Carnevale Caraibico di New York, ma noi intuiamo soltanto che sia in corso una parata, perché da lontano si sente un gran casino in giro per strada e ogni tanto sfrecciano auto a tutto gas con bandiere giamaicane e gente che a bordo festeggia con musica a palla. Sfioriamo soltanto la coloratissima festa dei popoli latini, che sfilano a suon di tamburi, fischietti e musica in Eastern parkway fino a Grand Army Plaza. Siamo defilati ormai, e la stanchezza accumulata non ci rende lucidi e reattivi al punto da prendere, sterzare e impennare al volo verso il cuore della festa. E’ un peccato aver perso la sfilata, ma la fortuna è che NY non ti da tempo di pensare, devi continuare ad andare, a percorrerla e scoprirla senza rimpianti per quel che non è stato, perché tanto sai bene che ci sarà qualcos’altro di cui stupirsi, oltre la prossima svolta.

Dopo Prospect percorriamo la quinta strada, una via molto allegra e colorata, piena di locali e baracchini. Purtroppo tanti esercizi commerciali sono chiusi per la festa dei lavoratori. Usiamo la quinta come bussola ma facciamo l’elastico nelle vie che la intersecano e scopriamo case dai disegni e dalle tinte deliziosi, molto simili a quelle di Soho e Greenwich, ma più austere e signorili, dato che al loro cospetto siamo persuasi a un certo rispetto reverenziale. Questo è il cuore di Brooklyn, un cuore sobrio ma caldo, che si fa attraversare con piacere, senza attriti. Noi cerchiamo di fare la cosa giusta, come Sal e Mookie nel film di Spike Lee.

Io e Franci non abbiamo sentito mai un caldo simile. Non parlo solo della temperatura, parlo della qualità opprimente del caldo che a tratti si fa soffocante. L’umidità è oltre i livelli di guardia e io non smetto mai di sudare. Ci fermiamo in un localino per una pausa. Oggi ci rendiamo conto di essere palesemente in riserva e ci concediamo un’insalata per pranzo, a maggior ragione perché la giornata sta prendendo una piega impegnativa. C’è tanto da camminare, e dalla mappa capiamo che avremo bisogno di energia supplementare per raggiungere i nostri obiettivi. Anche gli zaini sembrano pesanti, per quanto contengano poco o nulla. Dentro c’è forse il peso dei giorni passati, e la schiena inizia a mandare segnali di disapprovazione.

Poco importa, ripartiamo. Come dicevo, è quasi tutto chiuso ma in quel quasi Franci riesce comunque a trovare un mercatino di abiti usati davvero originale. Il negozio è popolato da gente bella e stravagante. Ognuno sembra uscire da un tempo diverso, ognuno ha il suo stile ben marcato. Franci trova una giacca fantastica, una di quelle che le calzano a pennello perché richiamano l’abbigliamento londinese pop rock degli anni 70. E a lei quello stile si addice alla perfezione. Ora la giacca c’è, le mancherebbe soltanto un palco per esprimersi al meglio.

Proseguiamo e passiamo davanti al Barclay center, un tempio del basket di cui ci limitiamo a rimirare gli esterni, poi i palazzi ricominciano gradualmente a stagliarsi verso il cielo e fra questi spicca la Brooklyn Tower, il mio grattacielo preferito, per quanto alcuni sostengano che abbia rovinato il profilo di Brooklyn. Nera e stretta come i pantaloni di pelle di Jim, sembra la torre da cui svetta l’occhio di Mordor ne “Il signore degli Anelli”, oppure una di quelle che si levano sui pianeti alieni dell’Impero in “Star Wars”, tanto è magnetica e oscura.

Sono le tre ormai e il traffico inizia a farsi prepotente, ancora si avvistano auto festanti in giro, siamo in prossimità del ponte di Brooklyn, ne vediamo l’inizio e ci infiliamo alla sua destra, per scendere verso Dumbo. La zona sembra un tantino malfamata, per la prima volta abbiamo la pur vaga sensazione di non essere nel posto giusto, ma andiamo avanti senza patemi e dopo varie deviazioni e alcuni errori che ci sfiancano arriviamo Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Dumbo è un delizioso e vivace quartiere incastonato come un diamante fra il ponte beige di Brooklyn e quello azzurrino di Manhattan.

