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Archivi della categoria: Pensieri

Sempre Dalla – Cosa è davvero importante?

05 lunedì Mar 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Pensieri

Pensieri d’Osteria

Questo fatto di Dalla continua a tormentarmi, ma non per il desiderio diffuso di melodramma a basso costo che invade i media in casi simili, bensì a causa di una mia riflessione personale che si ripete come un disco rotto alla morte di un artista che mi è caro. E Dalla -lo ripeto- per me è un amico, uno di casa, uno che mi ha spiegato delle cose, che mi ha aperto gli occhi a volte, e confuso in altre occasioni. L’artista è così, ti spiega l’amore o la follia in poche righe, ti confonde le idee sugli stessi temi nei versi successivi. Ma se si decide di aprirgli la porta di casa, bisogna prendere tutto, senza distinzioni. Lucio Dalla, artista di strada, cantautore a domicilio, goliardo d’osteria, putto di città, e clown nel senso romantico del termine, ha scritto e cantato tanti e tali capolavori da creare un filo conduttore luminoso che supera il tempo: la sua voce e la sua poesia lo rendono eterno. Ho sempre pensato che chi muore sopravvive nei pensieri di chi vive, di chi resta. E allora, dal mio punto di vista è facile concludere che uno come Dalla non possa morire, e che al contrario, soprattutto adesso, con la sua voce energica che esce dalle casse, sia più vivo che mai.

Cos’è che rimane delle persone che muoiono? Rimangono tutte le espressioni artistiche, le grandi imprese, le scoperte, le follie. Cos’è che ci portiamo dietro più a lungo? Il discorso di un grande uomo politico (di quelli che non esistono più in pratica)? Il tizio che ha progettato quel magnifico ponte? Il grande imprenditore e la sua linda e asettica azienda? I colleghi di lavoro, sempre se hanno un volto?

Ci ricordiamo più di Berlino o del fatto d’esserci stati con Bonetti?

Di cos’è che viviamo realmente? Io vivo di versi come quelli che -a breve- seguiranno. Molti lo fanno, anche inconsapevolmente, perchè una buona canzone ti cambia la giornata, regala leggerezza, effervescenza, forza, spensieratezza. E certe parole ti parlano dentro, e non le dimentichi mai, e alla fine tiri le somme e capisci che è di questo che hai bisogno, e di poco altro, oltre alle persone che ami, a quelle con cui hai condiviso, alle risate e agli abbracci, alle idiozie che continui a raccontare, a quel grido nella notte, a quelle serate estive d’ebbra ed estatica follia sulla spiaggia della memoria e dei sogni.

E allora eccoli, i versi di cui dicevo. Questa canzone -“Com’è profondo il mare”- mi è stata ricordata recentemente da un vecchio amico. Me la sono riascoltata più volte. E le sue parole finali contengono una verità molto più profonda del mare stesso in cui il suo Cantore la plasmò. E con questi versi è tutto, per il momento.

E’ chiaro che il pensiero dà fastidio
Anche se chi pensa è muto come un pesce
Anzi un pesce, e come pesce è difficile da bloccare
perchè lo protegge il mare
Com’è profondo il mare

Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche
Il pensiero come l’oceano
Non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare
Così stanno bruciando il mare
Così stanno uccidendo il mare
Così stanno umiliando il mare
Così stanno piegando il mare

Lucio Dalla, una Nissan Sanny, ed Amsterdam

02 venerdì Mar 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria

Lucio Dalla mi ha dato modo di ricordare che sono cresciuto sulle note e le parole delle sue canzoni. Mi ha ricordato un lungo viaggio fatto idealmente insieme a lui e realmente con la mia famiglia. Erano i primi anni ottanta quando mio padre, mia madre, mia sorella ed io partimmo alla volta di Amsterdam, a bordo di una sgangherata ma affidabile Nissan Sanny 140 y color rosso vino.

 Ho dei ricordi abbastanza confusi e sconnessi, ma rammento le grandi e desolate autostrade tedesche in cui le Porsche di Stoccarda ci sorpassavano a velocità supersonica; lungo quelle highways fatiscenti mi divertii a contare le macchine che riuscivo a contare, segnandole su un block notes apposito: l’obiettivo era di annotare marca e colore; lo facevo sempre nei vari viaggi compiuti in Italia con mio padre, ma all’estero fu molto più difficile, a causa dei modelli diversi che mi capitò di vedere e che complicarono non poco le mie indagini statistiche. Comprendo bene che questa bizzarra attività possa ricondurre al Raymond Babbitt di “Rain man”, ma così era, e così mi piaceva trascorrere il tempo dei tragitti automobilistici più consistenti.

