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Cronache e Storie d'Osteria

Avremmo dovuto svegliarci prima, dato che oggi abbiamo parecchia strada davanti, ma non riusciamo a presentarci a colazione prima delle 7e30. Siamo lenti e rilassati, troppo rilassati! Io sono persino accartocciato, dentro, nel groviglio disorganico dei pensieri del mattino, che non sono mai elaborazioni fluide o sensate, e fuori, sul viso segnato da una notte probabilmente tormentata e sulla scia dei monosillabi gutturali che la mia natura primordiale impone prima che il caffè mi faccia tornare -per così dire- normale.

AUS – KOLMANSKOP – SESRIEM

Chiacchieriamo tranquillamente, ripassiamo le tappe e il percorso del giorno, e confermiamo la scelta di andare a vedere la città fantasma di Kolmanskop, che comporterà una deviazione importante, non per la distanza che implica in sè, ma perché si somma alla strada che verrà dopo. Quindi da Aus andremo verso Luderitz, a ovest, percorrendo la B4 prima in un senso e poi nell’altro. Sono circa 250 km di ottima strada che però anticipano la deviazione successiva: anziché proseguire sulla strada canonica per Sesriem, tappa finale di giornata, noi imboccheremo la meno frequentata D707, una pista di sabbia e pietra che attraversa un altopiano incastonato fra il deserto del Namib a ovest e la catena dei Monti Tiras a est. Dopo di che la C27 ci condurrà fino a destinazione. Oltre le due ore e mezzo iniziali, avremo altre 5 ore abbondanti di strada davanti, sperando che tutto proceda regolarmente e senza intoppi.

SOPRAELEVATE DEL MATINEE

La giornata è bellissima, la prospettiva emozionante, partiamo. La strada verso Luderitz sembra un quadro di zio Gino, chi l’ha disegnata aveva mano leggera e tocco d’artista. Anse sinuose si susseguono armonicamente seguendo il saliscendi delle alture che ci accompagnano su entrambi i lati, sopraelevate inventate sprofondano nei falsopiani per poi riemergere altrove. Lo spettacolo del matinèe lascia progressivamente intuire l’oceano. Avvertiamo la presenza del mare, la sentiamo negli occhi, puntando l’orizzonte. Queste strade scivolano via per terminare la propria corsa in mezzo all’Atlantico. Oggi dobbiamo accontentarci dell’idea dell’acqua. Avremo modo di assaggiare l’oceano nei prossimi giorni.

Arriviamo al box per le registrazioni di Kolmanskop alle 9e30 circa. Fra le cose fatte la sera prima, avevo anticipato il pagamento, così mostro la mia prenotazione agli addetti, che scannerizzano il ticket e ci fanno entrare al volo. Giamma ha qualche problemino intestinale, potrebbe aver preso freddo il giorno prima nell’entra ed esci dalla piscina. Lo monitoriamo ma, conoscendo bene il nostro polletto, notiamo i sintomi di un generale affaticamento.

LONTANI DAL PASTORE E DAL GREGGE

Un nutrito gruppo di turisti si accoda a una guida. Comprendiamo nell’arco di pochi secondi che non possiamo in alcun modo stargli dietro: tempi troppo compassati per una platea estremamente comoda, che cozzano sia con la nostra pazienza che con il programma serrato del giorno. A me e Franci ormai basta uno sguardo in circostanze simili, l’intesa è istantanea e non c’è nemmeno bisogno di dire “Andiamo”. No, le nostre gambe ci hanno già condotti altrove. E la scelta è azzeccata, perché avremo modo di visitare la maggior parte delle costruzioni in totale solitudine, lontani dal pastore e soprattutto dal gregge.

BEVERLY HILLS

Ci dirigiamo prima verso le dune più alte, le Beverly Hills di Kolmanskop, dove vivevano il direttore, il contabile, l’architetto Herr Ziegler, l’insegnante (l’inflessibile signorina Hussmann), il Quartiermastro, un sottufficiale incaricato degli approvvigionamenti, e l’ingegnere minerario Kolle. Sembra impossibile che qui, all’inizio del 1900, vivessero a un certo punto fra le 2000 e le 3000 persone, eppure è così.