In quel coacervo di vie solcate e sovrastate da ponti troviamo un luogo magico. Immagino senza fatica Max, Noodles e soci scappare dalla furia vendicativa di Bugsy, quel colpo di pistola che squarcia la via e la vita del piccolo Dominic, centrato alle spalle senza pietà. Il cuore di “C’era una volta in America” è qui davanti ai miei occhi innamorati del cinema di Sergio Leone, e io vago in contemplazione, quasi disorientato, con la colonna sonora del film che mi percorre come fosse un brivido. E’ una gioia incontenibile essere qui. Questo è l’angolo di New York che bramavo più intimamente, e farò di tutto per prolungare la nostra permanenza qui.

Inanello foto in serie, per immortalare ogni sfumatura possibile di quel luogo che in fondo sembra vivere da sempre dentro di me. Non voglio perdere nulla di quanto osservo, voglio catturare ogni dettaglio, farlo prigioniero, e poi fonderlo nei miei ricordi per sempre. Il ponte di Manhattan da Washington street è una meraviglia, sono devastato in questo momento ma l’estasi prevale. Amo la mia ragazza, che ha contribuito a realizzare certi sogni che magari all’inizio erano solo miei ma che poi abbiamo sempre costruito e vissuto insieme. Si è sempre fidata di me nonostante l’abbia condotta anche in luoghi discutibili in condizioni discutibili, ha sempre trovato il lato positivo in ogni situazione anche quando magari ero io a preoccuparmi, e i nostri sogni sono divenuti reali.

Qui a Dumbo la osservo con attenzione mentre la fotografo: è distesa e sorridente, e la fatica le scivola via con eleganza come sempre, e penso al fatto che siamo indissolubili. Amo profondamente questo nostro film di genere indefinito che mi scorre innanzi proprio mentre sono al cospetto della location simbolo di “C’era una volta in America”, che è l’opera cinematografica che preferisco perché rappresenta la vita stessa, in tutte le sue forme, da quelle più limpide e luminose a quelle più cupe e dolorose. E’ il momento perfetto, in cui ogni cosa è al suo posto.

Amo New York, amo la vita che in questo luogo pulsa incessantemente, e non si può non consacrare un momento simile con dei flights multicolore nella Evil twin brewery, che a due passi da qui propone un menù vastissimo di birre alla spina di ogni tipo e gradazione. Fra l’altro, la birra produce effetti diuretici, come noto, e l’unico bagno disponibile in zona è posizionato proprio sotto la cartolina che non riuscivo a smettere di guardare. Ne approfitto per un break e una nuova sortita al suo cospetto. La birra ci rilassa, i muscoli abbandonano la tensione accumulata. Chiedo di salutare per l’ultima volta la visione cinematografica del Manhattan Bridge e ci dirigiamo lungo fiume per guardare lo skyline di NY dal suo profilo migliore.

Lungo la via incrociamo un fantastico magazzino della Brooklyn Historical Society, che contiene locali e negozietti vari, ma ci rendiamo conto passandoci accanto che dentro la temperatura è prossima allo zero. Non vogliamo ammalarci e lasciamo perdere. Scoprirò solo in Italia che abbiamo perso la possibilità di ammirare la vista dal terrazzo che si affaccia sull’East river. Poco più in là c’è St. Anne Warehouse, un bel teatro dalle fogge simili a quelle del magazzino, ricavato da un antico deposito di tabacco.

Proseguiamo verso la promenade e ci fermiamo nel Brooklyn Bridge Park, da cui ammiriamo Manhattan in tutta la sua bellezza. Da qui i giganti sembrano veleggiare su un’enorme chiatta, che si direbbe alla deriva se non fosse ormeggiata al ponte di Brooklyn, che pare trattenerla senza alcuno sforzo, come il braccio di un padre col figlio. Non possiamo far altro che starcene seduti ad ammirare in silenzio un simile spettacolo.

