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6 DAYS IN NEW YORK Mezzosogno di finestate a puntate

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DAY 2 – Greenwich – One World – Gotham – Seaport – Chinatown – Little Italy – Birdland

Sabato 2 settembre. Ci svegliamo alle 6e30 per essere a colazione alle 7 in punto. A parte il fervido desiderio di ricominciare a esplorare NY, va premesso che io e Francy sfruttiamo a pieno ogni potenzialità del primo pasto del giorno. La colazione rappresenta a tutti gli effetti un breathing, perchè di norma in quella sede, oltre a dare il meglio di noi al cospetto del ricco buffet, raccogliamo le idee della sera prima e mettiamo a punto un piano sommario per la giornata. Ci può capitare di restare anche un’ora in sala, muniti di guida e appunti di viaggio. L’idea di oggi è di andare verso sud a piedi, e di arrivare fin dove riusciamo, senza limiti di sorta. Ne uscirà fuori una giornata memorabile, che ci consentirà di scoprire un quadrante consistente di Manhattan. E grazie alla corposa colazione americana non avremo bisogno di pranzare, e anche questo ci sarà utile per risparmiare tempo.

Usciamo in strada che il sole è ancora basso e parzialmente scremato dietro ai palazzi, la luce della mattinata è splendida, il traffico scarseggia, la gente in giro è poca. Incontriamo per lo più lavoratori che in silenzio azionano gli enormi ingranaggi che regolano i meccanismi della città. Visitiamo il Chelsea market ancora dormiente: anche qui vige un’operosità sommessa e discreta, lungo i suoi corridoi corrono pavimenti scuri e pareti a mattoncini, sopra le nostre teste tubature a vista e condotti dell’aria avvolti nell’alluminio tradiscono un passato industriale. D’altronde questa fu la fabbrica della Nabisco, dove nel 1912, esattamente due mesi prima del naufragio del Titanic, idearono e produssero il biscotto Oreo. E chissà che nei più remoti recessi di questa suggestiva struttura a misura di Umpa Lumpa non si realizzi una produzione clandestina di cioccolato Wonka.

Usciamo e puntiamo il One world, ma non prendiamo nemmeno in considerazione di utilizzare i mezzi pubblici, vogliamo goderci a piedi Chelesea, Greenwich, Soho, Tribeca. E lungo il nostro percorso scopriamo perle che ci ripagano della fatica, se vogliamo chiamarla così. Siamo partiti da Midtown, e ci rendiamo conto ben presto di entrare gradualmente in un altro mondo. La luce filtra dolcemente fra gli alberi, i giganti d’acciaio sono svaniti nel nulla, probabilmente banditi da queste terre. Procediamo a zig zag fra le vie incantate di Soho e Greenwich Village, sperando di goderci qualche scorcio degli interni delle splendide case della zona.

Qui hanno girato Allen, Scorsese, i Coen, qui troviamo gli esterni di alcune note produzioni per la tv, qui è cresciuto De Niro. Case di mattoncini multicolore si avvicendano lungo viali alberati e pacifici. Gli abitanti si muovono pigramente. Chi porta a spasso il cane, chi si occupa della spazzatura, chi si incontra per strada e si concede due chiacchiere. Un giornale attende con garbo davanti a un portone turchese che il padrone di casa esca a prenderlo, il silenzio è incantato. Forzando un paragone acrobatico, azzarderei che la sensazione è di trovarsi a Garbatella dopo aver fatto un giro in pieno centro a Roma. Greenwich è una dimensione elegante ma quasi rurale, tanto è rilassata e distante dalla frenesia caotica della città senza sonno.

Io e Francy pensiamo che – se fossimo newyorkesi- sarebbe questo il luogo in cui vivremmo, anche perchè il quartiere somiglia all’America di provincia che abbiamo vissuto e amato. Ci convinciamo di ciò una volta di più dopo esser finiti per caso fra i banchi di un mercato di frutta e verdura in prossimità di un parco minuto. Acquistiamo due pesche e proseguiamo nell’incanto del sud ovest di Manhattan, mentre il vapore acqueo sotterraneo sbuffa in superficie dagli appositi camini bianco-rossi, regalando un alone di mistero al nostro percorso. Ti immagini che dai fumi di quel vapore spuntino fuori i gangster in erba di C’era una volta in America, ma non c’è tempo di rimuginare perchè nel giro di pochi minuti ci imbattiamo per caso in Ladder 8, la caserma dei pompieri in cui Reitman ambientò il covo dei Ghostbusters.

Proseguiamo verso Tribeca, dove cerco senza successo il locale in cui De Niro pochi giorni prima ha festeggiato gli 80 anni con tanti mostri sacri del cinema. Ignoro il motivo per cui si sia dimenticato di me, ma tant’è, trattasi probabilmente di una banalissima svista. Tribeca è un quartiere alla moda che sancisce il ritorno a un’architettura più moderna e slanciata verso l’alto. I grattacieli riprendono campo gradualmente, il One world domina l’orizzonte, svoltiamo l’angolo in direzione Battery park e ci troviamo al limitare di una delle due enormi vasche che sostituiscono le due torri e ne proteggono la memoria. E’ un luogo toccante e ciò che più fa impressione è scorrere i nomi e i cognomi delle persone che persero la vita l’11 settembre 2001, perchè ci si rende conto che vi è rappresentata ogni parte del mondo. Le Olimpiadi dell’orrore.

Entriamo nel grattacielo del One world observatory, scannerizziamo i pass in autonomia, registriamo i nostri dati e all’ingresso un contatore aggiorna in tempo reale grafici sui Paesi di provenienza dei visitatori.

Quindi attraversiamo le rocce vecchie 400 milioni di anni che costituiscono le fondamenta ancestrali del One World e forse dell’intera America. In 60 secondi saliamo al 102esimo piano, in ascensore propongono una rapida e suggestiva narrazione visiva della storia di New York. In cima a me e Francesca tremano le gambe perchè il salto nell’iperspazio è tanto impercettibile quanto destabilizzante.

Da lassù osserviamo NY da una prospettiva unica: il cielo è limpido e la visuale perfetta, a sud vediamo Staten island e i mitici traghetti arancioni intrecciare le scie e le storie dei pendolari che salgono a bordo ogni giorno; la Statua della libertà ed Ellis Island con le orde di turisti che le cingono d’assedio concentricamente; ad ovest l’Hudson e il New Jersey; a nord il cuore di Manhattan fino a Central park e Harlem; a est il Financial district e i ponti che uniscono la penisola a Brooklyn e al Queens. E’ un luogo perfetto per meravigliarsi e comprendere la geografia di Metropolis, la versione luminosa di NY .

Siamo sazi di tanta luce e torniamo a terra a capofitto, come siamo saliti. Dopo una rapida decompressione ci avviamo verso Financial district, quella che nel mio immaginario cine-fumettistico è Gotham City. Identifico la porta di Gotham in Trinity church, una cattedrale gotica dall’aspetto crepuscolare anche in pieno giorno, le cui mura sono circondate da un cimitero di bambini.

Davanti a Trinity si allunga Wall street, stiamo entrando nel cuore bancario e finanziario di NY. Non considero questa zona attrattiva in quanto tale, ma in funzione delle fantasie cinematografiche di cui mi sono nutrito negli anni. Mentre passeggiamo per quelle vie emergono dal liquido nero dei ricordi i lupi Douglas e DiCaprio e le loro straordinarie interpretazioni del controverso mondo della finanza.

Ma il ricordo più vivido e legato anche e soprattutto visivamente a questi luoghi è la Gotham cupa e claustrofobica dipinta nel Batman di Nolan, che si può respirare a pieni polmoni, come fosse un vero e proprio set: qui il cavaliere oscuro potrebbe dispiegare il suo mantello nero dagli abissi del cielo e calarsi fino al dedalo di ponti e sottopassi sovrapposti in cui si annidano degrado e paura; dal portellone di un furgone postale parcheggiato potrebbe deflagrare la follia del Joker e cospargere la città di puro terrore distillato; al crocevia fra Wall street e Board street, Bane e il suo esercito di rifiuti umani potrebbero scatenare la propria violenza irreversibile sul mondo intero. Queste visioni di Gotham provengono da lontano, e fanno parte dell’immaginario collettivo. Posso solo immaginare l’aspetto decadente del distretto finanziario in versione notturna.

Lasciamo Wall street, abbandono le mie tetre fantasie gotiche. Ci dirigiamo d’istinto verso est, andiamo incontro all’acqua, passiamo davanti al Malibù Barbie Cafè e pensiamo che a nostra figlia sarebbe di certo piaciuto. Ora ci troviamo in South Street Seaport. Facciamo due passi sul Pier 16, dove è ancorata la nave d’epoca Wavertree e si può godere di una fantastica vista sui palazzoni di Lower Manhattan ma soprattutto sul ponte di Brooklyn.

Videochiamiamo i bambini perchè siamo circondati da meraviglie a 360 gradi e vogliamo condividerle con i frammenti di cuore che abbiamo lasciato a casa. Sui moli che affacciano sull’East river ritroviamo l’atmosfera leggera e festosa che si respira a San Francisco. Musica, mercatini e gente rilassata in giro. L’ennesima New York che si dipana magicamente sotto il nostro sguardo attonito.

Camminiamo lungo fiume verso nord, protetti dall’ombra di un ponte viola addobbo funebre. D’un tratto viriamo verso Chinatown, che è più o meno sempre la stessa in ogni angolo di mondo. Ho letto che i cinesi hanno una caratteristica che favorisce la conservazione -quanto meno parziale- degli edifici storici della città. In effetti, mentre il volto della gran parte di Manhattan cambia continuamente, perchè è un attimo che costruiscano un grattacielo in luogo di 2-3 vecchie palazzine, i cinesi, se acquistano immobili, non fanno altro che smontare le vecchie insegne per sostituirle con le loro. Diciamo che un certo modo di fare assai sbrigativo, che mira a un’immediata operatività, si traduce per una volta in utile strumento conservativo. Chinatown comunque è un bel casino, il suo moto è incessante come quello di un formicaio, e per quanto i colori sgargianti e gli odori siano allettanti, la tagliamo da est a ovest senza trovare angoli di pace. Forse una volta che hai visto una Chinatown le hai viste tutte, e ce la lasciamo alle spalle senza rimpianti.

Non esiste più un confine certo a dividere Chinatown da Little Italy, ma se la prima non sorprende, la seconda lascia perplessi. Sembra una fiera, un baraccone di paese, una rappresentazione che ritrae la caricatura del nostro Paese. Ghirlande ed archi tricolori adornano ogni strada, assieme ai versi di “Volare” e di altri pezzi nostrani. E’ un quartiere di soli locali, e i gestori tentano di accalappiare turisti in strada in modo istrionico. Nonostante l’aspetto niente affatto autentico, Little Italy è piena di gente e assai festosa, e ci spinge a sederci per una birra e un po’ di riposo. Oltre la facciata parodistica, si nota subito che qui si interagisce in modo immediato e verace, c’è buona osmosi fra gli avventori, e la gente seduta ai tavoli, di ogni nazionalità, sembra allegra e a proprio agio. Quando noi italiani vogliamo far sentire a casa la gente non abbiamo rivali, nessuno sa farlo come noi, e questa dote è una prerogativa di cui andare fieri.

