IL GRANDE CAPO – Lars von Trier

Lars von Trier non si toglie nemmeno il gusto della commedia. E lo fa a modo suo, naturalmente, realizzando un’opera grottesca, spietata, che analizza senza filtro e con amara ironia i rapporti interpersonali: ne “Il grande capo”, l’indagine è ambientata nel mondo del lavoro, dove gli interessi economici schiacciano inesorabilmente ogni altro tipo di valutazione.

Una ditta di informatica danese sta per essere ceduta a un magnate islandese. Ravn è il proprietario occulto dell’azienda, ma non ha mai rivelato la sua identità, fingendosi mero portavoce del capo; gli islandesi esigono però di trattare con il proprietario in persona per la vendita in oggetto, e Ravn è costretto a ingaggiare un attore per sostenere la parte di Grande Capo.

Kristoffer, attore disoccupato con la fissa per il drammaturgo Gambini, ha un approccio spaesato e confuso al ruolo, tanta è la singolarità del gruppo direttivo della ditta e dei suoi componenti, caratterizzati da tendenze estreme e spassose:  c’è chi è ossessionato e reso aggressivo dall’uggia autunnale della campagna danese, chi desidera concedersi sessualmente al presunto capo e chi lo vuole sposare, chi sussulta e piange ogni volta che una fotocopiatrice si aziona, chi ha bisogno di continui e patetici gesti d’affetto.

Kristoffer dovrà impegnarsi per studiare a fondo i co-protagonisti della storia, fino a comprendere come siano in realtà tutti strumenti inconsapevoli di Ravn, che finge di essere il loro migliore amico e poi segretamente medita di licenziarli e di attribuirsi in esclusiva il merito di un loro prodotto informatico.

Il capo Ravn rivelerà la sua vera faccia d’uomo cinico e privo di scrupoli, in grado di realizzare grandi profitti sfruttando il talento di queste persone e il loro investimento iniziale; l’altro Ravn, l’inoffensivo impiegato, il buon amico sempre disponibile a un abbraccio e a una parola di conforto, inizierà a vacillare sotto i colpi inferti in controffensiva dall’attore. Si, perché Kristoffer, lungo il sentiero tracciato da Von Trier, entra nella parte a tal punto che l’attore prevale sull’uomo,  e, attraverso una serie di considerazioni tanto contraddittorie da costruire –infine e per negazione-  una struttura coerente, terrà in pugno il suo pubblico fino all’ultimo istante, riscattando quel palcoscenico smarrito a livello professionale.

Il film procede per dialoghi incalzanti e fittissimi, con la voce di Von Trier che saltuariamente irrompe sulla scena, fra gli scatti improvvisi e rivelatori dei personaggi coinvolti; la telecamera  agisce senza operatore e in funzionalità random,  cambiando e tagliando inquadratura a sua esclusiva discrezione (tecnica meglio nota come “Automavision”).

Il film può risultare difficoltoso di primo acchito, perché è necessario produrre uno sforzo per calarsi in quest’ambientazione estrema e teatralizzata, ma, una volta superata la decompressione percettiva, “Il grande capo” si rivela un’opera geniale, una lente di ingrandimento sulle manie, le debolezze, le viltà umane, che diverte, incuriosisce e a tratti angoscia lo spettatore in un tourbillon emotivo che non concede pause e si risolve in un finale imprevisto.

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