4- Las Dunas de Sao Jacinto – L’aereo -Porto – Caldelas – Peneda Geres National Park- La febbre
E’ mercoledì mattina e dopo una colazione trascurabile prendiamo il traghetto che in pochi minuti ci condurrà nei pressi della Reserva Natural das Dunas de Sao Jacinto, dove ci concediamo una passeggiata di qualche km e un pigro spuntino in spiaggia. Il meteo è strano, per lo più nuvoloso, il sole fa capolino di rado, fa fresco, anzi no.







Nulla di speciale, l’atmosfera induce alla sonnolenza, ma ciò che rompe la calma piatta delle 10 o giù di lì è un rumore in aumento costante dal cielo e un grosso aereo grigio che squarcia il cielo e vira proprio sopra le nostre teste, veramente troppo vicino per chi non sa che a pochi passi da lì ci sono un aerodromo e la pista d’atterraggio di questi giganti dell’aria. Sono preso dal panico, perchè l’aereo sembra fuori controllo, penso stia per finirci dritto in testa, cerco Irene che era vicina a me ma non la trovo, non vedo nulla in realtà. Ecco cosa dev’essere il panico, che probabilmente non avevo mai sperimentato prima in tale misura, se non forse quando anni fa io e Francesca ci trovammo in macchina – all’interno dell’Addo Elephant park- davanti a un grosso esemplare maschio di elefante africano, peraltro incattivito dal picco di testosterone.




All’epoca, seguendo le istruzioni che i rangers ci avevano fornito all’ingresso, dopo aver notato segnali assai poco rassicuranti che lasciavano dedurre che l’elefante fosse in pieno must, procedemmo in retromarcia in modo quasi impercettibile finchè il gigante trovò uno spiraglio per defilarsi fra gli arbusti e lasciarci passare. Se mi concentro, sento ancora il battito del mio cuore e il respiro bloccato dall’emozione e dalla paura di quegli istanti.
Ma torniamo al presente, fra le dune di Sao Jacinto. Al terzo passaggio aereo mi abituo ma non troppo, dato che non ho nemmeno la prontezza di filmare quella scena tanto cupa quanto profondamente Dunkirk. O meglio firmo un decollo di cui si percepisce soltanto il boato. Ho poi pensato a quanto dev’essere spaventoso subire un vero attacco aereo, agli uomini che bombardano altri uomini, a quanto siamo bravi a generare terrore, a quanto siamo infinitamente stupidi in certi casi. Potremmo dedicarci ad ammirare e riprodurre la bellezza del cosmo, ma il lato oscuro prevale, il più delle volte.


Riprendiamo la macchina e dopo un’ora siamo a Porto dove trascorriamo il pomeriggio: dopo qualche minuto di terrore in cui perdiamo la bussola e il controllo e ci ritroviamo incastrati in vicoli tanto angusti da sembrare inestricabili, siamo finalmente in giro per questa splendida città che si sviluppa sulle rive del fiume Douro.







Porto è bellissima, per quanto eccessivamente turistica, visto il proliferare incessante di locali di ogni tipo, che si susseguono l’un l’altro senza respiro. Per il resto, rimaniamo incantati dalla città, dai suoi colori sgargianti e dalla luce che la illumina in un modo unico. Posso ancora vedere e toccare quella luce tanto rara. Il clima è fresco e godibile e la gente distesa e apparentemente serena.








Dai colli dove riposa quieto il Jardim de Morro si può godere una vista magnifica sulla città, mentre il sole affonda dolcemente sul Douro al tramonto. Gian Marco trova un completo sportivo e una palla che gli piacciono. E’ la svolta. Non se ne separerà più fino alla fine del viaggio.







All’imbrunire ci dirigiamo verso Caldelas, un paesino sopra Braga, situato in posizione strategica per visitare i parchi a nord. In paese sembra stia per esordire una festa che però non avrà mai luogo. Sembrano in corso eterni preparativi e messe a punto, forse i paesani si preparano da anni e nel frattempo la popolazione è invecchiata tanto da aver perso la necessaria verve. Nulla accade, almeno per quanto ci è dato vedere. Ceniamo ottimamente presso la Churrasqueira, dove una squadra di camerieri gentilissimi si occupa di noi con cura. Anch’essi sembrano in attesa di qualcosa o sul punto di fare qualcosa, ma qui tutto rimane perfettamente identico a se stesso oggi, domani, e sempre. Forse Caldelas è la fortezza di Buzzati, e a valle dilaga il deserto dei Tartari.
Non mi rendo subito conto della fatica accumulata in giornata, Porto mi è probabilmente fatale e la mattina del giovedì mi risveglio malconcio, ho sintomi influenzali importanti ma non ci faccio caso perché non sono mai stato male in viaggio, eccetto forse quaranta anni fa dopo aver visitato la sommità della Torre Eiffel con la mia famiglia.
Me ne frego, ordino una spremuta d’ibuprofene e andiamo verso il Parco di Peneda Geres, dove scegliamo un bel trekking nel bosco, costeggiamo un lago e saliamo e scendiamo per sentieri non perfettamente segnalati. I parchi non sono ancora organizzati a dovere, in alcuni casi mancano info point che sappiano fornire indicazioni in inglese. Manca un po’ di precisione nelle indicazioni, che risultano spesso sommarie. Manca in particolare uniformità nella comunicazione per quanto riguarda la possibilità di avventurarsi coi bambini in determinati siti, tanto che ti viene voglia di scommettere, ma entro i limiti della ragionevolezza.












Tuttavia il potenziale di Peneda Geres ci è parso notevole, grazie alla vegetazione particolare e coloratissima, che mi ha ricordato in senso pittorico la parte canadese del Glacier National Park, in Columbia britannica per la precisione, dove il giallo e il viola illuminavano un paesaggio di dimensioni ben più ampie di questo. Continuiamo a camminare fra boschi e arbusti, sbagliamo sentiero un paio di volte, finchè un giovane nord europeo ci indica la via del ritorno. Sudo freddo ma ho la sensazione di aver smaltito le scorie influenzali. Dopo qualche ora siamo in un chiosco nel verde, dove decidiamo di portare i bambini in una piscina nei paraggi per farli riposare un po’.
Mi addormento avvolto dal mio fedele smanicato North face, probabile attuale simbolo pro tempore della mia individualità tanto sensibile al clima, ma qualcosa non va. Ho la febbre alta (alta per me), scappo in albergo, mi perdo in un delirio d’ombre che mi assalgono, mi difendo goffamente dalle staffilate influenzali con uno scudo di paracetamolo, affronto demoni immaginari e cerco il santo Graal come lo stralunato Parry (Robin Williams) de La leggenda del re pescatore, poi provo a cenare coi miei ma è solo un’allucinazione, anche quella.



La notte è una doccia di sudore e incubi, di lenzuola subacquee che mi avvolgono come viscida poseidonia oceanica, di visioni intermittenti come il sonno, che si interrompe puntualmente ogni ora, nemmeno fossi intrappolato nel loop esistenziale di Strade perdute. Attendo l’alba con ansia.