Così conosciamo una coppia di americani simpaticissimi, John e Carol. Vengono da Boston e anche loro hanno lasciato i figli a casa. Beviamo qualcosa insieme, brindiamo, e ci divertiamo a raccontarci i nostri viaggi. Loro amano l’Italia, noi l’America. Un idillio perfetto, che si scioglie soltanto dopo la foto e l’abbraccio di rito.

Penso a quanta gente abbiamo conosciuto in giro per il mondo, anche solo di striscio, penso alla magia di quegli scambi culturali tanto intensi quanto fulminei, penso a cosa ne sarà di loro, a quali vie abbiano imboccato, a quali territori abbiano visitato. Penso al fatto che senza di loro i nostri viaggi non sarebbero stati gli stessi. Viaggiare è anche conoscere, scambiare, interagire, tentare, sporcarsi, perdersi, fallire. Viaggiare è vivere e io e Franci proviamo a essere noi stessi ovunque andiamo. Di norma funziona, e ci consente di stare bene e stringere buoni rapporti con chi incontriamo lungo il cammino. Viaggiare ti insegna a non avere paura, a non nasconderti mai, anche perchè capisci presto che il tuo orticello è troppo piccolo per conservare consistenza al cospetto del mondo.

A questo punto sono le 15 circa e improvvisiamo. Ho una fissa chiamata Tenement Museum, un museo del Lower East Side che riproduce le abitazioni fatiscenti dei primi immigrati europei. Ne so qualcosa grazie a “New York è una finestra senza tende”, un bel libro di Paolo Cognetti. L’autore scrive che non si può capire New York e la sua storia senza aver visitato questo museo. Mi ha convinto e chiedo a Franci di assecondarmi nonostante la stanchezza. Lei non è convinta ma accetta. Entriamo in una libreria, che è l’anticamera del museo, prenotiamo la visita e pochi minuti dopo siamo con un giovane Freddy Mercury in giro per i palazzi adiacenti. Lo ammetto, il ragazzo è troppo veloce per il mio livello di comprensione della lingua inglese, si mangia troppe parole ed enfatizza eccessivamente alcune espressioni. Vado a senso e percepisco più o meno quello che già sapevo dai libri, Freddy ci racconta la storia di una famiglia e della donna che ne reggeva l’economia con opere di sartoria che le pagavano una miseria. Ci muoviamo fra gli spazi angusti di questi appartamenti che erano condivisi da più famiglie, che poi subaffittavano ad altre famiglie come fossero matrioska. Forse il museo ha intrapreso la strada di una narrazione in serie, forse la guida non ci coinvolge per una questione di pelle e di elettricità. Fatto sta che ci aspettavamo di più sotto il profilo emotivo. Il beneficio del dubbio resta per i problemi linguistici di cui sopra, ma siamo stanchi e un tantino annoiati, e la fine del tour si rivela un sollievo.

Pensiamo per un attimo di prendere la metro, ma no, qui dietro c’è una fantastica birreria, la McSorley’s Old Ale House. Entriamo senza manco pensarci. Ora siamo in un rural pub irlandese, fuori non c’è più New York, ci sono solo distese verdi accarezzate dal vento a perdita d’occhio. Ci fanno accomodare in un tavolo condiviso con altre persone. Sul muro una targa recita: “be good or be gone”. Ordiniamo due birre e ce ne portano quattro. Questo posto mi piace. Una tizia sbraita manco avesse inghiottito un megafono, ma non ci facciamo caso perchè nel pub il baccano sostituisce ogni altra cosa. E’ un discorso stereofonico unico, le voci di ciascuno si sommano in una soltanto, e probabilmente nessuno capisce nulla di quel che dicono gli altri, ma non importa, non è essenziale. L’unica a farsi capire è la tizia che sbraita.

Ordiniamo altre due birre, anzi una, che sono due naturalmente, e poi ci dileguiamo verso Washington square, dove suonatori, giocolieri, cartomanti animano ogni angolo della piazza. Un gruppo di pazzi vestiti da suore intona cori in riferimento a un gioco chiamato “I suck this fantasy football”, che dovrebbe essere un gioco di abilità molto diffuso fra i giovani. I ragazzi si divertono a fare acrobazie con gli skate. Si sta bene ma dobbiamo andare, perchè abbiamo altri progetti.

Risaliamo verso il Chelsea Market che alle 18 è preso d’assalto. Troviamo posto in un ristorante indiano dove mangiamo un paio di piatti deliziosi, e uno meno. Non sto a rimarcare chi abbia scelto il piatto insipido, ma è semplice intuirlo. Sfamati, torniamo in albergo. Doccia rapida, cambio d’abito e via nel crepuscolo newyorkese.

Stasera ci attende il concerto di Catherine Russell al Birdland, uno storico locale jazz in Theater District. Ho prenotato il concerto dall’Italia, ma non potevo sapere che nell’arco della stessa giornata avremmo fatto quasi 20 km a piedi nella parte meridionale di Mannahatta, l’isola dalle tante colline. Siamo annebbiati ma curiosi. La ragazza all’ingresso cerca il mio nome su un elenco cartaceo, come ai tempi in cui si entrava in disco in lista, e il mio nome c’è. Simon? Yess!

Entriamo e la luce rossa e soffusa del club ci avvolge dolcemente. Ci fanno accomodare a bancone, come richiesto. La Russell è una bomba jazz, riempie il locale con la sua voce calda, e la sua band l’accompagna egregiamente. L’atmosfera del locale è onirica, i tavoli sono al completo e altrettanto i bar seating. Beviamo vino californiano e assaggiamo un ottimo cocktail di cui non ricordo il nome, i barman sfilano di corsa e versano incessantemente, sembrano seguire il ritmo del jazz.

E’ una situazione che ho sempre sognato, godermi un concerto simile con Francy in un locale tanto denso di storia musicale. Ed è stato esaltante, un insieme di sensazioni che non dimenticherò. Se fossi newyorkese, farei incetta di eventi simili. E’ uno dei risvolti eccezionali di cui gode chi abita qui, uno dei tanti.

Gli stimoli non hanno fine in questa città, e non appena il concerto termina ci troviamo immersi in Times Square, che sembra un acquario avveniristico. Nuotiamo nella folla come pesci fuor d’acqua, i mega schermi illuminano il viso di Francesca di ogni colore. La mia ragazza sembra Alice nel paese delle meraviglie, oppure Dorothy nella città di smeraldo. Continuiamo a fluttuare senza peso nella bolla illusoria in cui ci troviamo dalle prime luci del mattino, sembra uno dei sogni di Lynch e la paura è soltanto quella di potersi svegliare, prima o poi, e di scoprire che nulla è come sembra.

D’un tratto torniamo in noi, come se la maga dell’est avesse rotto l’incantesimo che ci teneva al riparo della realtà, ma è solo la folla che cresce e che preme, fino a trascinarci verso sentieri meno frequentati, che ci condurranno a casa dopo una giornata che somiglia a un’epopea. Questo giorno, visto dagli specchietti retrovisori della notte, pare una vita intera.

Oggi abbiamo iniziato ad amare New York, e le siamo grati per tutto quanto ci ha concesso di vivere in poche ore. Francy oggi si è sbilanciata, e l’ha definita “strepitosa”. E’ proprio così, non esiste aggettivo migliore, New York è strepitosa. Ne parliamo a letto, la sentiamo ancora pulsare, poi mi addormento, o perdo i sensi. A un certo punto sento palleggiare, la pallina rimbalza come un mantra fra le mie sinapsi in dormiveglia, chiedo a Franci chi mai si sia messo a giocare a tennis in strada, poi mi giro, lei dorme, ci sono gli US Open in tv. Realtà e immaginazione sono indistinguibili nella città dei sogni.

6 DAYS IN NEW YORK MezzoSogno di finestate a puntate

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DAY 1

Venerdì 1 settembre, 4e15 del mattino. Io e Francesca ci svegliamo, ci muoviamo con passo leggero, ci vestiamo senza far rumore e usciamo alla chetichella, come due ladri, ma in casa propria. Il bottino è la libertà di un viaggio a New York, un viaggio solo per noi, che siamo innamorati da diversi anni degli Stati Uniti. Dopo un paio di lustri di viaggi in famiglia, i bambini resteranno a casa con nonna Simonetta per una settimana scarsa. E’ un fenomeno senza precedenti, ma dobbiamo rendere omaggio ai nostri 25 anni, e pensiamo di meritarci questa fuga a due, nonostante quel lieve senso di colpa che poi svanirà in un battito d’ali di boeing.

Alle 5 usciamo, è ancora notte in realtà. Il viaggio in macchina per Roma è tranquillo, troviamo rari frammenti di traffico pendolare al GRA. Alle 8 chiamo il numero del Car Valet, riferisco che sarò in sosta breve per la consegna del mezzo entro un quarticello, e il tizio scoppia a ridere perché probabilmente il mio slang marchigiano possiede risvolti comici insperati. Mi saluta dicendo: “t’aspettamo ar parcheggio, Quarticè”, e ride di gusto. Questa cosa mi piace, è di buon auspicio, io godo nel far ridere la gente, è un fenomeno che mi procura enorme piacere da quando ero bambino, e quando capita di far ridere qualcuno senza volerlo, la soddisfazione raddoppia. Arriviamo al parcheggio, mi dichiaro subito: “Ciao, sò Quarticello”, lui ride e risponde che si, gli avevo detto un quarticello, ma poi ho tardato. Non gli spiego che a Roma non azzecco mai la via per il T3, che sta agli arrivi, e non alle partenze, e io lo so bene ma non la prendo mai lo stesso. “Ahò ma andate a New York e nun ve portate gnente?” E’ la battuta con cui ci salutano prima di rapire Zelda e portarla chissà dove. La mia teoria è che, visto il costo esiguo del parcheggio, utilizzino i mezzi per qualcosa di losco. Rapine, scambi di coppia, corse clandestine. Auguro intimamente buon divertimento alla mia macchina, che di norma ha una vita abbastanza regolare e monotona, ed entriamo in aeroporto.

I nostri bagagli sono leggeri, quasi inconsistenti, non abbiamo nulla da stivare, tanto meno da dichiarare. Sbagliamo terminal, ma di poco, e in breve superiamo i controlli di routine. Mi sento sospetto senza i figli appresso, e invece sono anche più trasparente del solito. Arriviamo al gate, ci imbarchiamo sul volo American airlines che tarda mezzora per aspettare un gruppo di passeggeri dispersi chissà dove. Verso le 11 decolliamo, mangiamo il mangiabile, beviamo, guardiamo il film di rito e tentiamo di riposare un po’. Annunciano una discreta turbolenza, ma non è nulla di che, e arriviamo addirittura in anticipo. Alle 13e30 siamo al JFK.

I controlli sono più lunghi del previsto, non perché siano diversi dal solito, ma perché c’è molto meno personale rispetto alle altre volte, e la fila ristagna, nonostante una buona organizzazione. Osservo l’impiegato delle dogane di origine nipponiche che fa il suo lavoro, controllo impronte digitali, controlli fotografici, attesa riscontro e timbro sul passaporto, apposto con una sorta di rigetto giustificato, considerate la fila di visitatori da vistare e la prassi che l’uomo dovrà ripetere per ore dentro a un gabbiotto identico a tutti gli altri gabbiotti. Un lavoro duro e ripetitivo, a maggior ragione perché il ruolo non consente di familiarizzare con nessuno a parte il proprio device. Quei loculi e la trafila disumanizzante mi riportano ai sogni di Sam Lowry, al povero Buttle confuso col “terrorista” Tuttle per colpa di un insetto, ai mezzi uffici in serie del ministero dell’informazione, al mondo assurdo che Terry Gilliam dipinse in Brazil, e che tanto inizia a somigliare al nostro.