Ormai sono le 5, non è abbastanza per godersi il tramonto, ma noi iniziamo a deambulare con fatica, io sto perdendo la posizione eretta che l’uomo ha conquistato con tenacia e determinazione, e prendiamo l’ardua decisione di salire le scale verso il primo ingresso disponibile, in anticipo rispetto ai tempi previsti.

Il ponte di Brooklyn mi trasmette subito un’idea di immensa solidità, è il ponte di un transatlantico che solca l’East river in modo poderoso, e i tiranti si intersecano fino in cielo, dove è impossibile intravederne la sommità. Oltre le lanterne utili alla visione notturna e a rendere più amena la vita della ciurma a bordo, spiccano degli strani dischi in posizione verticale.

Le teorie a supporto sono le più disparate. Sono Wagasa, gli antichi ombrelli giapponesi, costruiti con maestria, bambù, corda e washi per proteggere il bastimento dall’ira divina? Sono 78 giri su cui scorre imperterrita la travagliata storia della costruzione del ponte? O rappresentano i ventagli che Daitarn III utilizza come scudo solare? Non lo sappiamo, ma di certo il cielo è di nuovo terso, il vento ha spazzato via parte dell’umidità corrosiva di oggi, e noi ci divertiamo a osservare il sole che cala fra i ciclopi di Lower Manhattan.

Scattiamo foto in tutte le direzioni, alla ricerca della giusta angolazione, dello scivolo migliore per le correnti luminose che soffiano fra gli spogli alberi di questa nave possente, mentre i veicoli viaggiano quasi impercettibilmente sotto coperta. La barra del timone è dritta, guadiamo il fiume senza tentennamenti con l’illusione di camminare.

Il ponte di Brooklyn è un nastro trasportatore azionato dalla forza di mille uomini, e noi scivoliamo senza attrito sulla sua superficie. Attracchiamo dall’altra parte sorridenti ma sorpresi dalla rapidità della traversata, che vorremmo ripetere avanti e indietro finchè non sarà notte e poi giorno e poi notte ancora. Mentre scendiamo, Francy trova un cappello adatto a me che ho un cranio inadatto ai cappelli. Lo provo, è perfetto, che non significa che mi stia bene, ma per 5 dollari possiamo procedere.

Siamo a terra adesso, passeggiamo ancora un pochino prima di riprendere la metro, di cui non abbiamo più alcuna paura. Puntiamo dritti al Grey Dog, un caffè di quartiere non lontano dal nostro albergo, famoso per le colazioni e per gli hamburger. Divoriamo con gesti famelici due panini squisiti. Io concludo la serata con un margarita, che è un cocktail molto diffuso nella letteratura newyorkese e uno sfizio che volevo togliermi.

Non ci resta che l’ultimo miglio prima di arrivare nella nostra casa temporanea. La sera avvolge la città della solita elettricità, è un peccato andare a dormire, ma abbiamo dato tutto. Il gps segna altri 20 chilometri e siamo piegati dai crampi. Arrivare in hotel è un sollievo. Lavarsi, stendersi al chiaro di luna ad asciugare, e poi stirarsi e fare le fusa come gatti prima di sprofondare senza gravità fra le nuvole e le profondità del firmamento. Ora siamo soltanto punti indistinti nella notte, frammenti di umanità sospesi fra la terra e il cielo di New York, storie sommate ad altre storie in questo mezzosogno di finestate.

6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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DAY 3

Domenica 3 settembre. La sveglia suona presto anche stamani, ma la mia reattività accusa il colpo del giorno prima. Franci invece è pimpante e volitiva, mi trascina di sotto in stato di semi incoscienza, ci concediamo la solita super colazione e usciamo nell’aria fresca del mattino.

Sembra un’altra bella giornata, il traffico è leggero, Times square è linda e deserta, sembra impossibile paragonarla a quella della notte appena trascorsa, eppure è sempre lei. Ho ancora negli occhi il caos fiammeggiante e le esplosioni di luci, suoni e colori che riempivano ogni spazio fruibile, suscitando l’illusione che fosse giorno in piena notte. Questo sembra un altro mondo, un altro tempo. E in effetti forse è così, tutto muta continuamente. In un teatro danno il musical di Ritorno al futuro, un vero cult, una di quelle opere che a casa girano ciclicamente. Cerco al volo i biglietti on line per la sera ma non troviamo posti vicini e rinunciamo.