Ricordo poche cose anche di Amsterdam: la prima è un volo improvviso di uccelli neri cui corrispose una reazione di paura mista a stupore; la seconda riguarda un tizio che da tergo ci propose di comprare ogni tipo di droga; la due/bis la fuga che improvvisammo in seguito a tal iniziativa commerciale; la terza concerne la sensazione di decadente squallore che la città e alcuni suoi abitanti malconci mi trasmisero; la quarta una puttana che mi guardò, facendomi strani gesti con la mano destra dalla vetrina in cui lavorava; la quattro/bis mia madre che subito dopo l’indecente proposta mi trascinò via pregandomi di non guardare; la quinta un fantastico negozio di dischi in cui comprammo la musicassetta “Like a virgin” di Madonna e un mangianastri modernissimo (per l’epoca).

Credo infatti che nel viaggio di andata si fosse guastata l’autoradio antidiluviana della Nissan, e così mio padre e mia madre provvidero a dotarci di una colonna sonora improvvisata per il tragitto di ritorno. Quando venne il momento di ripartire alla volta dell’Italia, piazzammo lo stereo in prossimità del lunotto posteriore, e mentre mia sorella dormiva o giocava ai suoi giochi di bambina, io intrapresi la mia breve carriera di disc jockey.

Non ebbi grande scelta: c’era questa cassetta nera e nuovissima di Madonna (c’era soprattutto una fantastica copertina che la vedeva ritratta con una specie di corpetto bianco e aderentissimo), “True blue”, un altro splendido album della cantante italo-americana, e un doppio album di un certo Lucio Dalla, intitolato “Dallamericaruso”: ricordo come fosse ieri queste due cassette bianche, ricoperte da un’etichetta fra l’arancione e il rosso, col marchio della RCA ben visibile.

Iniziai naturalmente da “Like a virgin” che per me rappresentava una novità nonostante fosse antecedente a “True blue”; dopodiché cominciai ad ascoltare con attenzione e interesse Dalla, che normalmente mi annoiava, forse perché mio padre –a casa- lo sparava a tutto volume ogni domenica: il fatto di metter su quella cassetta con le mie mani fu il primo passo di un cammino che mi condusse ad amare quel cantante un po’ matto ed eccessivo ma vero, talmente vero da riprodurre in musica il verso della strada e delle persone che la popolano, senza censurarne mai gli aspetti più sgradevoli o sconvenienti, fregandosene di una certa estetica buonista e delle maschere che la società impone.

Lucio Dalla mi ricorda la parte più esaltante della mia infanzia, mi ricorda gli odori e i sapori di viaggi e tinelli, le follie e le risate di una famiglia di matti e di artisti, in cui la sua voce si è calata alla perfezione, accompagnando inconsapevolmente le strambe e intense dinamiche di una vita che è un film intitolato “Big Fish”.

Omaggio a un Grande Artista d’Osteria

02 venerdì Mar 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Pensieri

Osteriacinematografo omaggia Lucio Dalla (1943-2012), un eccelso artista dei nostri tempi, capace di realizzare, in una vita sola, opere come “Anna e Marco”, “Disperato erotico stomp”, “Futura”, “L’anno che verrà”, “L’ultima luna”, “Nuvolari”, “Se io fossi un angelo”, “Stella di mare”, “Tutta la vita”.  
       E quindi, semplicemente, grazie.

Viaggio ad Auschwitz – Parte Seconda

24 venerdì Feb 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Cronache e Storie d'Osteria

La guida di cui non ricordo il nome, di cui forse non ho mai saputo il nome, ci fornisce una serie di informazioni generiche in merito al nostro “piano di volo”. Il campo di concentramento era così suddiviso: il campo di prigionia di Auschwitz era il reparto principale, e fungeva anche da sede amministrativa dell’intero complesso; Birkenau era il campo di sterminio in senso proprio; chiudevano il folle cerchio il campo di lavoro di Monowitz e altri 45 sottocampi costruiti durante l’occupazione tedesca in Polonia.