Salutiamo il sol levante, e la mia solidarietà svanisce in un attimo. Prendiamo al volo l’Airtrain che dal terminal ci condurrà a Jamaica, una stazione di smistamento da cui partono metropolitana e treni per il centro. Noi scegliamo la LIRR (Long island rail road), un treno che costa poco più della metro ma impiega molto meno tempo ad arrivare a Manhattan. Treno in partenza dal track 2, ci affrettiamo, prendiamo al volo anche questo ma stavolta sbagliamo. Il nostro era quello successivo.

Il treno su cui saliamo è con ogni probabilità il Polar express, ci condurrà al Polo nord, e ciò sembra evidente dall’aspetto del controllore e dalle movenze magiche con cui bucherella i nostri biglietti. Invece a sorpresa ci fermiamo a Grand Central station, e noi alloggiamo proprio sopra Penn station, a circa 2 km a sud ovest. Poco male, non abbiamo zavorre di sorta, il bagaglio è leggero (non leggerissimo, a dire il vero, per colpa dei libri che mi ostino a portarmi appresso), e decidiamo di compiere i primi passi a NY.

Saliamo le scale fino in superficie e subito New York è ovunque intorno a noi. L’impatto è affascinante ma non ci destabilizza, forse perché abbiamo già visitato altre grandi città. O forse perché non si capisce subito cosa sia New York. Ciò che catalizza immediatamente la nostra attenzione è la ragnatela di scale antincendio che s’inerpica sulle pareti dei palazzi più vecchi. Forse immaginiamo Spiderman, o una ragazzina in fuga dalla finestra di casa, oppure l’incontro furtivo di due amanti clandestini. Certo è che quelle scale in un modo o nell’altro scatenano fantasie che arrivano da lontano, dalle piccole tv in cui negli anni 80 scoprivamo l’America e i suoi film.

Percorriamo la quinta verso sud, passiamo davanti alla Public Library e la prima cosa a cui pensa il mio cerebro deformato dal cinema è se effettivamente ci potrebbe stare la nave cargo incagliata sul fondo nella NY sommersa di The day after tomorrow. Il dubbio resta. Alla 33esima giriamo a destra, è l’angolo dell’Empire State Building, il grattacielo più rappresentativo di NY, una sorta di faro per navigatori alla deriva, che adesso quasi non percepiamo ma che poi avremo modo di osservare da ogni prospettiva possibile. Superiamo il Madison Square Garden, e dopo pochi passi siamo al Marriott, l’hotel di Midtown in cui stazioneremo per 5 notti. Ho riflettuto poi sul fatto che questa è con ogni probabilità la permanenza più lunga di sempre in un luogo, per me e Francesca insieme.

La nostra stanza è a un piano comodo ed è un bene perché le attese per gli ascensori si rivelano spesso dilanianti. Lasciamo i bagagli, ci facciamo una doccia, ci vestiamo e ci fiondiamo in strada per assaggiare la nostra prima fetta di grande mela. A un passo da noi c’è l’Edge, il più alto osservatorio esterno dell’emisfero occidentale. Saliamo al quarto piano del 30 di Hudson Yards per prenotare –con il consueto box automatico- la nostra visita alle 19e40. Riscendiamo per fare due passi ad High line, che non è altro che un passaggio sospeso lungo circa 2 km, costruito in luogo di una linea ferroviaria sopraelevata in disuso.

Ci godiamo le prime immagini del quartiere Chelsea da questo luogo particolare: il traffico che scorre sotto ai nostri piedi sembra distante, alcuni scorci sono bellissimi, i palazzi che incontriamo lungo la strada hanno linee ricercate e di indubbio gusto, qui il moderno e l’antico si fondono e confondono senza farsi del male, e così i mattoni rossi e marroni dei vecchi edifici rimbalzano cromaticamente sulle vetrate a specchi dei loro fratelli più giovani creando una corrispondenza di amorosi sensi.

Il problema è che High line d’un tratto si rivela affollatissima, e si cammina a stento, un passo che mal si addice a due mangiatori di strade come me e Franci. Dopo la birra di rito bighelloniamo un po’, diamo un’occhiata all’Hudson che scorre placido oltre una schiera di treni d’argento. I vagoni lasciano rimbalzare sciami iridescenti sui grattacieli circostanti, che controbattono in una sorta di partita in cui la luce si propaga avanti e indietro senza intervalli di sorta. I giocatori palleggeranno fino al tramonto, e solo allora si concederanno una tregua.

Decidiamo di lasciare High line e di scendere in strada, di attraversare a ritroso il ventre di Chelsea, di goderci il quartiere da dentro. E in effetti funziona. Si, è vero, il traffico ora ci tallona, ma questa visione più interiore ci aggrada, sembra più autentica e viscerale.

Torniamo verso l’Edge, saliamo al quarto piano, mostriamo la prenotazione e il pass, che merita una piccola parentesi. NY propone una serie di pass per visitare le attrazioni principali ma anche per accedere ad attività “minori”, e questo strumento consente di risparmiare tempo e denaro. Noi abbiamo scelto il Sightseeing pass, perchè ha una peculiarità rispetto agli altri: la maggior parte dei pass fornisce l’ingresso alle attrazioni per tot giorni, mentre il Sightseeing concede di effettuare un certo numero di attività, a scelta del sottoscrittore, senza particolari limiti di tempo. Questo pass ci ha concesso grande libertà, e lo rifaremmo, se dovessimo avere la fortuna di tornare a NY. Ma torniamo a noi (che tanto poi non torniamo mai nei posti che visitiamo). Entriamo piuttosto rapidamente dato che gli ingressi sono scaglionati, e saliamo in pochi secondi al 100esimo piano.

L’Edge è una terrazza panoramica triangolare sospesa nel vuoto a oltre 300 metri d’altezza, con una piccola porzione di pavimento a vetro. Le vetrate dividono la folla dal vuoto, e per eluderne l’ostacolo si possono salire le scale oltre cui la visuale è talmente pulita e libera da filtri da generare stordimento. Siamo fortunati, il tramonto inizia proprio in questo istante a calare il suo sipario multicolore. Le tinte del cielo limpido di questo venerdì newyorkese mutano intensità davanti ai nostri occhi, Manhattan da quassù è una meraviglia, e io e Francy siamo sbalorditi, perché un po’ te lo aspetti ma poi è effettivamente impressionante ammirare le mille luci di New York da un simile punto di vista. La folla è numerosa anche quassù, ma c’è spazio per tutti, e gli spiragli si aprono e si chiudono con frequenza, lasciando a ciascuno modo di respirare lo stupore di una tale visione. Lo stupore è una sensazione preziosa, lo stupore è vita.

Più la notte invade il proscenio e più mi aspetto di veder sfrecciare davanti a me le auto volanti di Blade Runner, di cui questa scena sembra l’incipit. E’ fantascienza, è un sogno al cloro che rimescola materia onirica e cinematografica, è un luna park a perdita d’occhio, una foresta di sequoie di vetro e d’acciaio, una distesa di luci e bagliori nel buio.

Forse è persino troppo per un viaggiatore come me, che ha visto un pezzettino di mondo ma rimane pur sempre un uomo da saloon, in cuor suo. Le grandi opere dell’uomo di norma mi sovrastano perché non le concepisco, ma sull’Edge la pellicola scorre diversamente e mi concede uno smarrimento ossigenato. Per Franci è diverso, lei hai il terrore delle altezze eccessive, e forse la sua euforia deriva dallo shock di quel terrazzo a precipizio sul mondo, mentre per il resto riesce a gestire lo spettacolo con più classe e disinvoltura.

Ma la fatica inizia a farsi sentire, a prevalere sullo stupore, sono le 22 ormai e quindi le 4 del mattino del giorno dopo per noi. Ergo, siamo a spasso da 24 ore, e il crollo è dietro l’angolo. Scendiamo dalla giostra e decidiamo di mangiare due piatti di verdure miste in uno dei market in cui ci si può anche sedere. Usciamo di scena in dissolvenza rapida, le fauci del Marriott ci fagocitano, in camera perdiamo i sensi in pochi istanti, nel silenzio ovattato della perdita di sè.

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Cap.8 – The end

Venerdì. Scappiamo dalla casa mobile di Santiago do Cacem senza rancore, proseguiamo verso nord infilandoci nella striscia di terra e sabbia che insiste davanti Setubal. Lungo la strada incontriamo paesini anonimi, ma di uno mi colpisce il nome: Deixa o resto, ovvero Lascia il resto, un invito curioso per una cittadina, che mi porta indietro negli anni al primo viaggio negli Stati Uniti, quando io e Francesca incrociammo un paese chiamato Truth or consequences, esattamente fra Las Cruces ed Albuquerque, in New Mexico. Sono nomi che non si dimenticano più, per quanto poi la memoria si fermi lì.

Arriviamo al mare e visitiamo due spiagge: praia da Malha da Costa e praia da Costa da Galè. Qui la sabbia è bianca e finissima, il mare più caldo, le acque caraibiche. Tutto bello, tutto selvaggio, ma mancano le infrastrutture utili a spezzare un po’ la monotonia della spiaggia, per chi, come noi, non riesce a stazionare in spiaggia senza far nulla oltre il minimo indispensabile. Così ci facciamo due passi che diventano duemila per percorrere la striscia di sabbia fino all’estremo settentrione, dove troviamo la più frequentata praia da Troia Galè.

Questo luogo merita una riflessione, perché al di là della mancanza di ogni tipo di servizio, a ridosso di queste splendide spiagge è in corso una cementificazione selvaggia, ma di lusso, tanto da far pensare che nel giro di pochi anni queste spiagge saranno appannaggio di pochi. Già ora l’ingresso è suddiviso fra owners e visitors, un ragazzo segna il numero di quanti entrano ed escono, quasi sia in corso un’indagine statistica utile a rilevare il flusso effettivo di persone in loco. Tutto lascia presumere che la speculazione edilizia in essere produrrà un piccolo paradiso per pochi eletti, perché la zona si presta ed è posizionata in modo strategico.

Mandiamo in frantumi la monotonia di quella bellezza illusoria e apparentemente virtuale, dato che le spiagge sembrano quelle di Valerian, un film/videogame che mi è capitato di vedere coi bambini, e ci mettiamo alla ricerca di un’altra spiaggia o di un bosco o di una possibile via di fuga. A pochi passi dal parcheggio c’è un traghetto già pronto a salpare per Setubal. Venti minuti e siamo di là. Sbrighiamo alcune urgenze e ci fermiamo a pranzo in una trattoria che pare il Boschetto di Diego. Mangiamo in questa allegra baraonda di cui inizialmente non comprendiamo i meccanismi e poi ci dirigiamo verso la nostra ultima tappa, che è un camping di bungalow immersi nel parco naturale di Arrabida. Il posto è perfetto per noi, decidiamo di fermarci lì e goderci la natura, l’ultimo tramonto portoghese e un bel piatto di pasta.