Anche stamattina New York ci regala una luce straordinaria, è bello camminare di buon passo fra i grattacieli. Il sole fa capolino a intermittenza, infilandosi fra le fenditure e rifrangendosi sui vetri a specchio in modo delicato, come se l’alba fosse sospesa a mezz’aria. Percorriamo poco più di due km a piedi per arrivare al negozio di noleggio bici convenzionato con il sightseeing pass. In cinque minuti ritiriamo le biciclette e ci avviamo verso Central park, che si trova a poche pedalate da lì.

Oggi le nostre mire non sono le stesse di ieri. Oggi intendiamo rilassarci, vivere il momento con la dovuta calma, goderci NY sotto un profilo diverso, senza farci prendere dal solito demone del viaggio che in certi casi ci spinge a superare l’asticella delle possibilità umane. Oggi è diverso, oggi non può essere come ieri, perché sarebbe impossibile reggere e perché ieri è una dimensione lontana nello spazio e nel tempo, vissuta con ritmo e intensità tali da essere irriproducibile. Oggi vogliamo goderci un po’ di natura senza affanni, e Central Park fa esattamente al caso nostro. Un nuovo viaggio nel viaggio.

Entriamo nel parco e per prima cosa cerchiamo di comprenderne la conformazione. Un circuito esterno circumnaviga tutto il perimetro del parco in senso antiorario. La città sonnecchia ancora, nel parco c’è poca gente e noi giriamo spensierati ma non proprio senza meta. Qua e là affiorano le splendide e primordiali rocce levigate dagli elementi che impreziosiscono varie zone del parco. Saltiamo a piè pari lo zoo, come da consuetudine, molliamo per qualche istante le bici e ci affacciamo su Sheep Meadow, uno dei grandi prati con vista di Central park. Qui, newyorkesi e non si rilassano, chiacchierano, prendono il sole, leggono, amoreggiano, si godono un picnic, giocano con ogni tipo di palla. E’ solo una rapida presentazione reciproca, perché è vero che oggi andiamo tranquilli, ma è altrettanto vero che non è il momento di fermarsi. Lo faremo poi.

Scopriamo presto che si deve scendere con frequenza dalla bici, dato che i luoghi da visitare nelle zone centrali del parco si possono percorrere soltanto a piedi. Salire e scendere dalle bici è un’operazione che eseguiamo con frequenza, fino al momento in cui inizieremo a fregarcene un po’, rimanendo in sella per tutto il tempo possibile, salvo i tratti di sentiero più stretti in cui sarebbe impossibile non travolgere i passanti.

Pedaliamo per un breve tratto e parcheggiamo le bici in prossimità di The mall and literary walk, un grazioso viale alberato che trascina indietro nel tempo. Il padre del romanzo storico è lì a vigilare. Sembra effettivamente un’ambientazione letteraria ottocentesca, e carrozze e dame d’altri tempi ci calzerebbero a pennello. Non disdegneremmo nemmeno un parasole, dato che le temperature sembrano giocare improvvisamente al rialzo. Bancarelle, ritrattisti e artisti vari guarniscono il percorso, e certi acquerelli somigliano ai quadri in cui saltarono magicamente Bert, Mary Poppins e i fratelli Banks. O forse la mia immaginazione è instancabile e cerca come sempre una via di fuga.

Ci sediamo ad ascoltare la voce incantevole di Maya, una giovanissima cantante che, accompagnata dal fratellino e supportata tecnicamente dal padre, propone vari pezzi musicali, in particolare dei Beatles. I fratellini sono bravi anche a suonare piccoli strumenti. La piccola ci intenerisce e decidiamo di regalarle il dollaro che ci ha consegnato Irene a casa, prima di partire. Lei lo aveva conservato dal precedente viaggio in America, che ricorda bene -nonostante fosse piccolissima- perché fu la prima di noi ad avvistare un orso. “Orcio! Orcio!” – gridò all’epoca a Yellowstone, senza che nessuno di noi intuisse all’istante che c’era un giovane Grizzly nelle vicinanze. Pensiamo che far passare simbolicamente quel dollaro dalle mani di Iri a quelle di Maya sia un’idea carina, e la mettiamo in pratica.