Da quando -nel 1908- un operaio di nome Zacharias Lewala trovò un diamante mentre lavorava in questa zona e lo mostrò al suo supervisore, l’irreprensibile ispettore ferroviario August Stauch, molti minatori tedeschi si stabilirono qui a caccia di diamanti. E’ una storia comune a tante città minerarie di tutto il mondo. I campi di diamanti di Kolmanskop crearono una ricchezza tale che il villaggio ben presto divenne una città in perfetto stile architettonico tedesco, dotata di ogni comfort e servizi, tra cui un ospedale da ben 250 posti, una sala da ballo, una centrale elettrica, una scuola, un teatro, un casinò, un impianto di produzione di ghiaccio. Qui vide la luce anche il primo tram africano. Una linea ferroviaria di circa 10 km collegava Kolmanskop alla città portuale di Luderitz.

ARRAKIS

Nella parte più alta della città fantasma il clima è distopico, sembriamo naufraghi alla fine del tempo, siamo su un pianeta alieno, unici sopravvissuti a un disastro di proporzioni bibliche. Entriamo e usciamo dalle case vuote, siamo noi i fantasmi forse. Ci aggiriamo fra le rovine in silenzio, immaginare la vita del passato è un esercizio complesso.

La sabbia che invade ogni superficie disponibile rende comunque l’idea della lotta impari e incessante dell’uomo col deserto, che avanza senza sosta e senza poterlo arginare. Questo luogo lascia intuire anche quanto il deserto potrebbe contenere, quanto possa aver fagocitato e poi nascosto nel corso del tempo. Quanta vita è sepolta laggiù? Possiamo provare a immaginare le vicende quotidiane della gente che un tempo viveva qui, ma non possiamo sapere quante storie e vite e oggetti abbia inghiottito il deserto nei secoli. Sabbia ovunque, sabbia sulle scale e nelle scarpe, sabbia nel vento e fra le idee, sabbia che pervade ogni spazio, che corrode materiali e ricordi, che racchiude in sé e poi annulla il passato nelle sue profondità, digerendolo come i vermi di Arrakis.

FALLOUT

E’ il 2046, è un film di fantascienza, in cui noi siamo comparse che si muovono sul set per la prima volta, senza un copione o indicazioni di sorta. Gli interni dalle tinte pastello sono fermi immagine temporali, finestre affacciate su un mondo estinto, in cui immagino aggirarsi le bambole urbane di Francesca Tilio, un’amica ed eccellente fotografa delle mie parti. Bambole di una città spettrale fra il deserto e l’oceano, bambole coloniali di un ovest immaginario.

E’ un luogo evocativo: il passato è un fantasma che si aggira fra le tavole dissestate e il legno che scricchiola e resiste e mugola sotto i passi di coloro che si muovono dall’altro lato. E’ un mondo franato, che continua a sprofondare dolcemente ma in modo inesorabile. Eh si, questa sabbia somiglia al tempo, è la polvere di una clessidra cosmica, è il futuro che si affaccia e sgretola il presente.

VASCA DA BAGNO A VELA

Proseguiamo il nostro giro, scivoliamo a valle a bordo di una vasca da bagno a vela, mentre Giamma continua a manifestare sintomi di malessere che ci costringono ad alcune peripezie. Visitiamo le case dei dottori Kraenzle e von Lossow: il primo fissato con il vino anche come strumento terapeutico (la casa aveva una cantina ben fornita in effetti) e l’altro che aveva una vera passione per aglio e cipolla, fattore che pare utilizzasse per tenere lontani i pazienti.

Buttiamo un occhio alla stazione, ai vecchi negozi, alla piccola fabbrica di ghiaccioli Wonka, e poi lasciamo Kolmanshop, come fecero gli ultimi residenti nel 1956, dopo che la città aveva subito un graduale e costante spopolamento a partire dalla fine della prima guerra mondiale, a causa dell’esaurirsi delle miniere locali e della scoperta di altri giacimenti più redditizi.

Sono le 10e30 quando riprendiamo la macchina. Il viaggio è lungo e insidioso e il serbatoio va rimboccato. Tocca fare un’altra sosta ad Aus, ultimo avamposto prima del dilagante nulla diretto a Sesriem. Stavolta troviamo un tizio più sveglio del cacciatore di foche canadese del giorno prima. Facciamo il pieno, ci facciamo sgonfiare gli penumatici il tanto che basta per attutire l’impatto con la roccia che ci farà compagnia per le prossime ore, e ripartiamo.