Indi saliamo su un bus navetta. I soliti viaggiatori italiani, che all’estero amano armarsi di banalità, sghignazzano dicendo: “ma dove ci staranno deportando?Ah ah!”. Non so perché, ma in tutta onestà, forse per una forma di idiozia patriottica e solidale, accenno un sorriso. E’ un sorriso muto, che non si sente e si vede appena, ma c’è, e non posso negarlo adesso, limitandomi a catechizzare un comportamento ingenuo che con quel tenue gesto del viso ho –in un certo senso- appoggiato e condiviso. Comunque, mentre vi parlo di tal fatterello in questione siamo arrivati.

Scendiamo. Birkenau, campo di sterminio. Una scala stretta e consunta ci conduce alla torretta d’ingresso: dall’alto della postazione di vedetta prendiamo visione della vastità della struttura: non si può evitare di pensare che quello è lo stesso punto di vista da cui alcuni vili e cinici nazisti osservarono compiersi “la soluzione finale del problema ebraico”; non si può fare a meno di pensare di essere nello stesso luogo in cui, decine di  anni prima, uomini come me, uomini come tutti noi, controllarono in tempo reale, coi propri occhi e la propria coscienza, che lo sterminio di milioni di persone inermi avvenisse senza intoppi di sorta.

 

Furibonde recinzioni in filo spinato corrono e s’intersecano sotto di noi per centinaia di metri e in ogni direzione. In mezzo alla neve compatta s’intravede la corsa di alcuni binari più o meno paralleli: quelle rotaie terminano nello stesso punto in cui cessarono per sempre le speranze e i sogni di una moltitudine di persone. Lo spettrale panorama propone poi una serie di edifici rossastri in successione, più o meno conservati, più o meno fatiscenti, a costellare come macchie scure la distesa bianca di Birkenau.

 

 

Entriamo nel campo, e la guida assume un contegno rispettoso e un tono sommesso, nonostante la rilevante distanza fra noi e le numerose comitive che si muovono in quello spazio sconfinato. Una serie di pannelli e fotografie interrompe di tanto in tanto un tragitto silenzioso. Più ci si inoltra nel campo, e più si avverte il peso imponderabile dell’orrore: soltanto i respiri affannati delle persone e la voce appena accennata della guida scandiscono un cammino doloroso.

 

 

La gentile signorina ci mostra un vagone originale dell’epoca, ed è subito chiaro il motivo dei decessi che avvenivano durante la deportazione: quei vagoni  non erano che gigantesche stie prive di spiragli, adibite al trasporto di carne da macello. Per assurdo, ho immaginato che fosse quasi un sollievo morire lungo il tragitto, così da scampare all’orrore che attendeva i deportati.

 

 

Ma ecco, mi distraggo un attimo e non mi accorgo che siamo sul punto esatto in cui i prigionieri toccarono uno dietro l’altro il suolo di Birkenau. Proprio qui, la gente, gente vera, scendeva, subendo dopo pochi passi le prime drammatiche cernite. Anziani e malati erano inconsapevolmente in possesso di biglietti di sola andata per la gassificazione. I nazisti usavano separare immediatamente le madri dai figli, per terrorizzare i nuovi arrivati. “A quale madre piacerebbe separarsi dai propri figli, soprattutto in un posto così? Io penzo…nessuna”- sottolinea la nostra guida, e la parola “nessuna” , che chiude la sua frase, risuona come se avesse chiuso a tripla mandata una porta blindata, quasi fosse il portone di una certezza così massiccia da attraversare il tempo dagli anni 40 alla sua coscienza, e dalla sua coscienza alla mia, come sedimenti trasportati dal corso fluttuante della memoria.

 

Ma torniamo a noi. Le camere a gas furono la prima e l’ultima tappa polacca per molti deportati. Vecchi e malati –dicevamo- ma anche donne e bambini, a seconda dell’umore delle isteriche SS naziste. E sembra persino che quanti sopravvivevano a questo “passaggio” preliminare finissero poi col rimpiangere di non aver subito la stessa sorte istantanea, così da evitare le disumane atrocità che rivivranno nel prossimo passo di questa triste cronaca.

E’ bello pensare?

19 domenica Feb 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Pensieri

E’ bello pensare che l’ultimo articolo pubblicato (prima di me) su osteriacinematografo (il blog in cui mi trovo ad essere insieme a molti miei simili), intitolato “Le storie se ne fregano degli autori”, dovesse in realtà intitolarsi “E’ bello pensare”.