Proseguiamo lungo il Mall e finiamo proprio sotto il terrazzino del Bethesda, luogo frequentatissimo da modelle in cerca della posa e dello scatto giusti, a quanto pare, e da chi decide di farsi un giretto in barca nel laghetto più carino e scenografico di Central park. Il cinema si è valso a tal punto di questo specchio d’acqua e dei luoghi limitrofi che sembra di essere costantemente a spasso in un film. Kramer contro Kramer, La leggenda del re pescatore, Harry ti presento Sally, Hair, Autumn in New York, Il diavolo veste Prada, Wall street, Home alone, Elf sono i primi che mi vengono in mente, ma l’elenco è lungo.

A me pare un quadro di Monet, su cui il pennello si appoggia con leggerezza, tracciando linee chiare ma rapide: la luce è al centro di ogni cosa, i dettagli sembrano scappare via, ma il momento nel suo complesso viene catturato, imprimendosi per sempre nelle distese di colore che popolano il parco.

La mole di gente cresce via via che passano i minuti, ma questo luogo trasmette una sensazione di pace, di tregua. Qui sembrano tutti tranquilli e lontani dalla frenesia del centro, che pure è lì a ridosso a scuotersi, mordere e sbuffare. Osserviamo le barchette muoversi placide e incorporee sulle acque del lago, e sembra di essere in un altro tempo, un tempo letterario, un tempo di candidi segreti e storie sussurrate, un tempo denso di parole raccontate con cura e dovizia di particolari. Qualche anno fa in Svezia abbiamo fatto un tentativo con una barca a remi, ma non è andata bene per una questione di equilibrio, e non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di riprovare. Central park è una vera e propria oasi, una parentesi verde ricavata dall’uomo per ricordarsi di sé. Provo una punta di invidia per tutti quelli che possono correre in un posto come questo. E sono tantissimi.

Torniamo verso le bici mentre una piccolissima violinista si esibisce con grazia. Riprendiamo il circuito principale e a questo punto il traffico aumenta vistosamente. Avvisto due risciò davanti a me. Alla guida ci sono due ragazzi di colore vivaci e super sorridenti, a bordo due signori sulla cinquantina, apparentemente inglesi. Qui vorrei un attimo divagare sulla differenza fra ragazzi sulla cinquantina e uomini sulla cinquantina, ma mi limito a rivendicare il fatto di appartenere in modo piuttosto evidente alla prima categoria. Ma torniamo a noi, sono ormai a ridosso dei due risciò, e sulla loro scia sento un odore che mi è capitato di sentire anche a Manhattan. E’ odore d’erba, e per la prima volta vedo anche distintamente da dove proviene. In città quell’odore è ad ogni angolo, ma forse a causa della mia vista di talpa, o del fatto che a NY hai altro a cui pensare, è più difficile intercettarne la provenienza. Prima di partire ho letto quanto basta per sapere che da un paio d’anni la cannabis è legale a New York, ma non pensavo a un utilizzo tanto palese dell’ameno espediente ricreativo. Da buon forestiero di provincia stupefatto, chiamo Fra -che è defilata rispetto a me- per mostrarle i tizi che di prima mattina se la ridono a bordo dei risciò, e la cosa buffa è che non mi risponde lei ma un ragazzo in bici che ridendo mi dice in romanesco spinto: “L’hai visti sti sacchi demmerda??”. Mi fa ridere, riguardo Franci, mi giro di nuovo verso di lui che mi sorride prima di scomparire in mezzo al classico gruppone di inseguitori al Tour de Parc.