D707 – CRONACHE MARZIANE

Nei pressi di Aus lasciamo la B4, imbocchiamo la C12 verso nord est, proseguiamo per qualche chilometro e poi, poco prima del Tirasberg Conservancy, viriamo a sinistra di 90 gradi per imbucare finalmente la D707, la pista che sogno da alcuni mesi, quella che mi ha regalato stravaganti fantasticherie ad occhi aperti mentre percorrevo le sterminate vallate della creazione. In strada si alternano roccia e sabbia rossa. Il paesaggio è una visione allucinante, sembra il pianeta Marte dipinto da Bradbury nelle sue Cronache marziane, o quello che poi ci hanno mostrato i rover Curiosity e Opportunity. I colori mutano in sequenza, il fondo stradale si trasforma rapidamente, passando dalla roccia alla sabbia e viceversa.

Oscillo alla guida, procedo in un moto ondoso e confuso da una riva all’altra della strada in piena, senza mai tenere una traiettoria precisa. Non dobbiamo forare, sia perché è meglio evitarlo a prescindere sia perché il nostro tempo è risicato, e non dobbiamo arenarci nei tratti in cui la sabbia si accumula, perché non c’è nessuno a parte noi, da queste parti, per provare – nella tragica eventualità- a trarci d’impiccio. Questa strada è assai poco frequentata in genere, tanto meno a giugno. Il “grosso” dei viaggiatori più arditi arriverà a luglio. Quindi cerco di evitare i massi più acuminati e i cumuli di sabbia e terriccio, ma questo esercizio richiede un livello di attenzione massima. Il sole picchia forte, e ho la sensazione che i miei occhi stiano per sanguinare a causa dello sforzo profuso. A tratti la prendiamo a ridere, a tratti la concentrazione è tale per cui Franci diventa un navigatore a tutti gli effetti, aiutandomi a scegliere il lato giusto della carrettiera e ad evitare le insidie maggiori. Di tanto in tanto avvistiamo gazzelle, struzzi, gnu, orici, kudu e altre antilopi. Non sembrano reali, tanto sono immerse in questo paesaggio ai limiti della credibilità: gli animali sembrano ombre sghembe di se stesse o figure proiettate da un proiezionista in vena di scherzi, disegni neri stilizzati che acquisiscono forma reale solo nel momento in cui la prospettiva si accorcia.

FURY ROAD

A un certo punto la strada non è più una strada ma una semplice pista dai margini sempre più blandi e incerti, non ha quasi più confini e disorienta ulteriormente chi l’attraversa. Incontriamo un gruppo di orici in prossimità di una roccia, e ci fermiamo ad osservarli. Uno di essi si staglia elegantemente su questo grosso masso piatto. La sua posa è regale, altezzosa, e si rivolge ai suoi simili dall’alto in basso, come se avesse qualcosa di importante da comunicare in nome della sua nobile stirpe. Forse è il loro re, o forse chissà. Alle sue spalle, la regina osserva ogni dettaglio con attenzione, come se avesse scritto lei stessa il discorso e ne stesse testando l’efficacia.

Riprendo a guidare sul suolo marziano, fatichiamo a parlare per le vibrazioni del fantastico mezzo a nostra disposizione, un rover Fortuner in buone condizioni fornitoci da coloni marziani di seconda generazione, un gruppo di mercanti e cacciatori di taglie pronti a tutto in cambio di qualche credito interplanetario. I bambini non hanno la nostra stessa soglia di attenzione e la nostra curiosità, e gli accordiamo un film, nonostante il frastuono e la febbricola di Gim. La varietà dei colori è indescrivibile, i contorni di ogni oggetto sono linee confuse e incerte che mutano forma e direzione lungo il cammino. Di punto in bianco avverto una stanchezza che va oltre la stanchezza: se la causa non è la rarefatta atmosfera marziana, lo è senz’altro la tensione nervosa, dovuta al senso di responsabilità nei confronti della mia famiglia, cui volevo regalare l’ebrezza della libertà nell’assoluto nulla che stiamo attraversando, ma che pure vorrei sapere al sicuro, in salvo dalle incognite dell’indeterminatezza e dell’ignoto.