Sabato. 5 del mattino. E’ ora di andare. Restituiamo la macchina, imbarchiamo il bagaglio, stavolta va tutto liscio, a parte le file bibliche cui ci costringe Ryanair sia in fase di imbarco che di ritiro bagagli. Di voli ne abbiamo tanti sulle spalle, ma i due atterraggi di questo viaggio non sono stati dei migliori, forse a causa del vento. Scendiamo a Bologna e ci aspira un caldo soffocante cui non eravamo più abituati. La cappa della grande pianura termina all’altezza di Rimini più o meno. Il cielo si fa limpido e l’aria più fresca. Mentre guido non faccio che pensare alle prossime opzioni di viaggio, a dove puntare il dito sul mappamondo, a cosa sognare nei prossimi mesi per respirare bene e mantenere una prospettiva profonda. Qualche idea credo di averla già

Chiudo con un breve ma significativo resoconto finale, valido per ciascun membro del viaggio, eccezion fatta per poche sporadiche sortite di Irene sulla mia schiena:

km percorsi a piedi in 15 giorni: 113;

km percorsi in bicicletta a Lisbona in una giornata di sole: 34;

km percorsi in automobile sul territorio portoghese in 11 giorni: 2135.

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CAP.7 – Algarve – Sarges – Praia de Dona Ana – Praia Beliche – Praia Marthinal – Praia Amado

Apro il capitolo con una nota introduttiva sull’Algarve, premettendo che no, non sono un patito del mare. Prediligo altri tipi di ambienti naturali di norma. Ma non puoi non visitare l’Algarve, se decidi di girarti il Portogallo da nord a sud. L’Algarve è allegria pura, soprattutto nella parte più occidentale e selvaggia, dove si possono godere spazi immensi e persone speciali, che trasmettono energia positiva. Un luogo per cui le immagini parlano più e meglio delle parole.

E’ una terra costantemente sferzata da venti impetuosi, che insinuano ovunque la sabbia finissima ma coriacea, producendo un effetto simile al ticchettio martellante di una tempesta di neve e ghiaccio in alta montagna. Queste coste in alcuni frangenti non hanno nulla da invidiare alle scogliere sudafricane o irlandesi, di cui probabilmente rappresentano la giusta miscela. Il taglio nettissimo, le forma allungate, la maestosità, e poi le immense spiagge di sabbia sono elementi ricorrenti.

L’acqua è spesso freddissima, la temperatura atmosferica è godibile come del resto nel resto del Portogallo, ma qui il sole sembra stendersi e deflagrare sopra ogni cosa, fino a divorare in modo famelico ogni millimetro di superficie disponibile. Sole e vento spingono il viaggiatore a godersi un territorio a tratti ostile da punti di vista privilegiati, siano essi grotte, baracche, ristorantini, o caleidoscopici chiringuitos, che somigliano a visioni sciamaniche nel momento stesso in cui entrano nella dimensione dei ricordi.

Mercoledì. Il gestore del b&b Andmar è un ragazzo gentilissimo e ci fermiamo spesso a fare due chiacchiere con lui. La colazione che propone è squisita, i prodotti sono freschi e variegati, la salsa guacamole è da urlo, e non manca una doggy bag da portare in spiaggia per pranzo. Per la prima mattinata in zona scegliamo due calette sotto Lagos, molto belle e ricche di passaggi da perlustrare.

Passiamo ore piacevoli a praia de Dona Ana, facciamo il bagno, chi più chi meno, ma non reggiamo il sole del sud e alterniamo spiaggia e chiringuto sia nel pomeriggio che il giorno dopo, girovagando per spiagge stupende, come Beliche e Martinhal. Visitiamo il faro di Cabo de Sao Vicente e ci infiliamo in qualche allegra bottega in zona, dove ognuno di noi si concede un piccolo acquisto.

Concludiamo il nostro tour marittimo a Praia Amado, la più bella in assoluto fra quelle visitate, per l’atmosfera rilassata che si può respirare a pieni polmoni da quelle parti. I surfisti punteggiano l’oceano in quel disordine organizzato che è difficile comprendere per noi profani. Da lontano sembra un branco di foche, poi li vedi che galleggiano e si barcamenano e chiacchierano leggeri in attesa dell’onda giusta, col sole enorme a campeggiare alle loro spalle e il vento che domina ogni recesso ed agita il mare.

Poi persone e cani che vagano senza una direzione precisa, un po’ come il vento, bimbi che giocano e si rotolano, il blu intenso dell’Atlantico che quasi stordisce per la sua vastità. Il chiosco in cima al promontorio, in cui regna la felicità. Tutti ridono o sorridono, dai baristi agli avventori più o meno trasandati che si alternano a bancone alla rinfusa. Qui sembra non esistere alcuna forma d’ansia, qui non sembra esserci domani, è un oggi eterno, la cui consistenza, forse effimera, è dettata dal panorama che incanta e chiude chiunque dentro la bolla delle possibilità infinite. Nulla è precluso, forse nulla serve.

Mi piace immaginare le persone ad Amado -tuttora e sempre- intente soltanto a divertirsi e parlare di niente, di quel niente così pieno da contenere verità oceaniche. Finito l’incanto, urge la nostra contingenza che impone di proseguire verso nord. Ci attende un bel posto ma una casa mobile assai fatiscente, da cui ci affrettiamo a togliere le tende in fretta, l’indomani.

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Cap.6 – Zezere – Evora – Il set- Il Mago di Beja – As Roma – Albufeira – Portimao – Benagil – Piratas – La crisi – Vila do Bispo – Sagres

E’ lunedì , ci svegliamo a Manteigas di buon mattino e procediamo in macchina verso la Valle do Zezere, una delle più profonde valli glaciali d’Europa. L’ultima traccia del glorioso regno di ghiaccio è per l’appunto il Rio Zezere, un fiumiciattolo che trasporta acqua purissima a 5-6 gradi, e che da qui percorre ben 200 km prima di confondere la propria anima con quella del Tago e finire assieme a lui nell’Oceano Atlantico.

Abbandoniamo la macchina senza nome nel nulla e facciamo circa 5 km a piedi verso fondo valle, senza forzare. Non c’è nessuno in giro, a parte un’escursionista solitaria. Giochiamo più che passeggiare. Proviamo a entrare nel fiume, il freddo è glaciale e doloroso, ce la ridiamo, improvvisiamo una gara di resistenza e alla fine la spunta Francy in un modo che non esito a definire eroico.

Terminati i giochi olimpici di Zezere, si parte in direzione Evora, città bianchissima e assai accogliente, in cui incrociamo il secondo set cinematografico del nostro viaggio (il primo era uno spot nei pressi di Praca do Comercio a Lisbona): in una piazzetta si gira un film di cui non comprendo il titolo. Una macchina è incastrata nel fianco di un pullman a seguito di un incidente mai avvenuto, e un gran numero di poliziotti affronta dei malviventi, per motivi oscuri.

Dopo l’ultimo ciak è divertente osservare guardie e ladri festeggiare insieme, con tanto di bollicine e cori da stadio. C’è sempre un lieto fine, oltre la fine. Gelato per i bimbi, vino fresco per noi e di nuovo via in macchina. Dopo un’ora siamo a Beja, cittadina dell’entroterra ormai prossima all’Algarve. Mangiamo cibo paradisiaco nella taverna Pulo do lobo, il Mago di Beja, che per il resto ci pare una cittadina dimenticabile.

Martedì partiamo presto perché alle 12e30 dobbiamo trovarci a Portimao, dove ci attende una gita in motoscafo fino alle grotte di Benagil. Siamo nei tempi, il taglio dell’escursione è oltremodo turistico, ci sembra tutto troppo facile, quasi banale, e noi da bravi e sprovveduti lupacchiotti ci infiliamo una visita al ritiro della Roma, che si trova ad Albufeira proprio in quei giorni. Non si può resistere al fato, e arriviamo alle 11e30 allo stadio municipale, dove il pullman della magica svetta da lontano, dominando l’orizzonte. Attendiamo, chiediamo informazioni, e alla fine spuntano giocatori e allenatore.

L’impatto è emozionante, io sono il peggiore fra tutti i presenti in loco quanto a esagitazione, ci facciamo qualche foto, parliamo coi ragazzi e col mister, ne stanno per uscire altri ma è tardissimo, dobbiamo andare, tipo immediatamente, e sgommiamo via in una nuvola di sabbia da cui comunque riesco a scagliare un fragoroso “Forza Roma”, che rimane sospeso a mezz’aria per qualche istante in una sorta di vignetta animata.

Arriviamo d’un soffio a Portimao, il tizio all’accoglienza scorre il suo schermo e mi domanda: Simòn? E io: si, come lo sai? E lui: perché mancavi solo te! Ah ecco. Ci accodiamo e come in ogni fila le nostre ragazze scompaiono per le loro necessità, e io e Gim stiamo lì ad aspettarle come due bachalau. A proposito, ciò è accaduto sistematicamente dal primo all’ultimo giorno di viaggio. Attendere le ragazze nei momenti cruciali è consuetudine per noi maschi. Mi ricordo per una spennata di prendere la xamamina, che dai tempi del travaglio di stomaco davanti alle Cliff of Moher è mia fedele compagna in mare aperto.

Fra i nostri accompagnatori c’è una ragazza parecchio matta ed estroversa. Grida a squarciagola al passaggio di un bel galeone (“Ehiiii Pirataaaaas!”), e sostiene di essere la moglie di Jack Sparrow. E’ plausibile, a onor del vero. Si rivela ben presto una bella persona, appassionata del suo lavoro. Ci racconta tante storie e ci consiglia dei luoghi idonei ai bambini. L’escursione è canonica ma divertente, piena di scorci mozzafiato e di rocce interessanti, che in molti casi somigliano ad animali o mostri di foggia varia, in altri ci ricordano l’antro nascosto di Willy l’orbo e i tanto idolatrati Goonies. Ci bagniamo completamente a ogni virata, e Gian Marco ha persino il coraggio di tuffarsi in mare aperto per poi tornare a bordo in stato di congelamento nello spazio di un nanosecondo. Avremmo potuto anche venderlo a tranci in un mercato del sud a quel punto, ma decidiamo di tenerlo con noi.

Tornati a terra, andiamo a scoprire una spiaggia lì nei pressi. In mare ci sono dei gonfiabili che i bambini dovrebbero raggiungere nuotando per parecchi metri. Gim è un toro, se ne frega del freddo e della corrente avversa, nemmeno ci pensa, prende e in poche bracciate è già là a giocare.

Iri entra in crisi, l’acqua è fredda, si arrabbia, è furiosa, vorrebbe che qualcuno portasse i gonfiabili a riva probabilmente. Noi le prendiamo un’aranciata, un gelato, le promettiamo una casa nuova e tutta una serie di benefits, nonché la risoluzione di alcune criticità di portata planetaria.

Superata la crisi, partiamo alla volta di Vila do Bispo, paesino vicino Sagres, nell’estremo ovest dell’Argarve: frammenti di tramonto in spiaggia, vento che soffia da e verso tutte le direzioni, sopa do dia e pesce per cena, deliquio di gruppo nel grazioso appartamento di turno, e buonanotte.

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5 – Quinta de Cumieira – Vila Real – Casa de Mateus – Alvao National Park – Arouca – Passadicos do Pavia – Esposa – Manteigas

E’ già venerdì, la prima settimana è andata, siamo (o crediamo d’essere) viaggiatori e le nostre soste sono sempre brevi, faccio una doccia e ripartiamo. Devo guidare parecchio, la strada oggi non è il massimo, e nemmeno io. Arranco pesantemente, i miei sensi di ragno non sono i soliti al volante, percepisco la ragnatela del traffico e la strada in modo distorto e i miei navigatori mi supportano guidandomi e annaffiandomi al bisogno, e dopo un paio d’ore arriviamo in un paradiso intitolato Quinta de Cumieira, una masseria dell’800 con quattro stanze per gli ospiti. E’ un posto probabilmente incantato, di certo bellissimo, dove solo una lieve brezza rompe il silenzio inducendo il viandante al riposo e al sonno. Non sembra vero d’essere qui, dopo uno sforzo simile.

