LA TALPA (TINKER TAILOR SOLDIER SPY) – Tomas Alfredson

Gran Bretagna, anni 70. Il capo dei servizi segreti, Control (un azzeccatissimo John Hurt), invia l’agente Prideaux (Mark Strong) in Ungheria: la missione fallisce, Prideaux viene ucciso, e Control è costretto a lasciare il Circus; con lui, se ne va anche George Smiley (uno straordinario Gary Oldman), suo stretto collaboratore. Poco dopo Control muore, e Smiley viene riassunto segretamente dal sottosegretario al governo per indagare sulla possibile presenza di una talpa russa ai vertici dei servizi segreti, vertici che -nel contesto- sono il Soldato, lo Stagnaio, il Sarto, il Povero (il titolo originale riporta infatti tali nomignoli in luogo dell’ennesima storpiatura dei traduttori nostrani).

Su questa base, lo svedese Tomas Alfredson (già autore di “Lasciami entrare”) sviluppa una raffinata spy story, che ricalca saggiamente il modo di fare cinema degli anni in cui la storia è ambientata. Il film è una ragnatela le cui maglie vanno via via stringendosi e aggrovigliando attorno ai potenziali infiltrati, la cui architettura sottile e intricata sorprende senza mai annoiare, nonostante l’assenza di inseguimenti, colluttazioni, e di quei movimenti che spesso caratterizzano le opere del genere.

Il piano temporale è sfalsato, e il presente lascia spesso campo a numerosi flashback ricchi di indizi e particolari, utili a svelare le personalità degli individui coinvolti, le piccole crepe, le gelosie, gli innamoramenti più o meno reali, gli equilibri sempre sottili in un mondo di eterni e poliedrici sospetti.

La fotografia è spettacolare, i colori cupi ma intensi accompagnano ogni ambiente, interno ed esterno, senza la minima sbavatura, senza mai eccedere, e la tensione cresce in una scala di gradini minuti e costanti, grazie a una storia solida e intrigante (il romanzo da cui è tratto il film è di John Le Carrè, un tempo agente segreto del Secret Intelligence Service), a protagonisti eccellenti, a matrioskas che rivelano altre matrioskas che a loro volta possono contenere indizi veri o specchietti per le allodole, inganni e doppi giochi d’ogni sorta, finchè non viene disvelato il “seme”, il ragno, il tessitore ultimo, a sua volta monitorato in un meccanismo perverso e senza soluzione di continuità strutturale.

Merita una menzione speciale il compassatissimo agente Smiley, che domina la scena dall’inizio alla fine, rivelando gradualmente i suoi numerosi legami sommersi, la sistematica capacità di reperire fonti utili, lo sguardo attento su ogni minimo dettaglio, l’attenzione per le parole profuse o ascoltate. Gary Oldman ne interpreta ogni respiro e fornisce una prova indimenticabile (che per certi versi ricorda quella di Toni Servillo ne “Il divo”), si muove lentamente sulla scena, come un felino esperto e sornione, interpretando un agente sui generis, che si districa con calma ed eleganza in ogni situazione, forte dell’autorità derivata dall’antica miscela di conoscenza e potere; possiede un quadro preciso dei rapporti che regolano quel mondo, e ciò gli fornisce una visione chiara dell’insieme, talmente chiara che quasi sorge il dubbio che sia lui stesso la scatola cinese in cui affonda lo sguardo con gelida e distaccata intensità.

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