Non posso mollare, allentare la tensione, e guidare qui è faticoso anche fisicamente, perché tocca tenere una velocità di crociera non inferiore agli 80 km orari per annullare almeno parzialmente l’attrito con il fondo disconnesso, e bisogna stringere e mollare continuamente il volante per contrastare la resistenza da un lato ed evitare ostacoli improvvisi dall’altro. Per lunghi tratti mi lascio scivolare via, proprio come se il rover venisse giù dal Piccolo Cervino. Le esse che disegno sul terreno mi divertono ma diventano estenuanti dopo oltre due ore di rally. Sono le 15 quando usciamo dalla D707. Esulto per aver superato una prova simile, e finalmente mi rilasso. Adesso avverto dolore alle braccia, alle spalle e sul collo, ma ho portato a termine la missione. Non trattengo una punta di orgoglio, che si sprigiona in un sorriso idiota a fine corsa.

SPES BONA

Facciamo un attimo fatica a capire dove andare perché le mappe off line non ci sostengono più nel Namib. Ma poi l’intuito di Franci prevale e ci riporta sulla retta via, ma con una sorpresa. Inizia una brutta C, il terreno intorno si fa più brullo e scuro, molto simile ad alcuni territori dell’entroterra islandese, ma la strada sembra persino peggiorare, perché i solchi si fanno via via più profondi e la strada più dura, tanto che le gomme andrebbero sgonfiate ancora un po’, se Spes Bona non fosse soltanto il nome di un crocevia, un non luogo a cavallo di altri non luoghi.

HAN SOLO

Così andiamo avanti, finchè facciamo il callo ai solchi. Ora ho superato la stanchezza, vago in quei territori che si stagliano al di là di essa, dove regna la bestialità. Monto il grugno del montanaro del Tiras, mi imbruttisco alla rassegnata ricerca della meta, guidare è il mio destino e non posso fare altro. Non solo, poche cose mi riescono meglio, e questa è la mia missione: pilotare il mio mezzo attraverso queste lande desolate, condurre la mia famiglia al di là del guado, che è poi quello che cerca di fare un padre ogni giorno. Tengo duro e via via i solchi si ammorbidiscono. Le alture in lontananza sembrano sommità di iceberg meticci o isolotti neri che galleggiano in mezzo a una distesa d’acqua che è solo un miraggio. La posa drammatica assunta per interpretare Han Solo, un contrabbandiere prestato al trasporto di esseri umani, mi ha fornito la forza residua per andare avanti, quella che non sai di avere finchè non ti serve.

DESERT QUIVER CAMP

Sono le 17e30 quando saltiamo nell’iperspazio con il Millennium Falcon, arrivando a destinazione, il Desert Quiver Camp, un altro luogo difficile da ipotizzare, con una dozzina di bungalow disposti a mezzaluna alla periferia di Mos Eisley, noto porto spaziale del pianeta Tatooine. Questa sarà la nostra casa per ben due giorni. Al check in Rafa Leao ci consegna le chiavi, ci spiega che -se abbiamo bisogno di un ristorante- possono prenotarci quello del Sossusvlei Lodge, con cui sono convenzionati. Diciamo di si, ma senza rendercene perfettamente conto. In questo momento diremmo si a tutto, probabilmente.

SCENE DI VITA QUOTIDIANA

Portiamo il rover al lodge. Stavolta siamo nel primo, quello più vicino alla reception, al bar e alla piccola piscina della struttura. Svuotiamo la macchina, poi ci buttiamo sotto la doccia. Svengo per qualche istante mentre Franci e le animelle discutono di qualcosa e armeggiano fra dentro e fuori. Li sento dire che vorrebbero cenare nel tavolino che abbiamo in veranda: farci un piatto di pasta in tranquillità è un’ottima idea, sembra prepararsi un bel tramonto e accetto di buon grado di riprendere la macchina e andare in paese a fare una piccola spesa. Le quasi otto ore al volante sono soltanto un vago ricordo. Il paese è poco più di un incrocio, arriviamo al discount indicato, un tizio all’ingresso ci fa capire che il negozio di alimentari sta chiudendo. Accompagno i miei al market, e ne approfitto per fare il pieno e guadagnare tempo per l’indomani. Poi raggiungo Franci e i ragazzi. Hanno già trovato pasta, olio e pomodoro. Io mi occupo del vino. Paghiamo e torniamo al bungalow, molto soddisfatti.