Le vigne circondano ogni cosa e ci avvolgono, un passaggio verdeggiante fra di esse conduce a una piccola piscina. L’ombra di un nocciolo ci tiene al riparo dalla luce e dal mondo fuori, la febbre scende ma non passa, però quel luogo gradualmente mi guarisce, cullandomi in una dimensione di pace rara. I gestori vanno e vengono, ci sono e non ci sono, ogni loro apparizione è discreta, estemporanea. Assaggiamo i loro vini, ci rilassiamo, i bambini trovano in questo luogo rurale e idilliaco una dimensione che incredibilmente li acquieta. La natura ci asseconda, e noi assecondiamo lei.

Passiamo ore nella quinta, eccezion fatta per la visita alla Casa de Mateus, una residenza settecentesca cinta da una flora rigogliosa e variegata, e per una piccola sortita alla cascata de Galegos da Serra, nel parco di Alvao: non è nostra abitudine stazionare tanto a lungo nelle strutture in cui pernottiamo, ma questo sembra il posto ideale per infrangere alcune regole di viaggio.

Quinta de Cumieira e le sue vigne raccontano storie antiche, storie di lavoro e di fatica, di vita e di benessere bucolici. Il tempo sembra essersi fermato perchè non c’è traccia delle sovrastrutture della modernità, eppure è chiaro che qui c’è tutto ciò di cui un essere umano abbia bisogno per vivere bene. Forse all’ingresso un filtro invisibile trattiene e tiene lontane le impurità e le tempeste mediatiche che oltre il recinto si diffondono senza ritegno e interruzioni. Forse questo luogo è una parentesi spazio-temporale, un buen retiro utile a ritrovare e ricomporre se stessi.

Dentro la quinta c’è una fonte di acqua fresca e purissima, arrivano gli amici dei gestori, si scambiano saluti e abbracci, si riforniscono. La loro posa, le movenze, e le parole, che pure non comprendo, sono di un’affettuosità reciproca e musicale che mi colpisce intensamente, infondono tranquillità. Decidono di fermarsi a cena, e anche noi, a pochi passi da loro. Stiamo davvero bene, tanto che quello stare bene si può sintetizzare, distillare e chiudere nella boccetta magica dei ricordi da portare sempre con sé.

La quinta ci regala due giorni magnifici, non la dimenticherò, come il succo delle arance che il gestore coltiva vicino a un rio che non vediamo, tanto è estesa la proprietà di questi signori d’altri tempi, o come la mano esile della mamma 92enne dei gestori, che ci saluta prima di partire. Se ripenso all’anziana signora, l’immagine che mi restituisce la memoria è quella della spassosa madre di George Jefferson, il mitico re delle lavanderie newyorkesi.

Domenica. Ci aspetta Arouca e il Passadicos che costeggia il fiume Pavia per 9 km. La strada per arrivarci è stretta e tortuosa ma panoramica, è divertente guidarla. Un mix fra le anse maestose che condussero me e Fra a Las Alpujarras in Spagna, più di 15 anni fa, e gli altopiani della Mesa Verde in Colorado, dove lasciammo il cuore nel 2010. Dopo anni di viaggi, i luoghi si mescolano, si confondono, si sovrappongono come se gli uni sfumassero per poi dissolversi negli altri, un sito te ne ricorda un altro o tanti altri per i motivi più disparati, e forse fa bene Francy a ritenere di aver fatto un solo grande viaggio che li comprende tutti, in questi anni e negli anni a venire, dato che il futuro del viaggiatore è comunque segnato.

Ad Arouca c’è uno dei ponti sospesi più lunghi d’Europa, ma qualcuno in famiglia soffre di vertigini da un po’ di tempo, e per solidarietà rinunciamo. Il percorso del Passadicos do Pavia è bello e articolato ma alcune salite sono faticose, ci impieghiamo 3 ore, i bambini sono esausti ma non deludono nemmeno oggi. Le loro possibilità e la loro prospettiva si allungano ogni giorno, sotto i nostri occhi. Acquistano indipendenza, iniziano a capire il valore del nostro modo di viaggiare (affascinante, ma faticoso), cominciano a intuire che tipo di viaggiatori vorrebbero e potrebbero essere, smaltiscono ogni forma di timidezza ma conservano il rispetto (più o meno), sanno quando è il momento di dare tutto e quando è tempo di ricaricarsi, imparano l’arte di arrangiarsi e le usanze dei popoli, lussi che gli sarebbero preclusi se in questi anni li avessimo rinchiusi nei villaggi in cui spopolano forme di turismo omologato e artificiale.

Un taxi pronto all’uso ci riporta alla macchina. Durante il tragitto, sullo schermo dello smartphone dell’autista compare la scritta “Esposa”. Giusto uno squillo. Sono curioso, e il signore di una certa età mi spiega che lui vive proprio sopra la strada, e che la moglie gli fa uno squillo quando lo vede passare. Mi racconta che vivono una bella vita, che l’aria è pulita e il cibo molto sano. Non stento a credergli. Ci ripuliamo, tento di fare pipì nel nulla, fra alberi e arbusti, ma come sempre quando tocca a me passano carovane di mezzi di ogni tipo, parate commemorative chilometriche e persino le frecce bicolori portoghesi.

Mi ricompongo, ripartiamo, abbiamo parecchia strada da percorrere in direzione Manteigas, un villaggio incastonato nel cuore della Serra de Estrela. Gim e Iri si sono meritati l’ipad e un bel film per trascorrere le oltre due ore di tragitto. Arriviamo tardi, il tempo di cenare e mangiare di nuovo benissimo. Forse troppo, rispetto al solito. Guardiamo le stelle e la luna, che gioca a nascondino con la valle, prima di sprofondare nel sonno profondo e scuro della montagna.

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4- Las Dunas de Sao Jacinto – L’aereo -Porto – Caldelas – Peneda Geres National Park- La febbre

E’ mercoledì mattina e dopo una colazione trascurabile prendiamo il traghetto che in pochi minuti ci condurrà nei pressi della Reserva Natural das Dunas de Sao Jacinto, dove ci concediamo una passeggiata di qualche km e un pigro spuntino in spiaggia. Il meteo è strano, per lo più nuvoloso, il sole fa capolino di rado, fa fresco, anzi no.

Nulla di speciale, l’atmosfera induce alla sonnolenza, ma ciò che rompe la calma piatta delle 10 o giù di lì è un rumore in aumento costante dal cielo e un grosso aereo grigio che squarcia il cielo e vira proprio sopra le nostre teste, veramente troppo vicino per chi non sa che a pochi passi da lì ci sono un aerodromo e la pista d’atterraggio di questi giganti dell’aria. Sono preso dal panico, perchè l’aereo sembra fuori controllo, penso stia per finirci dritto in testa, cerco Irene che era vicina a me ma non la trovo, non vedo nulla in realtà. Ecco cosa dev’essere il panico, che probabilmente non avevo mai sperimentato prima in tale misura, se non forse quando anni fa io e Francesca ci trovammo in macchina – all’interno dell’Addo Elephant park- davanti a un grosso esemplare maschio di elefante africano, peraltro incattivito dal picco di testosterone.

All’epoca, seguendo le istruzioni che i rangers ci avevano fornito all’ingresso, dopo aver notato segnali assai poco rassicuranti che lasciavano dedurre che l’elefante fosse in pieno must, procedemmo in retromarcia in modo quasi impercettibile finchè il gigante trovò uno spiraglio per defilarsi fra gli arbusti e lasciarci passare. Se mi concentro, sento ancora il battito del mio cuore e il respiro bloccato dall’emozione e dalla paura di quegli istanti.

Ma torniamo al presente, fra le dune di Sao Jacinto. Al terzo passaggio aereo mi abituo ma non troppo, dato che non ho nemmeno la prontezza di filmare quella scena tanto cupa quanto profondamente Dunkirk. O meglio firmo un decollo di cui si percepisce soltanto il boato. Ho poi pensato a quanto dev’essere spaventoso subire un vero attacco aereo, agli uomini che bombardano altri uomini, a quanto siamo bravi a generare terrore, a quanto siamo infinitamente stupidi in certi casi. Potremmo dedicarci ad ammirare e riprodurre la bellezza del cosmo, ma il lato oscuro prevale, il più delle volte.

Riprendiamo la macchina e dopo un’ora siamo a Porto dove trascorriamo il pomeriggio: dopo qualche minuto di terrore in cui perdiamo la bussola e il controllo e ci ritroviamo incastrati in vicoli tanto angusti da sembrare inestricabili, siamo finalmente in giro per questa splendida città che si sviluppa sulle rive del fiume Douro.

Porto è bellissima, per quanto eccessivamente turistica, visto il proliferare incessante di locali di ogni tipo, che si susseguono l’un l’altro senza respiro. Per il resto, rimaniamo incantati dalla città, dai suoi colori sgargianti e dalla luce che la illumina in un modo unico. Posso ancora vedere e toccare quella luce tanto rara. Il clima è fresco e godibile e la gente distesa e apparentemente serena.

Dai colli dove riposa quieto il Jardim de Morro si può godere una vista magnifica sulla città, mentre il sole affonda dolcemente sul Douro al tramonto. Gian Marco trova un completo sportivo e una palla che gli piacciono. E’ la svolta. Non se ne separerà più fino alla fine del viaggio.

All’imbrunire ci dirigiamo verso Caldelas, un paesino sopra Braga, situato in posizione strategica per visitare i parchi a nord. In paese sembra stia per esordire una festa che però non avrà mai luogo. Sembrano in corso eterni preparativi e messe a punto, forse i paesani si preparano da anni e nel frattempo la popolazione è invecchiata tanto da aver perso la necessaria verve. Nulla accade, almeno per quanto ci è dato vedere. Ceniamo ottimamente presso la Churrasqueira, dove una squadra di camerieri gentilissimi si occupa di noi con cura. Anch’essi sembrano in attesa di qualcosa o sul punto di fare qualcosa, ma qui tutto rimane perfettamente identico a se stesso oggi, domani, e sempre. Forse Caldelas è la fortezza di Buzzati, e a valle dilaga il deserto dei Tartari.

Non mi rendo subito conto della fatica accumulata in giornata, Porto mi è probabilmente fatale e la mattina del giovedì mi risveglio malconcio, ho sintomi influenzali importanti ma non ci faccio caso perché non sono mai stato male in viaggio, eccetto forse quaranta anni fa dopo aver visitato la sommità della Torre Eiffel con la mia famiglia.

Me ne frego, ordino una spremuta d’ibuprofene e andiamo verso il Parco di Peneda Geres, dove scegliamo un bel trekking nel bosco, costeggiamo un lago e saliamo e scendiamo per sentieri non perfettamente segnalati. I parchi non sono ancora organizzati a dovere, in alcuni casi mancano info point che sappiano fornire indicazioni in inglese. Manca un po’ di precisione nelle indicazioni, che risultano spesso sommarie. Manca in particolare uniformità nella comunicazione per quanto riguarda la possibilità di avventurarsi coi bambini in determinati siti, tanto che ti viene voglia di scommettere, ma entro i limiti della ragionevolezza.