Subito dopo, forse per rimanere in tema di alterazioni percettive, perdiamo tempo a cercare una statua raffigurante Alice in Wonderland, e la troviamo grazie al solito intuito di Franci. Alice nel paese delle meraviglie è una storia di gran voga a casa nostra. Scatto qualche foto alla statua, che raffigura Alice, il bianconiglio e il cappellaio matto, che è il mio personaggio preferito, a maggior ragione dopo che il maestro di visioni Burton scelse Johnny Depp per interpretarlo. Riprendiamo la tournèe, finchè -dopo una manciata di minuti- Franci si accorge di aver dimenticato lo zaino, con dentro passaporti, portafogli e altri effetti personali. Mentre io vado in blocco e do già per scontato che ci dovremmo recare presso l’ambasciata italiana, lei sgrana gli occhi e senza pensarci si getta a capofitto fra le bici che sfrecciano in senso opposto. La seguo, ma è dura starle dietro, e a un certo punto taglia la pista verso sinistra e si butta in discesa sopra un prato e poi in slalom fra gli alberi, violando presumibilmente tutte le norme del parco in una volta sola. La perdo di vista, dev’essere di certo un film di cui lei è la protagonista alata, la trama è avvincente ma la situazione è tesa, impossibile capire come finirà. Poi la vedo risalire la china sorridente e sollevata. Lo zaino è di nuovo sulle sue spalle, dopo averlo recuperato nelle profonde cavità della tana del bianconiglio. Siamo salvi, Alice è stata fedele alla sua strampalata amica. Sono certo che non sarebbe stata altrettanto magnanima se lo zaino fosse stato il mio.

Terminate le manovre acrobatiche, procediamo fino al lago più grande di Central park, dove ci concediamo una breve pausa e prendiamo una decisione abbastanza improvvisata. Pedalare non ci pesa affatto, nonostante la stanchezza accumulata il giorno prima, abbiamo già percorso un buon tratto del parco, Harlem sembra lì a due passi, anzi è lì a due passi, e così decidiamo di farci un salto, prima di ridiscendere il parco dal lato opposto. Così, quando è circa mezzogiorno, entriamo ad Harlem.

Cerchiamo soltanto per curiosità una chiesa per assistere a un ritaglio di messa gospel. Le strade sono semivuote, e dal buon numero di automobili parcheggiate anche in doppia fila in prossimità degli edifici di culto intuiamo che la popolazione locale dedichi la domenica alla funzione con assiduità e partecipazione. In effetti solo nei minuti successivi Harlem inizierà ad animarsi. Nel frattempo incontriamo un ragazzo di origini senegalesi simpaticissimo e assai loquace. Mi pare si chiamasse Sam. E’ un programmatore, lavora a New York e a Milano, abita da quelle parti e parla un italiano perfetto, ci da qualche indicazione, ci consiglia -scherzando ma non troppo- di unirci a un folto gruppo di ciclisti che stanno di là della strada: “vi mettete in coda e nessuno si accorge che non fate parte della comitiva, e con loro vedete la messa e tutti i luoghi più famosi di Harlem”. Lo ringraziamo, ma rifiutiamo il pacchetto: autonomia e indipendenza rappresentano i nostri fiori all’occhiello, e le gite organizzate, in tal caso persino abusive, proprio non fanno per noi.

Andiamo avanti, troviamo una chiesa, Franci si informa ma la signora all’ingresso ci fa capire che la messa butta de fori. Non è un problema, non reggerei mai due ore di funzione e so che rimarrei comunque deluso perchè mi aspetto di trovare fra i banchi Bono e gli U2 che intonano insieme ai presenti “I still haven’t found what i’m looking for”. Continuiamo il giro senza patemi. Tentiamo la sorte anche da Sylvia’s, un ristorante noto per il gospel brunch e per essere una delle location di “Jungle fever”, un bel film di Spike Lee. Purtroppo anche presso la regina del soul food inizia ad accalcarsi una discreta folla, e, come il lettore avrà ben compreso, a noi non piacciono i percorsi prestabiliti, né tanto meno le folle accalcate.

Puntiamo le bici verso l’Apollo Theater, che ci interessa per lo più da un punto di vista simbolico. L’Apollo infatti è uno dei più importanti club musicali d’America, un vero e proprio crocevia della cultura musicale afroamericana, dove si affacciarono alle scene artisti eccelsi come Ella Fitgerald, Billie Holiday, James Brown e i Jackson Five. Ci limitiamo a dare un’occhiata al locale dedicato al dio greco delle arti e ad affacciarci sul foyet, un po’ come ci capitò di fare nel 2010 al Whisky a Go Go di Los Angeles, altro locale iconico, in cui Morrison e i Doors mossero i loro primi passi. A onor del vero, all’epoca ero alla ricerca espressa di Jim e dei suoi luoghi. E il Whisky era uno di questi.