Effettivamente, nell’articolo in esame, la locuzione “E’ bello pensare” (piccolo concetto di contorno con cui ho avuto modo d’interloquire recentemente) funge quasi da ritornello, e in base a ciò chi scrive ha pensato bene (ha pensato troppo) di intitolarlo “E’ bello pensare”.

E’ quindi bello pensare che “E’ bello pensare” abbia subito una modifica tale da mutare titolo (e pelle), senza che l’autore ne fosse pienamente consapevole.

Vedete, cari lettori, la creazione si è ribellata ancora una volta, decidendo così di autodeterminarsi al di là di me e del mio volere, e di definirsi diversamente.

Per tale motivo, nel caso del presente scritto, che dovrebbe funzionare come  appendice del precedente, come moto reazionario e tentativo di ripristino dello status quo ante, ho deciso di “congelare” il titolo prima di scrivere il resto, così da evitare una nuova rivolta. Ma le parole si sono prese il loro spazio prima ancora che potessi iniziare a dire la mia.

“Ma perchè non scegli un altro nome? Le alternative sono infinite. “Pensiero circolare”, “Giro di parole”, “Alphonse o Barnaby Manzarek”, “Applicazione pratica del concetto secondo cui le storie se ne fregano dei loro autori” potrebbero essere titoli validi. E poi non sei tu a sostenere che in questo spazio tutto può sempre mutare in base ai tuoi stessi principi dogmatici?”

Infide e dannate parole, vili ricattatrici, portatrici d’idee rettili come tanti Iago a insinuare dubbi. Queste parole avranno la meglio su di me, prima o poi. Con ogni probabilità si stanno già accordando per il prossimo colpo di coda, col quale si libereranno in modo rapido e definitivo del cordone ombelicale con cui le nutro fino al punto che chiude per sempre questa frase.

Le storie se ne fregano dei loro autori

18 sabato Feb 2012

Posted by osteriacinematografo in Pensieri

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Pensieri

Una citazione recentemente liberata nelle praterie d’Osteria concerne Paul Auster e i suoi “Viaggi nello scriptorium”. Nel libro, Mr Blank, il protagonista, si trova in una stanza semivuota che rappresenta la sua mente, un microcosmo confuso e popolato dai personaggi che lo stesso Blank ha creato. Al di là dell’analisi dell’opera -un raffinato esercizio letterario in cui Auster  si diverte a disorientare il lettore grazie a un gioco d’illusioni e scatole cinesi-  l’esplorazione dell’universo creativo dello scrittore, che rappresenta la struttura stessa del libro, mi ha fornito un interessante spunto di riflessione.

E’ bello pensare che i personaggi, i contesti, i dialoghi, ogni minimo dettaglio creato da chi scrive sopravvivano al loro creatore.

Le storie continuano a vivere in due modi.

In primo luogo proseguono il loro percorso negli occhi e nella mente di chi legge, popolando le fantasie d’innumerevoli individui, che interpretano e modellano le parole, dando un volto a nomi sconosciuti, contestualizzando ambientazioni in base ai parametri esegetici più disparati.

Inoltre, capita spesso di leggere storie che non finiscono realmente, che rimangono sospese, fin quasi ad acquisire una propria autonomia, una forza intrinseca, e proseguono indipendentemente dalla fine del libro che le contiene a livello spaziale, e in alcuni casi a prescindere persino dagli sforzi di fantasia e prospettiva dei lettori medesimi.

“Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald  è uno di quei romanzi che continuano a vivere in doppio senso. L’opera ha certamente avuto una storia travagliata, avendo subito – fra il 1925 e il 1934- numerose modifiche per mano dell’autore; ma poiché l’ultima versione del romanzo, che cambiò anche titolo nel corso del tempo, conteneva una serie di inesattezze che ne impedirono la pubblicazione, si rese necessario procedere a una rielaborazione definitiva: fu Malcolm Cowley –anni dopo- a correggere pesantemente l’ultima stesura del libro. In seguito –e per fortuna- il romanzo venne però ristampato in una versione più conforme all’originale di Fitzgerald.