Tuttavia il potenziale di Peneda Geres ci è parso notevole, grazie alla vegetazione particolare e coloratissima, che mi ha ricordato in senso pittorico la parte canadese del Glacier National Park, in Columbia britannica per la precisione, dove il giallo e il viola illuminavano un paesaggio di dimensioni ben più ampie di questo. Continuiamo a camminare fra boschi e arbusti, sbagliamo sentiero un paio di volte, finchè un giovane nord europeo ci indica la via del ritorno. Sudo freddo ma ho la sensazione di aver smaltito le scorie influenzali. Dopo qualche ora siamo in un chiosco nel verde, dove decidiamo di portare i bambini in una piscina nei paraggi per farli riposare un po’.

Mi addormento avvolto dal mio fedele smanicato North face, probabile attuale simbolo pro tempore della mia individualità tanto sensibile al clima, ma qualcosa non va. Ho la febbre alta (alta per me), scappo in albergo, mi perdo in un delirio d’ombre che mi assalgono, mi difendo goffamente dalle staffilate influenzali con uno scudo di paracetamolo, affronto demoni immaginari e cerco il santo Graal come lo stralunato Parry (Robin Williams) de La leggenda del re pescatore, poi provo a cenare coi miei ma è solo un’allucinazione, anche quella.

La notte è una doccia di sudore e incubi, di lenzuola subacquee che mi avvolgono come viscida poseidonia oceanica, di visioni intermittenti come il sonno, che si interrompe puntualmente ogni ora, nemmeno fossi intrappolato nel loop esistenziale di Strade perdute. Attendo l’alba con ansia.

Robert De Niro – 80 anni spesi bene

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C’è poco da dire su questo mostro sacro del cinema e dell’arte, e le parole lasceranno presto spazio alle immagini, perché nulla può raccontare la storia di De Niro meglio delle immagini. Chiunque ami il cinema non può non aver sognato grazie a lui, i personaggi che ha interpretato sono tanti e tali da ritrovarlo ovunque, nei vostri film preferiti, nel vostro immaginario, in quello che potremmo definire mito. Robert De Niro è senza dubbio un mito del nostro tempo, un’icona capace di adattarsi negli anni ai ruoli più disparati, e di farlo con tali classe, maestria e risolutezza da lasciare stupefatti. I più importanti registi del pianeta lo hanno scelto e lo scelgono da 60 anni a questa parte, e non potrebbe essere diversamente. Cercherò di onorare questo spazio con la sua presenza, cercherò di riprodurre qui il suo sguardo denso, scuro e penetrante, senza avere la pretesa di aggiungere alcunchè alla grandezza di quest’uomo prodigioso. Tanti auguri Bob, ti amiamo alla follia.

PORTOGALLO ON THE ROAD Racconto di viaggio a puntate

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3- CABO DE ROCA, WACKY RACE A SINTRA, L’OVERLOOK, NAZARE’, OBIDOS E LA TRATTORIA FANTASMA DI AVEIRO

Lunedì, ritiriamo la macchina in Praca do Restauradores, dove sbrighiamo le solite pratiche estenuanti di noleggio presso Ok mobility, su cui il giudizio rimane tuttora sospeso. Probabilmente non la consiglierei . Il Portogallo si rivela subito facile da guidare, le strade sono buone, esordiamo visitando Boca do Inferno e Capo de Roca, il punto più occidentale dell’Europa continentale, luogo significativo e scenografico.

Poi tentiamo la sorte per Sintra. Non siamo in formissima, ne ignoriamo i motivi, e Sintra è un’altra trappola per turisti. Le persone ci arrivano a cataste, le automobili sbuffano una sull’altra, sembra di partecipare alla Wacky race, ma mancano Peter Perfect e Penelope Pitstop, non incrociamo nè il diabolico coupè né la multiuso di quel genio di Pat Pending. Entrare o trovare parcheggio è opera da contorsionisti kazaki a riposo, e non possiamo permetterci un altro errore, e per quanto siamo consapevoli di rinunciare a una delle principali attrazioni portoghesi, cerchiamo -con fatica- di uscire dal girone infernale che circonda le mura del sito e decidiamo di farci raccontare Sintra da Francy, che l’ha già visitata anni fa.

Filiamo via verso Nazarè, nelle cui acque un lunghissimo canyon sottomarino profondo fino a 5 chilometri garantisce ai surfisti i più grandi cavalloni al mondo. Quando arriviamo il mare è mansueto, e piccoli surfisti in erba assaggiano onde docili, facili da domare.

Ammiriamo un tramonto dirompente prima di cenare a Vinha d’alhos, una trattoria di Valado dos frades, un paesino dell’entroterra che pare il Messico anche se non hai mai visitato il Messico. Qui il gentilissimo gestore di cui ricordo bene il viso ma non il nome ci fa assaggiare una guancia spettacolare. La nostra dimora odierna è a due passi.

Quinta do campo è un‘antica tenuta gestita dal brillante discendente di una storica famiglia portoghese (“I’m the seventh generation of my family, i’m so proud”). Sarà anche uno dei rari gestori con cui riusciremo a parlare in inglese. In proposito, Irene continua a ribadire con forza a chiunque si rivolga a noi -sorridendo del suo sorriso travolgente e sdentato- che possono esprimersi nel modo che preferiscono, ma tanto “noi parliamo italiano”. Insomma, Iri non accetta di buon grado la varietà linguistica che la strada ci concede, nonostante viaggi da quando è in fasce. Eppure ogni idioma possiede una sua musicalità e custodisce la cultura e la storia di un popolo. Forse una quasi settenne non è abbastanza matura per comprenderlo?

Ma torniamo per un attimo dietro le quinte della quinta. I fasti della famiglia del nostro originale amico sono ben visibili nell’arredamento magnificente e negli antichi volumi presenti nella biblioteca da sogno cui consente generosamente agli ospiti di accedere in qualsiasi momento. Chiedo subito di pagare e l’uomo mi dice di rilassarmi, ora sono a casa (“Thiiis is your hooome nooow!”), non siamo in uno di quei posti in cui la gente e le procedure sono automatizzate, in cui tutto è ridotto a documenti carta di credito pin pulsante 2 in ascensore e tanti saluti. No, questo è un luogo in cui una certa disumanità è stata ufficialmente bandita.

Martedì. La colazione è servita in cantina, i cui interni trasudano tradizione e cultura. La maestosità complessiva di questo posto mi rammenta l’Overlook Hotel, senza un motivo particolare. Il mattino ha l’oro in bocca, ma non noto Jack o Danny Torrence aggirarsi per saloni e corridoi, né tantomeno il bancone ammaliante di Mr. Grady, ma Quinta do campo -soprattutto di notte- sembra nascondere storie oscure e imperscrutabili sotto la sua pelle bianca.

Alla fine si paga, perché alla fine si paga sempre, al di là di fughe poetiche e giravolte, e si riparte. Facciamo un passo indietro (attività inconsueta per la mia famiglia) per visitare Obidos, le sue mura e il suo grazioso centro storico bianco e giallo, costellato sovente da botteghe ciocco-artigianali e dal viola furoreggiante delle bougainville.

Il negozio che mi colpisce di più è un’eccentrica orto-libreria, dove ortaggi freschissimi convivono con una nutrita collezione di libri. L’impatto visivo è conciliante e il profumo dei libri si mescola a quello delle verdure.

Maciniamo poi un po’ di km verso nord, facciamo una pausa nella struttura di turno, dove le animelle si divertono in piscina, e poi andiamo a bivaccare sulle sabbie soffici di Praia da Costa Nova, dove noi assaggiamo il vino locale e i bambini saltano saltano come non ci fosse un domani. I nordici fanno il bagno come se niente fosse, come se l’acqua fosse calda, il guardaspiaggia è agitato sul suo quad, il suo fischietto è in fermento, come i marosi che aumentano col passare dei minuti.

Scende la sera e ceniamo da Pelucha, storica trattoria di Aveiro, che in base al romanzo di viaggio di Saramago non era più presente in città, quarant’anni fa. “Quando al viaggiatore viene un po’ di appetito, verso l’ora di pranzo, dai confini della memoria gli sovviene un ricordo. Tanti anni fa, ad Aveiro, ha mangiato una zuppa di pesce che fino ad oggi gli è rimasta nella ritentiva dell’olfatto delle papille gustative. Vuole appurare se i miracoli si ripetano e va domandare dove sia il “Palhuca”, come si chiamava l’osteria dove era avvenuta l’apparizione. “Palhuca” non c’è più, adesso “Palhuca” sta cucinando per gli angeli, o forse per la principessa Joana, sua patrizia, al di là di questo cielo grigio. Il viaggiatore china il capo, vinto, e va a mangiare da un’altra parte”.

Scopro il fatto curioso leggendo la parte del libro dedicata ad Aveiro dopo cena, e mi convinco di aver mangiato in una trattoria fantasma. Continuo a pensare ancora adesso, mentre sistemo gli appunti e scrivo, se sia stata magia o meno, se il Palhuca in cui abbiamo mangiato fosse reale o fosse invece una trattoria ai confini della realtà, nascosta com’era fra vicoli di scarso fascino e una serie infinita di piccoli cantieri e costruzioni decadenti. Che sia stato il frutto della nostra immaginazione? Se tornassimo da quelle parti, la ritroveremmo? Certo, il bacalhau e i camaroes erano veri, e anche buoni, e forse ciò basta per dissolvere le fitte nebbie del mistero. O forse no.

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2 LISBONA

Arriviamo a Lisbona nel tardo pomeriggio per via del volo in ritardo ma anche perché i ritmi portoghesi si rivelano subito piuttosto blandi. Inizialmente non la mando giù, non accetto un sistema che mi pare disfunzionale, reagisco con stizza, un po’ come mi capitò pochi mesi fa a Istanbul, in cui il fenomeno era persino più accentuato. Ma non faccio fatica a trovare il giusto assetto, che mi consente di intuire in modo graduale la forma mentis del popolo di cui saremo ospiti nelle prossime due settimane. Capiremo ben presto che il lato migliore del Portogallo è rappresentato proprio dalla sua gente.

Ci sistemiamo in appartamento nel quartiere di Alfama, valzer di docce e poi usciamo rapidamente verso Baixa e il Barrio Alto, ci concediamo la solita birra propiziatoria d’inizio viaggio, diamo un’occhiata preliminare, passeggiamo senza meta, mangiamo qualcosa, ascoltiamo della buona musica in un locale sotto casa, e poi andiamo a dormire sufficientemente stremati da una giornata che pare un mese, dato il calvario patito in patria.

Sabato. Ci alziamo presto, assaggiamo i pastel de nata in una pasticceria in zona, e poi saliamo al Castello di Sao Jorge, che ci godiamo quasi in completa solitudine, perché gli Alfacinhas (letteralmente, lattughe), ovvero gli abitanti di Lisbona, si svegliano tardi. Il mattino si rivela il momento migliore per evitare sovraffollamenti e spostarsi velocemente.

Lisbona è una bella città, e Alfama è il suo cuore più limpido e autentico, un reticolo di vicoli in saliscendi che nascondono e custodiscono gemme colorate e musicali. “Vediamo Alfama, ma non sappiamo cosa sia. Eppure continuiamo a girare, a salire e scendere senza poterci fermare”. Ovunque ci accolgono sorrisi e kapirinha, e capiamo ben presto che quel sorriso è il marchio di fabbrica del Portogallo, un fattore costante che ci accompagnerà -insieme alla kapirinha- per tutta la durata del nostro soggiorno. Ce la giriamo a piedi, in tram e in bus per tutto il giorno, cerchiamo di capire questa città contorta e attorcigliata su sè stessa, che somiglia alle montagne russe per come sterza impetuosamente e si getta a capofitto in mare, per poi atterrare e riposare placida a bordo oceano.