Tributato il doveroso omaggio a questo monumento della musica, piazziamo sul navigatore la cattedrale di St. John The Divine, che Franci vorrebbe visitare. Non calcoliamo che il percorso prevede una bella salita e che il caldo a quest’ora inizia a farsi opprimente, e ci costringiamo a una faticaccia imprevista. Non a caso siamo in Upper west side. Arriviamo in prossimità della chiesa ma diciotto dollari pro capite ci sembrano troppi per visitarla, e così la pensano anche altri turisti che fanno dietro front in blocco. Nel gruppo ci sono tre ragazze, una delle quali dice: “Ahò, manco fosse San Pietro”. Come non concordare?

Qua e là zampilla acqua dal sottosuolo, e anche questa è un’immagine evocativa di altre immagini ormai sbiadite, che i miei occhi hanno visto in chissà quale cinema del passato. Ci fermiamo a osservare gli attrezzatissimi campi sportivi in serie in cui si gioca a basket e a baseball, e poi facciamo tappa in una birreria ben fornita, dove posso gustarmi una Smithwicks, la rossa più buona al mondo. Rifocillati, ci lanciamo in discesa per riconquistare il parco sul fianco occidentale, poco più a nord del museo di storia naturale, che non rientra nei nostri piani, forse perché inconsciamente speriamo di tornarci coi bimbi. A Giamma piacerebbe un sacco, ne sono certo. A proposito, anche l’Upper sembra un buon posto in cui vivere.

Rientriamo nel parco, troviamo un cono d’ombra davanti a Sheep Meadow, posiamo sull’erba un foulard, che è l’unico giaciglio disponibile, ci mangiamo una mela e ci stendiamo a contemplare in silenzio quello scorcio fantastico che proiettano innanzi a noi. E’ pieno di gente ma l’ingresso è gratuito. Uomini, donne e bambini punteggiano l’ampia distesa verde che ci circonda, ma lo spazio abbonda e le voci delle moltitudini restano distanti e assumono la consistenza di un lieve e sommesso brusio che si amalgama al vento, rimescolando le idee e gli idiomi di tutti gli abitanti del pianeta New York. Si sta davvero bene e ci lasciamo andare, allentiamo ogni tensione, molliamo gli ormeggi e ci spingiamo alla deriva fra le nuvole e gli alberi e il fulgore dei giganti assiepati ai confini del parco.

In ogni grande città abbiamo tentato e trovato una fuga nel verde. Lo Stanley park a Vancouver, Villa Borghese a Roma, i piccoli e graziosi parchi collinari a san Francisco, l’infinito Phoenix park a Dublino, il parco delle Table Mountain sopra Cape Town, il Jardim de Morro a Porto, il parco senza nome in cui ci addormentammo a Copenaghen, o infine il piccolo parco di periferia in cui ci rifugiammo a Reykjavik prima di lasciare l’Islanda. Ed ora Central Park a New York. Sono solo i più fulgidi e immediati esempi che mi vengono in mente, luoghi di mezzo che per noi rappresentano spesso i ricordi più luminosi di un contesto urbano, perchè le opere dell’uomo sono belle ma quelle della natura di più, anche quando la mano dell’uomo è intervenuta in modo tanto evidente.

Siamo in contemplazione, pensiamo a tutto e a niente, veleggiamo in dormiveglia finchè ci guardiamo e ci scuotiamo da quel dolce torpore. Siamo a New York, ci eravamo quasi dimenticati, abbiamo tante cose da fare. Riprendiamo le bici e seguiamo il mio capriccio di vedere il Carousel, una giostra coperta vecchia più di un secolo che si trova sul nostro tragitto di rientro. Nel mentre, il colpo d’occhio mi propone un grattacielo che pare il camino di una fornace. Le nuvole in cielo sembrano uscire dalla sua sommità. Allora dev’essere vero quel che mi rispose un indiano nell’Antelope Canyon quando gli chiesi cosa producesse l’ecomostro che sputava fumo dall’alto delle sue ciminiere. “It makes clouds”, mi disse accennando una timida smorfia. Ma basta divagare, ora la gente è tantissima, si cammina a stento, per noi è ora di cambiare aria.