“Tenera la notte” è la storia di Dick Diver, Nicole Warren, Rosemary Voyt, Tommy Barban, Abe North, agiati americani che –negli anni venti- si spostano in lussuose località del vecchio continente. La Costa Azzurra, Parigi, Zurigo, le alpi svizzere sono i luoghi in cui incrociano le loro vicende in chiaroscuro. La storia è profondamente autobiografica e riflette la vita reale dei coniugi Fitzgerald: in particolare, la malattia mentale di Nicole è la stessa di Zelda; la depressione e l’alcolismo di Dick Diver sono gli stessi dell’autore; l’incipit dell’opera mostra una coppia felice che lentamente scivola in un tunnel senza sbocco, come è accaduto realmente ai coniugi Fitzgerald.

Zelda morì nel 1948 in un incendio che devastò l’ospedale psichiatrico in cui visse per più di dieci anni; Francis Scott invece cedette a un infarto nel 1951. Fu una vita di sfarzo ed eccessi –la loro- che finì nella disperazione e nella solitudine, come accade sovente a grandi artisti d’ogni epoca.

Ma è bello pensare che le loro vicende -riflesse nei personaggi di “Tenera è la notte”-  continuino a vivere negli occhi e nelle fantasie dei lettori di epoche successive; è bello pensare che una moltitudine di persone possa -negli anni- ripercorrere le loro gesta romanzate, come pure quelle di personaggi più o meno inventati dalla creatività di scrittori di qualsivoglia periodo storico.

Le storie che troviamo nei libri non finiscono mai, almeno fin quando anche un solo individuo avrà voglia di leggerle e di rendere omaggio a coloro che ne hanno plasmato forme e contenuti.

E’ bello pensare che le storie se ne freghino dei propri autori, dal momento stesso in cui avviene la loro trasposizione in lettere.

Ed è quindi bello pensare ai protagonisti dei libri che abbiamo amato, ai loro momenti di gloria e alle loro sofferenze, e al fatto che l’epilogo del libro non coincida con la loro fine, come accade a Dick Diver, a Rosemary Voyt, Tommy Barban e Nicole Warren, che adesso, proprio adesso, sono chissà dove e chissà quando, oltre le pareti del vano cerebrale che li partorì.

Viaggio ad Auschwitz – Parte Prima

16 giovedì Feb 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

16 gennaio 2012

A Cracovia splende il sole. Io e Francesca camminiamo veloci, animati da una sana e inflessibile voracità, come sempre quando abbiamo poco tempo per vedere più cose. Passi e sottopassi si avvicendano  in un percorso ghiacciato e vagamente tetro. Tram azzurri e il blue bus di Morrison sfrecciano fra polacchi affaccendati. Spacci di liquori a ottanta gradi e un negozio di giocattoli spuntano allegri dalla facciate grigie dei palazzoni in successione; un ostello tira l’altro lungo la strada che costeggia la parte centrale della città, che vanta una delle piazze più grandi d’Europa, un’anima blues e un’eccelsa vitalità sotterranea.

Quei locali clandestini in cui ci si accalca, in cui si beve gomito a gomito con il locale tutto, in cui eccellenti e variegate jam sessions musicali si alternano su palchi minuscoli, trasmettono la sensazione di vivere nel passato (Midnight in Krakow), al riparo da una guerra all’arma bianca che fuori impazza e che per contrasto scalda il cuore di chi è dentro.

Ma ecco la stazione, luogo popolato dai polacchi più scontrosi di Polonia, luogo di disinformazione e del “vai per tentativi che prima o poi qualcosa trovi, anche se non voglio sapere cos’è che cerchi”. Scansato l’ostacolo ferroviario, d’un tratto veniamo catapultati in uno strano corridoio di chioschi colorati: sembra d’essere sul posto di confine di un vecchio film di fantascienza, dove persone e merci transitano confusamente, dove t’aspetti di trovare da un momento all’altro un mutante , un cyborg, un lavoro in pelle, o un cacciatore di taglie che controlla i codici a barre di chi passa di lì. L’atmosfera umida e scarsamente illuminata mi ricorda gli esterni di “Blade Runner”, ma con uno sforzo d’immaginazione mi convinco di essere sul Pianeta Tatooine di “Guerre stellari”, ed esattamente nel porto spaziale di Mos Eisley, in cerca dello Ian Solo di turno e di un’astronave che faccia al caso nostro.

Un astro pullman sgangherato e arrugginito pare attenderci in quella stazione fatiscente. Saliamo sul mezzo diretto ad Oswiecim. Il pilota del Millennium Falcon somiglia più a Chewbecca che a Ian Solo: anzichè parlare emana grugniti gutturali, non ride mai, ha un broncio bronzeo e stampato. Ma Ciube è tagliato per il suo mestiere, e trasmette sicurezza ai passeggeri.