Di norma sono felice dove l’opera dell’uomo è meno evidente. Ma l’anima di Lisbona è grande, protesa com’è verso l’Atlantico e verso il resto del mondo. Questa città ha un cuore puro, generoso, romantico, somiglia a una sensazione, restituisce il desiderio di scoperta e conquista del popolo portoghese, desiderio che non può non appartenere a chi nasce in un luogo che garantisce una tale prospettiva e una finestra d’acqua di simili dimensioni. L’oceano deve aver rappresentato l’ignoto e un richiamo irresistibile per chi si è spinto al di là del mare, secoli fa.

Lisbona sembra tantiluoghinsieme, e probabilmente è ovunque ognuno desideri sia. Induce il viaggiatore a condividere, elimina il riserbo che regna nel nord del mondo. Ti fa sentire a casa. Soprattutto se si è liberi al punto da non avere un’idea radicata di casa.

Di sera cerchiamo la trattoria di Ti Natercia, la Maria de culo bello de Lisboa, ma troviamo la Velha Taberna. Zia Natercia, una signora assai loquace di una certa età, oggi è chiusa e ci affidiamo ai dirimpettai. Ci accomodiamo per errore, a onor del vero. Avevo scelto Natercia leggendo di lei a casa, e osservando le immagini di quell’umile e accogliente osteria, che non potrebbe non evocare in chiunque abbia avuto un’infanzia niente affatto sofisticata il ricordo di nonne affaccendate e tinelli dalle luci soffuse. Scopriamo poi, quando Natercia si presenta a sorpresa al nostro tavolo, carica di racconti incomprensibili e di gesti affettuosi per Francesca e i bambini, che avremo comunque l’onore di mangiare il suo sublime bachalau, dato che prepara vari piatti anche per la taverna in cui ci troviamo. Inutile ribadire che anche qui abbiamo trovato casa, ma lo scrivo lo stesso. Dopo cena assistiamo alle acrobazie di vari artisti di strada, e come da tradizione ci ritiriamo prima che sia tardi.

Ma è già domenica. Ci svegliamo presto, per muoverci d’anticipo sulla città, che inizierà a stropicciarsi gli occhi e a sgranchirsi le tortuose, affusolate leve un paio d’ore più tardi. Scegliamo la linea retta per il terzo giorno e noleggiamo le bici per costeggiare o forse inseguire il Tago fino all’oceano lungo l’Avenida do Brazil, una ciclabile nuova di zecca che forse si chiama così perché punta verso il Brasile, terra storicamente significativa per i portoghesi.

Di primo acchito assistiamo al degrado della solita periferia urbana, che nei porti spesso è persino accentuato. Gim ne soffre intimamente, pensa che sia inconcepibile che tanti uomini siano costretti ai margini con tale evidenza. Lo capisco, ma non riesco a consolarlo come vorrei, perché so che ha ragione lui. Superati gli ultimi relitti dei bagordi della notte, che in alcuni casi ballano ancora alla grande in qualche angolo sospeso sul molo, si apre un percorso di luce e acqua a perdita d’occhio, che ci condurrà fin quasi a Cascais.

Intercettiamo i mercatini e una parata di cavalieri tambureggianti nel parco adiacente il monastero di San Jeronimo, poi ci fermiamo in una spiaggia semi deserta a saggiare il mare, che è bello ma gelido, e di ritorno compiamo l’errore che al viaggiatore ogni tanto (di rado per fortuna) capita di compiere: pensiamo da turisti e ci mettiamo in fila per visitare il Palazzo di Belem, una trappola di proporzioni cosmiche in cui la prima fila è soltanto propedeutica alla seconda e così via a salire, fino all’ultimo anonimo piano di una struttura di cui sarebbe stato sufficiente leggere la storia e osservare gli esterni.

Devo ammetterlo, la parte esposta della torre ha il suo fascino, procura l’illusione di essere sul ponte di una nave in mare aperto, ma prego il lettore di fermarsi lì, di limitarsi a contemplare quel gioco visivo e di non proseguire oltre, nel caso capitasse da quelle parti. Perdiamo più di un’ora -tempo prezioso per il viaggiatore – e poi pedaliamo di buona lena verso il centro per concederci l’ultima sera in Alfama, dove chiudiamo in bellezza concedendoci una cena di prelibatezze angolane e capoverdiane da Sao Cristovao.

I nostri figli giocano con la figlia di una coppia di ragazzi polacchi, di cui mi colpiscono il sorriso e la spensieratezza. E poi c’è la solita sensazione che non è nuova all’estero, quella cioè che mi induce a pensare che quei ragazzi potremmo essere noi, in versione polacca. Lo so che non siamo esattamente ragazzi, ma voglio concedermi questo lusso dialettico. Fuori dall’Italia ci si rende sempre conto della moltitudine e della varietà infinita di persone e tipi umani, delle innumerevoli caratteristiche, modalità, usanze e abitudini che differenziano gli uomini e le donne e i bambini del pianeta, e si acquisisce la facoltà di mettere in discussione tutto, di non dare nulla per scontato, di capire che il nostro sforzo di pensare, di acquisire certezze o presunte tali, di confezionare verità o presunte tali è una stilla dispersa nella vastità oceanica dei punti di vista.

E’ forse questa la ricchezza principale che si acquisisce viaggiando: si esce dall’orticello, dai sentieri che battiamo ogni giorno, dai binari delle conversazioni convenzionali, e si può dare uno sguardo oltre, laddove è possibile intercettare il flusso incessante delle idee e dei pensieri del mondo.

Ma ora basta divagare. Domani prenderemo la macchina in centro, dovremo essere freschi, ma ci attardiamo ugualmente nei soliti localini, per salutare Lisbona ed Alfama nel modo che meritano.

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1- PROLOGO

“Queste terre costiere sono predilette dal turismo. Il Viaggiatore non è un turista, è un Viaggiatore. C’è una grande differenza. Viaggiare significa scoprire, il resto significa semplicemente trovare”.

Josè Saramago – Viaggio in Portogallo

Formazione: Francy, Gim, Iri e me.

Parto preparato ma non troppo per il Portogallo, felice ma non così eccitato, come spesso mi capita in prossimità di certi viaggi. I bambini sembrano contenti di poter fare una vacanza in maniche corte, dopo un po’ di tempo. Noi adulti siamo più sul chi va là. L’impostazione del viaggio mi soddisfa a metà, in effetti somiglia troppo a una vacanza per certi versi, e l’impressione è che ci sia parecchio da scoprire, si, ma anche tanto che non faremo fatica a trovare. E’ un viaggio semplice, senza particolari punti interrogativi, senza l’ansia di doversi preparare fisicamente o di dover studiare accuratamente il territorio o infine di allestire il bagaglio nei minimi particolari. Ma viaggiare è anche ritrovarsi e condividere con la famiglia lo spazio e il tempo che la quotidianità spesso ci nega. E’ andare lontano per sentirsi più vicini l’un l’altro. E questo, al di là dello spazio, del tempo e dei modi che scegliamo per farlo, non cambia mai. Inoltre è stato un anno faticoso, e per una volta non guasta non doversi caricare di quella sana inquietudine che in certi viaggi si traduce in adrenalina costante. Siamo rilassati, fin troppo direi, tanto da far tardi la sera prima con gli amici, da non lesinare brindisi e abbracci, con le valige ancora a metà e la partenza fissata il mattino seguente.

E così è venerdì. Partiamo lenti, talmente lenti che rischiamo seriamente di perdere l’aereo a Bologna. In fondo siamo nei tempi (ancora), procediamo di buon passo, poi gradualmente il traffico rallenta, il navigatore ci segnala un incidente, un brutto incidente, i tempi di percorrenza si allungano mostruosamente, siamo fregati (forse). Si, ma questo racconto non avrebbe alcun senso se non fossimo arrivati in aeroporto, giusto? Decidiamo rapidamente di uscire dall’autostrada, prendiamo l’uscita di Faenza su due ruote, ma troviamo coda inevitabilmente anche sulla nazionale, fra mille crocevia intasati e tanti guidatori acciambellati sul volante a causa della calura intensa del mezzodì. Io inizio a prendermela con tutti, coi guidatori acciambellati, con la nostra supponenza, coi nostri ritardi, col fatto che non valutiamo mai ma proprio mai la possibilità di un imprevisto, con l’incoscienza che ci caratterizza e che poi è il nostro segreto ma adesso no, adesso è dannazione eterna e viaggio a rischio, e sbraito e mi agito contro la mia stessa superbia che mi ha lasciato credere di essere un viaggiatore navigato e quindi infallibile. Per fortuna rientriamo in autostrada a Imola, posso smettere di pensare e dare di matto.

Ci fiondiamo verso Bologna. Stiamo per arrivare al parcheggio ma la strada è interrotta (fatto senza precedenti, anche questo) e perdiamo altro tempo. Un passante vuole per forza fornirci indicazioni dettagliate per raggiungere in fretta la nostra destinazione, ma la sua flemma mi impone una fuga impertinente. “Eh ma allora” – lo sento lamentarsi mentre evaporiamo. Infine congediamo Zelda, la nostra macchina. La navetta ci carica su, l’autista bolognese- che ci tiene a mostrarsi simpatico più di ogni altra cosa- si prodiga in un percorso alternativo. Era un pilota, e nessuno ha mai perso un aereo per causa sua -dice. Mi toccherei se non fosse per la signora accanto a me. Scendiamo e iniziamo a correre verso l’aeroporto per imbarcare la valigia, la coda è corposa ma di lì a poco chiamano al banco i passeggeri diretti a Lisbona, manca mezzora alla partenza di un volo che poi tarderà il decollo per motivi ignoti.

Usciamo a fatica dalla fila, lanciamo la valigia alla gentile signorina muta, corriamo al gate, beviamo un litro d’acqua a testa per evitare di sprecare il bene più prezioso al mondo, attraverso i controlli di sicurezza a pedi nudi perché i mie consunti Birkenstock non vogliono saperne e perchè i calzari sono tutti mezzi rotti, il tempo di un breve ma significativo crollo emotivo scaturito dalla tensione e di una sosta in bagno e siamo in aereo. Insomma, un incipit stressante per un viaggio che di stressante poi avrà ben poco.

48 non sono pochi

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48 NON SONO POCHI

E’ strano arrivare a un’età che non sembra corrispondere alla tua. Un po’ perchè non riesci a realizzare bene cosa tu possa aver fatto in tutto questo tempo, che sembra poco ma è una marea oceanica. Un po’ perchè si fa fatica ad ammettere di aver superato da un po’ quel valico invisibile ma non troppo ipotetico che sancisce la metà del giro che ci facciamo da queste parti.

48 non sono pochi, non mi provocano lo stesso effetto dei 46 o dei 47, si va un po’ troppo in là. Resto convinto che ognuno si assegni un’età, e c’è chi nasce irrimediabilmente vecchio e chi fatica ad invecchiare, come se ciò non fosse affatto nelle sue corde. Ma come dicevo ai miei amici ieri sera, sembra un po’ come se dal traguardo iniziassero a metterti a fuoco. Non sanno chi sei, in fondo ti ignorano, ma ti intravedono, ti percepiscono, diamine.