Franci si reca in reception per annullare la prenotazione della cena, poi torna e iniziamo ad apparecchiare. Cerchiamo le vettovaglie vicino al frigo, poi di lato, e poi sotto, e sopra, scrutando ogni angolo del nostro curioso lodge, ma non c’è traccia di piatti, pentole e quant’altro serva per cucinare. Ci siamo ormai arresi al fatto di prendere la via del ristorante, e Franci torna in reception per l’ennesima volta. Ma anziché con l’orario della prenotazione, torna con un box nero bello grande, che contiene tutto il necessario per cucinare. Siamo felici di poter restare lì. Il tramonto è magnifico, la pasta è più che decente e a noi piace allestire una propaggine di casa durante i nostri vagabondaggi, e quando il luogo lo concede Franci ci supporta con la sua abilità in cucina. Anche stavolta ha fatto tutto il possibile con gli ingredienti a disposizione.

IL COYOTE E LA VIA LATTEA

Poi la notte ci abbraccia col suo mantello nero, le stelle mettono in scena uno spettacolo indescrivibile, la via lattea è luminosa e sembra indicarci la vita segreta degli astri. A un certo punto, mentre ci avvicendiamo ad osservare il cielo col binocolo, Franci ci chiama e dice: ragazzi, venite, c’è un cagnolino! Andiamo e vediamo un coyote a un metro di noi. Se ne sta lì, pacifico, silenzioso, immobile. Ci osserva, in attesa di qualcosa. Poi le animelle gridano per la sorpresa e lui caracolla via senza fretta, nelle profondità della notte. Ma sento che è lì nei paraggi, ne sono sicuro, magari in attesa dei piccoli resti della nostra cena, magari solo per fare conoscenza. Ma adesso mi aggiro con minor rilassatezza nei dintorni della nostra baracca, osservo le profondità vacue del cielo stellato ma con un occhio a terra, in cerca del coyote, che ho sempre considerato un animale magico, che tra l’altro non avvistavo dai tempi del Sudafrica. Mi piacerebbe ballare con lui, prima di ritirarmi. Ma non ce n’è più traccia, e decido che è ora di congedarmi dalla veglia. Inizia a montare un vento impetuoso, che avanza senza ostacoli sulla superficie piatta del deserto. Il vento scuote la nostra tenda indiana e rimescola i pensieri prima del sonno, che poi prevale sul resto, consegnandoci al silenzio delle tenebre.

CALEIDOSCOPIO

La città fantasma e i suoi spettri, la chimera dei diamanti, le sopraelevate fra le dune e l’oceano, la pista selvaggia e le sue sorelle, il rover marziano, la terra rossa, i regali orici, i neri altopiani e i miraggi delle ombre, le baracche a mezzaluna nel deserto, la via lattea, il coyote nella notte scura, il vento del deserto. E’ stata una giornata incredibile, forse soltanto sognata, che difficilmente potrò dimenticare. Spero sia lo stesso per i miei cari.

Infinitamente Zia Gina

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Posted by osteriacinematografo in Pensieri, Poesie, Sampaolesi, Gino, Storie

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Cronache e Storie d'Osteria, Parole, Pensieri

​​​​​Utilizzo questo spazio alla deriva ma intimo per ricordare mio zio. E’ un luogo ispirato a lui e ai suoi microcosmi ludici, alla sua voglia di giocare e curiosare, di non essere mai contento in fondo. Zio Gino era un genio, un pazzo furioso, un artista totale, un uomo meraviglioso. Era un visionario, un sognatore indomito, un santo bevitore, un compagno di giochi, un saltimbanco, un oste d’altri tempi, un impudente latin lover, un immenso amico, un gran baciatore in bocca, un cantastorie, un principe del convivio, un intrattenitore totale.

Era un personaggio leggendario, infinito, un uomo difficile, burbero e scontroso ma anche gentile e delicato, un poeta raffinato e sensibile, un uomo libero, libero di essere quel che voleva essere, anche solo per dispetto, anche solo per irridere con una giravolta i pregiudizi dell’uomo comune. Come ho appena scritto a mio cugino Tommaso, suo figlio, lui non ha mai fatto finta di essere quello che non è, un atto eroico in questo mondo di finzione.