Partiamo dunque. I palazzi diminuiscono, cedono prospettiva al mondo naturale, si diradano fino poi a scomparire al cospetto delle distese rurali polacche. Neve ovunque e i vetri irrimediabilmente appannati dall’incuria e dall’escursione termica con l’esterno fanno filtrare immagini dai contorni incerti, figure oniriche, affusolate e concilianti. Un maestoso zuccherificio che pare un mostro precipita sul paesaggio immacolato. Dai brevi spiragli di nitidezza trapelano le deformi sagome di imponenti manieri diroccati sulle cime di aspre colline. Fermate d’autobus improvvisate nel nulla scivolano lungo la pellicola che scorre dinanzi ai nostri sguardi sonnolenti; nello spazio di pochi tornanti il tempo muta inesorabilmente e il sole lascia il palco a un cielo plumbeo e pesantissimo, che in breve scatena una cascata di neve in fiocchi grandi e corposi. Il cielo opprime con la sua densità, quasi fosse un presagio, e più c’inoltriamo e più la neve s’irrobustisce, aumentando in volume e frequenza.

Siamo ad Oswiecim. Scendiamo dal pullman. Fuori, l’atmosfera è irreale, la neve attutisce ogni suono, voce, pensiero; camminiamo sulla faccia bianca ma oscura di una luna ignota. Il campo di Auschwitz è davanti ai nostri occhi adesso, ma non ce ne rendiamo conto per via della fittissima nevicata. Svolgiamo le pratiche d’ingresso. Una graziosa guida polacca, avvolta da un piumino viola e da uno sguardo malinconico, ci attende in fondo alla hall. Le andiamo incontro.

L’incontro

10 venerdì Feb 2012

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Prima del volo

 

Riporto qui di seguito un passaggio di “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald:

“Dick aveva imparato da suo padre i bei modi un po’ imbarazzati del giovane del sud emigrato nel nord dopo la guerra civile. Spesso li usava e ogni volta li disprezzava, perchè non erano una protesta contro la bruttezza dell’egoismo, ma contro la bruttezza delle apparenze di esso“.

Prendo spunto da questo breve passo sull’ipocrisia umana per tentare di analizzare con leggerezza alcune fasi dei rapporti interpersonali.

L’allegra analisi prosegue lungo le scarpate scoscese de “Il Precipizio”

Guarani Survival Fund

29 domenica Gen 2012

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Pensieri

L'ennesimo grande popolo minacciato dall'uomo bianco

Sosteniamo i Guarani.  Prima che sia tardi. Guarani Survival Fund


Storie di navigazione

24 martedì Gen 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

Racconti d’Osteria

A volte, storie di uomini e rotte marittime s’incrociano fra le nere increspature oceaniche.

Come le storie di Donald Crowhurst (1932-1969) e di Bernard Moitessier (1925-1994).
Il primo, commerciante e velista amatoriale inglese, si trovò a un certo punto della sua vita sull’orlo del fallimento. Il secondo, eccelso navigatore e scrittore francese, fu il primo a circumnavigare il globo senza scalo, nel ’65.

I loro destini s’incrociarono nel 1968, in occasione della Golden Globe Race -gara velica senza precedenti- la prima regata intorno al mondo in solitario. I partecipanti salparono da diversi porti inglesi, con l’obiettivo di passare i Tre Capi -Buona Speranza, Capo Leeuwin e Capo Horn- e la (buona) speranza di tornare.

Moitessier partì da Plymouth il 22 agosto 1968 a bordo di Joshua, imbarcazione amica e fidata; Crowhurst iniziò la propria avventura blu dal porto di Teignmouth due mesi dopo, il 31 ottobre 1968, a causa dei ritardi che subì l’allestimento della Teignmouth Electron, con cui salpò nonostante i numerosi avvertimenti circa la non adeguatezza del mezzo.

Un francese mosso dalla innata passione per il mare e un inglese spinto dalla disperazione e dal desiderio di stupire iniziarono così la marcia acquatica verso la gloria.