Adesso non vuoi più regali, non ti serve più niente, perchè nulla è più importante del fatto che la cornice sia giusta, che quello che hai intorno rimanga il più possibile com’è sempre stato, che lo stato di grazia si conservi.

La tua compagna, i figli, la famiglia, gli amici, i sogni e i progetti, i viaggi fatti e quelli imminenti, quelli che stai soltanto immaginando di fare, i libri da leggere, che sono sempre troppi, e i film da vedere, che sono sempre meno. Ma tutto ciò che dimora nel regno dell’immaginazione è prospettiva, una prolunga indefinita verso il futuro, un ponte onirico che unisce il qui e l’adesso al chissà quando e al chissà dove. L’immaginazione è vita.

La confusione degli auguri che arrivano da canali più disparati. I familiari più anziani di norma ti chiamano o ti scrivono un messaggio. La maggior parte degli amici, dei parenti e dei conoscenti più stretti utilizzano le vie social più “intime”, altri ancora ti scrivono su facebook.

E’ difficile districarsi in questo pandemonio di messaggi sovrapposti e penso che ne perderei la metà se non fossi in ferie, al mare, con Franci, sotto un sole che culla e stordisce, che rilassa fino al punto di debilitare il corpo e la mente. E così mi godo in modo leggero questi messaggi filtrati dalle tinte arancio di uno spritz.

“Avevo una casa vicino al mare. Per andare in spiaggia dovevo passare davanti a un bar. Non ho mai visto il mare” -recita una frase di George Best scritta sopra il bancone di un chiosco. Eh si, il mare senza un bar non avrebbe senso. Sarebbe inconcepibile, come… come un mare senza bar.

Per tradizione, il giorno del mio compleanno riguardo i vecchi messaggi di zio Gino, perchè sono unici e perchè è proprio questo il giorno in cui avverto di più la sua mancanza: in lui non esistevano banalità di sorta, e tutto quanto da lui proveniva, nel bene e nel male, era sorprendente, come le strisce di colore con cui sapeva dipingere la vita. Nel messaggio del 5 maggio 2016 mi scrisse che entro qualche tempo avrebbe preso la corriera e sarebbe passato a trovare me e Francesca. Mi sono subito immaginato la corriera stravagante di Steinbeck, ho visto zia sulla scalcagnata Sweetheart guidata da Juan, fra le stramberie di Bernice, Mildred ed Ernest. L’ho visto a San Isidro, presso la Svolta dei ribelli, col garzoncello Kit Carson, e poi in fuga verso la Magnadorsa, che colloco oltre le divine dorate colline californiane che poi diradano più o meno dolcemente verso il Pacifico.

E quindi il mio compleanno è stato questo: risveglio dolce al mattino, un’oretta dentro la libreria Sapere di Senigallia (la miglior libreria al mondo) senza nessuno appresso, un giro a piedi lungomare, il groppone causato dalla lettura delle parole di ZiaGina, i messaggi da leggere in ordine sparso, mio padre che mi chiama ma poi non risponde, l’aperitivo e il pranzo con Francesca, un ritorno precoce perchè Giamma non sta bene, e poi un giro di bevute con gli amici, sempre loro, sempre belli e irrinunciabili, sempre densi e caldi come quegli abbracci che nessun altro al mondo saprà mai darti.

E poi Gocce d’Occhio Colorate, la nuova opera di Iri a me dedicata per l’occasione, la passeggiata con mio figlio per andarci a tagliare i capelli da quel matto di Teo, il pensiero delle tante cose da organizzare per oggi domani e sempre, e l’assoluta certezza di non aver bisogno di altro, perchè sarebbe difficile e persino stupido desiderare di più. Grazie di cuore a tutti, a chi sostiene parti gravose, a chiunque abbia un ruolo delicato, alle comparse, a chi lavora nel retrobottega. Il film non sarebbe lo stesso senza di voi. Senza nessuno di voi.

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  • 6 DAYS IN NEW YORK
    • MOMA – Selezione d’Osteria
  • FilmOsteria
    • A SERIOUS MAN – Joel Coen, Ethan Coen
    • ALMANYA – Yasemin Samdereli
    • AVATAR – James Cameron
      • La maschera
    • BLADE RUNNER 2049 – DENIS VILLENEUVE
    • DARK SHADOWS – Tim Burton
    • DJANGO UNCHAINED – Quentin Tarantino
    • DOPO IL MATRIMONIO – Susanne Bier
    • E ORA DOVE ANDIAMO? – Nadine Labaki
    • HUGO CABRET – Martin Scorsese
      • Georges Meliès e la magia del cinematografo
    • HUNGER – Steve McQueen
      • 5 maggio 1981
    • IL CAVALIERE OSCURO – IL RITORNO – Christopher Nolan
    • IL GRANDE CAPO – Lars von Trier
    • L’AMORE CHE RESTA – Gus Van Sant
    • L’ARTE DI VINCERE (MONEYBALL) – Bennett Miller
    • LA PARTE DEGLI ANGELI – Ken Loach
    • LA PELLE CHE ABITO – Pedro Almodovar
    • LA TALPA (TINKER TAILOR SOLDIER SPY) – Tomas Alfredson
    • LE CENERI DI ANGELA – Alan Parker
    • MARIGOLD HOTEL – John Madden
    • MARILYN – Simon Curtis
    • MILLENNIUM – UOMINI CHE ODIANO LE DONNE – David Fincher
    • MIRACOLO A LE HAVRE – Aki Kaurismaki
    • PARADISO AMARO (THE DESCENDANTS) – Alexander Payne
    • PICCOLE BUGIE TRA AMICI – Guillaume Canet
    • REDACTED – Brian De Palma
      • Nemici immaginari – Dall’Iraq a Buzzati e ritorno
    • RUGGINE – Daniele Gaglianone
    • THE EDGE OF LOVE – John Maybury
    • THE HELP – Tate Taylor
      • Il fascino sottile dell’intolleranza
    • THE IRON LADY – Phyllida Lloyd
    • THIS MUST BE THE PLACE – Paolo Sorrentino
    • UNA SEPARAZIONE – Asghar Farhadi
    • VENTO DI PRIMAVERA – Rose Bosch
    • WARRIOR – Gavin O’Connor
  • I Grandi Classici
    • A history of violence
    • Amour
    • Casinò
    • Easy rider
    • Eyes wide shut
      • La tana del Bianconiglio
    • La città incantata
      • Paragone acrobatico con il mito di Orfeo ed Euridice
    • Schindler’s list
    • The artist
  • Il precipizio
    • Andy Kaufman – Man on the moon
    • Antonio Sampaolesi – Mio nonno, il mio idolo.
    • Caccia sadica
    • Central Park
    • Cigolante vetustà
    • Compenetrante Simbiosi Nordica
    • Cosmogonia d’Osteria
    • Crisi gravitazionale
    • Da Zachar a Wall-E in pilota automatico
    • E-voluzione
    • Effetto Domino
    • Follia o rivelazione?
    • Freccia rossa
    • Fuga d’ombre nel capanno
    • Generi cinematografici
    • I cantanti
    • Il pelo del pile
    • Il Visa
    • Inchiostro
    • L’Estetica del Toro
    • L’incontro
    • La chimica del mare
    • La fine 1.0
    • Magma dal retrobottega
    • Mezzosogno
    • Mine vaganti su Skyfall – L’altalena delle aspettative
      • Assenza di aspettative – Mine vaganti
      • Overdose di aspettative – Skyfall
    • Mostri alati
    • Nonna Jole
    • Nonno Dino e il bambino che è in me
    • Prima del tempo
    • puntofisso.com ovvero Il colloquio
    • Salomon
    • Sogni & Catapulte
    • Sotto/Sopra
    • Terza fase
    • The Nightmare before Christmas – Reloaded
    • Tuta alare
  • L’Atlante delle Nuvole
    • Brazil
      • Soldatini di plastica
    • Cloud atlas
      • Tutto è connesso – Odissea nella coscienza unificata
    • Faust
    • Melancholia
      • E d’improvviso Jung
    • Mulholland drive
    • Stay
    • The imaginarium of Doctor Parnassus
      • Oltre lo specchio
    • The lobster
    • The tree of life
  • Once upon a time
    • The Adam Show – Una favola moderna per bambini precoci
      • Atto I
      • Atto II
      • Atto III
      • Atto IV
      • Atto V
  • Photo buffet
    • Antelope Canyon
    • C’era una volta un ghiacciaio
    • Cattedrali nel deserto
    • Children of Lesotho
    • Cold beer
    • Duddingston Village
    • Evoluzione Alentejana
    • Grandpa riding
    • La isla del viento
    • Libera Sopravvivenza
    • Opi-Wan KenOpi
    • Pipò – Il Cane Guida
    • Satara – After lunch
    • Spanish patrol
    • Swazi Stand (Commerce and Laughters)
    • Un giorno al Pincio
    • Under the Golden Horn Metro Bridge – Istanbul
    • White Sands
    • Zabriskie Point – Sunrise
  • Portogallo on the road
  • Pubblicazioni
  • Singolar tenzone
    • 1883 – Epopea migratoria
    • Auster, Paul
      • Moon Palace
      • Viaggi nello scriptorium
    • Baudelaire, Charles
      • I fiori del male
    • Buzzati, Dino
      • Il deserto dei Tartari
    • Cicerone, Marco Tullio
      • L’amicizia
    • Consoli, Carmen
      • Sud est
    • Dalla, Lucio
      • Com’è profondo il mare
    • De Filippo, Edoardo
      • Cos’e nient
    • De Gregori, Francesco
      • Un guanto
    • Dickens, Charles
      • Il nostro comune amico
    • Fitzgerald, Francis Scott
      • Tenera è la notte
    • Flaubert, Gustav
      • Memorie di un pazzo
    • Genna, Giuseppe
      • Italia de profundis
    • Ginsberg, Allen
      • L’urlo
    • Goncarov, Ivan Aleksandrovic
      • Oblomov
    • Grass, Gunter
      • Il tamburo di latta
      • La ratta
    • Guerra, Tonino
      • I bu (I buoi)
    • Hesse, Herman
      • Il piacere dell’ozio
    • Jung, Carl Gustav
      • L’io e l’inconscio
    • Kristof, Agota
      • Trilogia della città di K. – La terza menzogna
    • Levi-Montalcini, Rita
      • Collana di Perle (Libera raccolta d’Osteria)
    • Lynch, David Keith
      • In acque profonde
    • Manzarek, Raymond Daniel
      • Light my fire – My life with Jim Morrison
    • Maugham, William Somerset
      • La luna e sei soldi
    • McCarthy, Cormac
      • Meridiano di sangue
      • Suttree
    • Morrison, James Douglas
      • Le poesie hanno i lupi dentro
      • Sono tornato
      • The crystal ship
    • Musil, Robert
      • L’uomo senza qualità
    • Nabokov, Vladimir
      • La vera storia di Sebastian Knight
      • Parla, ricordo
    • Paasilinna, Arto
      • Piccoli suicidi tra amici
    • Pessoa, Fernando
      • Il libro dell’inquietudine
    • Quasimodo, Salvatore
      • L’uomo e la poesia
    • Rimbaud, Arthur
      • Carreggiate
    • Salustri, Carlo Alberto
      • La cornacchia libberale
    • Schnitzler, Arthur
      • Doppio sogno
    • Steinbeck, John
      • Al Dio sconosciuto
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      • La valle dell’Eden
    • Thomas, Dylan
      • Distesi sulla sabbia
    • Thoreau, Henry David
      • Walden ovvero vita nei boschi
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