Ci infiliamo di nuovo fra i grattacieli e in breve riportiamo le bici. Ormai sono le 16. Mentre torniamo in hotel a piedi, facciamo tappa alla cattedrale di Saint Patrick, la più grande chiesa neogotica cattolica degli Stati Uniti. E’ in corso la messa in spagnolo. L’acustica è incredibile e i canti fanno venire la pelle d’oca. Il prodigio di voci e melodie riempie ogni angolo della cattedrale e genera un’atmosfera solenne e coinvolgente. Ci aggiriamo fra i banchi e le icone di questo maestoso luogo di culto con il dovuto rispetto e una certa emozione.

Arriviamo in hotel, ci rinfreschiamo e ripartiamo al volo, dopo aver preso una decisione clamorosa: per la prima volta prenderemo la metro, dato che l’ingresso si trova a pochi metri dal Marriott, e che il Fanelli Cafè, che abbiamo scelto per cena, si trova a Soho. Scendiamo in Penn Station, ricarichiamo la metro card utilizzata per l’air train ed iniziamo ad attendere la linea C che ci porterà fino a Washington Square. Da lì cercheremo un posto carino per fare un aperitivo prima di cena. L’attesa è più corposa del previsto e io inizio già a mostrare i primi segni di squilibrio e insofferenza. La situazione precipita pochi istanti dopo, poichè la fermata di Washington è la West 4th Street in realtà, e noi la saltiamo con disinvoltura. Attendiamo due o tre fermate ma di Washington nemmeno l’ombra.

Chiediamo a una signora a bordo, che gentilmente ci mostra sulla sua app che siamo andati lunghissimi. Scendiamo a One World, e ci posizioniamo in attesa della C per tornare verso nord. L’idea è di scendere a Canal Street, sempre per aggiungere due passi e un cocktail al nostro tragitto. Ma l’attesa è lunghissima e snervante, io avverto la fiacchezza accumulata e sono stanco di aspettare, la temperatura e l’umidità sono insopportabili, ho voglia di tornare all’aria aperta e di godermi la città ma i minuti passano inesorabilmente. Lo ammetto, non tollero concettualmente i tempi e le modalità del trasporto pubblico, che interpreto esclusivamente come barriere limitanti le libertà individuali.

Penso che se fossimo andati a piedi, saremmo già arrivati a destinazione, e divento presumibilmente insopportabile. Franci accetta di buon grado un errore che può capitare ma io invece no, non l’accetto e non tollero la mia disattenzione. Aspettiamo quasi mezzora prima che passi il nostro treno e uscire fuori è un vero sollievo. Non abbiamo più tempo per l’aperitivo e andiamo direttamente a cena.

Il Fanelli, a dispetto del nome e delle graziose tovaglie a quadretti bianchi e rossi, è un locale tipicamente americano, in cui cucinano preminentemente carne. La tizia che gestisce il posto sembra una cowgirl del Wisconsin, il locale è frequentato da persone di età media inferiore alla nostra, ma abbiamo voglia di un luogo informale e accogliente, dove sentirci a nostro agio, e il Fanelli è perfetto in tal senso. Dunque assaggiamo carne, come da copione, in un’atmosfera che mi trasporta indietro di tanti anni, quando io e Franci mangiammo paella in una fumosissima trattoria sita nella parte più alta e vecchia di Granada. Tutto continua a tornare, nell’incessante confusione che spazio e tempo propinano a noi esseri fugaci.

Finiamo di cenare e usciamo in strada disorientati, camminiamo un po’ ma siamo stremati, svaniamo nella notte di Soho, come fossimo assorbiti dall’oscurità. Il mio ultimo ricordo è un orologio da stazione ferroviaria, oltre il quale non mi è concesso dire se e come siamo tornati a Midtown. Eppure siamo tornati, risputati chissà come dal regno d’ombre o dagli angusti sotterranei di Gotham.

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