Moitessier ebbe naturalmente i favori dei pronostici fin dal primo giorno, e dopo aver doppiato i Tre Capi con largo anticipo sugli altri concorrenti, invece di tornare in Europa, si diresse nuovamente a sud, rinunciando alla vittoria e a 5000 sterline, in onore dell’amore per il mare –un valore non monetizzabile– che ne guidava l’istinto: superò per la seconda volta il Capo di Buona Speranza, e raggiunse la Polinesia francese nel giugno del ’69, dopo quasi un anno e circa 37.500 miglia di navigazione.

Crowhurst, dal canto suo, non venne mai accreditato come possibile vincitore della competizione, ed ebbe enormi problemi già nei primi giorni di mare. In realtà non doppiò alcuno dei Capi, rimase sempre entro i confini invisibili dell’Oceano Atlantico, ma la necessità di recuperare i soldi investiti lo spinse a comunicare via radio false comunicazioni alla giuria per mantenere comunque viva la speranza di vincere, nonostante la consapevolezza che sarebbe stato impossibile falsificare i diari di bordo. Il 29 giugno del 1969 -in concomitanza con lo sbarco di Moitessier a Tahiti- terminò le trasmissioni radio, e la sua imbarcazione venne ritrovata dieci giorni dopo al largo delle Bermude. Crowhurst non era a bordo, e il suo corpo non venne mai ritrovato. A quanto pare si suicidò, accecato dall’ennesimo fallimento e da una smisurata ambizione. Ma siamo nel campo delle ipotesi.

La regata venne poi vinta da Robin Knox-Johnston.

Ecco come le storie di due uomini si possono intersecare, sovrapporre quasi, ai confini del mondo.
Due tipi umani ben diversi, che si sono imbarcati nel medesimo viaggio con spiriti diametralmente opposti. Crowhurst muore nell’affannoso tentativo di un’impresa impossibile per un velista dilettante, forse a causa dell’ossessione del premio e del denaro, che tolse lucidità a una mente già indebolita e disorientata dal forzato isolamento. Lo stesso denaro a cui Moitissier rinuncia, quel denaro che il francese ignora in favore della libertà che gli si prospetta innanzi, una libertà fatta di acqua e cielo e solitudine.

Il mare che inghiotte, ingloba e seppellisce, e non sempre rende indietro.
Il mare mostro e il mare bambino.
Il senso romantico della scoperta in assenza di supporto tecnologico.
L’inaffidabilità della navigazione, senza sapere il dove e il quando.
E claustrofobici spazi a disposizione.
E trimarani erranti in balia degli elementi.
La voglia di vincere e il desiderio di scappare fluttuano nel barcamenarsi ondivago.
Varie personalità e un solo uomo oscillano e si avvicendano al timone.
E c’è chi cerca Dio. E chi trova se stesso.

Effetto Domino

23 lunedì Gen 2012

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Prima del volo

Pensieri in caduta libera    

La notte scorsa leggevo Fitzgerald –“Tenera è la notte”, nel dettaglio- e una frase ha lasciato il segno.

“Rise disarmata. Era così terribile da non essere più terribile, soltanto disumanizzato”.

Il contesto è un duello d’alba vecchio stampo, in cui due personaggi del romanzo si trovano coinvolti quasi per caso, e il sorriso ha il volto della protagonista, attonita dinanzi all’immediatezza e all’inevitabilità del drammatico evento.

L’Effetto Domino prosegue ne “Il Precipizio”

Fabbrica di nuvole

19 giovedì Gen 2012

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Cronache e Storie d'Osteria

 

Tempo fa mi trovavo nei pressi di Page, angusta cittadina al confine fra Arizona e Utah. Ero a bordo di una jeep indiana diretta all’Antelope Canyon, luogo sacro dei nativi d’America.

Tutto intorno un deserto di sassi e sabbia a perdita d’occhio, interrotto soltanto da un orrendo opificio grigio, grigio come il fumo che le ciminiere sparavano nel cielo terso e sconfinato degli Stati Uniti. Incuriosito, chiesi all’Indiano Navajo (la cui anima con ogni probabilità è schizzata nella mia) alla guida del mezzo: “What is it?”- ed egli, sorridendo, rispose: “Oh… it makes clouds!”.

In seguito scoprii che quel mostro di cemento genera energia per una vastissima porzione di territorio, e che forse per questo motivo il ragazzo ne accettava con ironia l’ingombrante presenza, quasi fosse il minimo di quanto è stato imposto -nei secoli- a un popolo espropriato progressivamente delle proprie origini e dei propri territori dagli spietati conquistatori europei.

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