Mi ricordo una delle sue prime mostre, forse 30 anni fa, lungo le mura di Morro d’Alba. Una specie d’uomo nero usciva dalla tela a sfondo giallo. Ero poco più di un bambino ma le sue opere mi impressionarono e mi entrarono dentro senza più uscire. Forse è proprio l’uomo nero ad essermi entrato dentro, quel demone dell’arte che per anni mi ha fatto credere di poter tradurre in lettere quel che lui dipingeva. Non era questo. Era di più. Io sentivo le sue opere come fossero parte di me, erano anche i miei sogni e i miei incubi quelli che lui mi mostrava. Zio Gino è entrato in luoghi inaccessibili ai più, ha aperto una porta che introduce al suo mondo immaginario, che però è l’immaginario di tanti, che però poi è anche parte del percepito, è parte e retrobottega di tutto quanto resista a cavallo fra la realtà e i sogni.

“Noi due siamo identici Simo!” mi diceva alla fine di certe serate abbracciandomi e baciandomi in bocca. Aveva una sensibilità inaudita e in me aveva forse percepito frammenti delle sue stesse debolezze, delle sue stesse paure. Mi ha aiutato in momenti difficili. Ha fatto sentire a casa me e la mia ragazza, i miei amici e chiunque portassi lassù. Qualcuno forse lo ha pure cacciato.

Una mia grande amica mi ha scritto ieri sera: “Me lo ricorderò sempre un abbraccio tra Voi due al Tamburo Battente, alla fine di una spensierata cena fra Amici. C’ero anch’io per fortuna. Come una fotografia”.

Ho passato la vita ad andare a trovare zio Gino ovunque si spostasse da un versante all’altro della campagna marchigiana, a cercare di capire e interpretare con calma i suoi quadri, che lui mi illustrava con vino e pazienza, con quel suo sguardo sornione e profondo. Era fissato con la luna le mani i sassofonisti i trombettisti gli oboisti i ciclisti i motociclisti e i piloti morti di morte violenta.

Zia Gina

E’ stato un punto di riferimento essenziale per me, le sue osterie erano luoghi di fuga, dimore prive di tempo, castelli diroccati dell’esistenza, luoghi di culto e piacere e parole confuse e sovrapposte fino a notte fonda. Lui sapeva riempire di sé quegli spazi, sapeva ricreare e rigenerare se stesso in ogni sua nuova collocazione, e quegli spazi erano vivi e pieni di Zio Gino.

Mio zio Gino era una poesia beat, e per quanto si definisse pigro, è stato sempre mosso da una profonda inquietudine creativa priva di punteggiatura, da una voglia di manipolare gli elementi e i colori e di piegarli ai propri scopi, di rappresentare le fantasie del bambino curioso che conservava dentro di sé.

Ha lasciato tracce di sé ovunque, tracce importanti, mai banali. Tracce indelebili di una vita vissuta senza risparmiarsi, senza esitare, senza mezze misure, senza cautela o prudenza alcune.

Sei stato il mio eroe, mi volevi bene senza tentennamenti e io ti chiamavo Zia perché ti piaceva troppo giocare a interpretare il ruolo della vecchia zia. Mi mancherai in un modo che non riesco a dire e cerco di immaginarti in questa canzone di Lou Reed, intento a tratteggiare nel tuo universo creativo questa ragazza dagli occhi blu, a liberare l’estro e sublimarne ogni sfumatura fino a trasferirla sull’ennesima, magnifica tela.

https://www.youtube.com/watch?v=KisHhIRihMY

Non ho la consolazione di chi ipotizza mondi paralleli, ma non riesco a non immaginarti a bordo di una Austin Healy cabrio verde scoperta anche quando fuori piove cogli occhiali scuri e i capelli al vento e tele appoggiate dietro alla rinfusa come le idee a sgommare via verso i mille tornanti delle campagne e della memoria “a sud di nessun nord per parlare con la luna”. Con quella risata eccezionale e piena e altisonante a riecheggiare in lontananza.

Un giorno riderò come te, lo so.

Ti amo Zia. Ti amerò sempre per sempre col cuore che picchia in petto come un tamburo battente

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